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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 14

 aprile 2017

Tourbillon

Emanuela Scicchitano

Quando fiorì di rose il lauro trionfale?

Gustav Klimt, Fanciulle con oleandro (1890-1892)

Nella lirica Vittoria navale, inserita nella raccolta Alcyone (1903), Gabriele d’Annunzio proclama: «Io son l’ultimo figlio degli Elleni: / m’abbeverai alla mammella antica; ma di un igneo demone son ebro» (vv. 12-14). La dichiarazione si inserisce sulla scia di altre due altisonanti dichiarazioni poetiche attribuibili alle altre due corone poetiche di fine Ottocento, Carducci e Pascoli. Il primo nelle Primavere elleniche (I. Eolia, vv. 35-36) si era definito «Io, degli eoli sacri poeti / ultimo figlio», attribuendo alla propria opera la legittima eredità del patrimonio lirico eolico, che aveva espresso in Alceo la sua anima più combattiva e guerriera e in Saffo quella più intima e struggente; al secondo invece è d’Annunzio stesso che concede l’epiteto di «ultimo figlio di Virgilio» (Il commiato, v. 115). Con queste formulazioni possiamo riconoscere nei tre poeti tardo-ottocenteschi le tre aree di ideale appartenenza all’antico: Lesbo per Carducci, Roma per Pascoli e la Magna Grecia per d’Annunzio.

La collocazione geografica dell’antico, a cui d’Annunzio punta, vuole emulare in poesia i risultati ottenuti in architettura da Gottfried Semper, lo studioso tedesco che nella prima metà dell’Ottocento mise in discussione l’esaltazione di Winckelmann di una Grecia candida come i marmi delle copie scultoree di età romana, dimostrando invece che quelle originali e i templi pagani fossero stati vivacemente dipinti. Come, del resto, Euripide fa Euripide fa dire a Elena, protagonista dell’omonima tragedia:

terribile è la mia vita e il mio destino, per colpa della mia bellezza. Oh potessi imbruttire di colpo come una statua da cui vengano cancellati tutti i colori, e una parvenza brutta invece della bella assumere. (vv.260-264)

Questa è una delle testimonianze antiche sulla possibilità che le statue e gli edifici antichi fossero istoriati: a partire da essa Semper si interessò alla questione del colore nel mondo classico e si cimentò così nella ricostruzione coloristica del Partenone e di altre note sculture; lo scopo di questa operazione era duplice: da un lato vincere i pregiudizi culturali che sin dal Rinascimento in poi ci impedivano di accettare l’evidenza delle tracce di colore depositate sulle tracce dell’antico, dall’altro dimostrare che il colore ha il compito di valorizzare la struttura sottostante. Le scoperte di Semper squarciarono il velo dei preconcetti neoclassici e aprirono il varco alle teorie di Nietzsche su una Grecia variegata e dionisiaca e a quelle dannunziane di una letteratura poligrafa e onnivora, capace di catturare e rimescolare generi letterari, miti, ruoli consolidati.

È il sogno dannunziano delle «mescolanze vietate» (Laus vitae, IX, v. 2803), della contaminazione fra elementi culturali eterogenei, della purezza perseguita attraverso l’ibridazione di tutte le forme. A questo sogno d’Annunzio dà corpo nel ciclo delle Laudi. Uno degli esempi più suggestivi è la lirica L’oleandro, inserita al centro di Alcyone. In questa ecloga, d’Annunzio presenta un immaginario dialogo fra personaggi dai nomi grecizzanti, i quali si incaricano di raccontare alcuni miti fondanti della cultura occidentale. Lo schema dei racconti a tema, che si incastrano fra loro, e il clima festoso che accompagna la narrazione d’Annunzio li deriva dal Decameron di Boccaccio, ma egli al racconto in prosa preferisce quello in versi, nei quali il gioco delle rime e delle assonanze è più seduttivo per il lettore.

Fra i miti rievocati, emerge nel testo soprattutto quello di Apollo e Dafne, dal quale numerosi scrittori e artisti occidentali hanno tratto ispirazione per costruire il loro immaginario. Fra di essi, il primo a cui fare riferimento è Ovidio, l’autore delle Metamorfosi, autentica bibbia del mito occidentale. Nel primo libro dell’opera (vv.452 ss.) Ovidio ci ricorda che Apollo, colpito dalla freccia di Cupido, posa il suo sguardo su Dafne, figlia del dio Peneo e ninfa dedita al culto Diana, che le suggeriva quindi la castità; per cui quando Apollo tenta di sedurla, ella inizia a fuggire fin quando, disperata, cerca l’aiuto del padre e di Zeus per evitare che il dio la raggiunga. Dafne allora subisce la metamorfosi in un albero sempreverde: l’alloro. Colpito dalla sua bellezza, Apollo decide di consacrare l’albero al suo culto, affinché da allora in poi vincitori, condottieri e poeti ne avrebbero colto dai rami per cingersene la testa. Il racconto ovidiano, che racchiude finalità eziologiche, ha esercitato lontane e profonde suggestioni sugli artisti occidentali. Francesco Petrarca ha plasmato attorno ad esso il suo Canzoniere fino al punto di assegnare alla donna da lui amata il nome senhal di Laura: figura di congiunzione per l’io lirico tra l’amore per una donna e quello per la letteratura, alla quale egli si è consacrato fino al punto di ricevere la laurea di poeta. Nel sonetto XXXIV scrive:

Apollo, se anchor vive il bel desio

che ti infiammava a le thesaliche onde,

e se non hai amate chiome bionde,

volgendo gli anni, già poste in oblio

dal pigro gelo e dal tempo aspro e rio

che dura quanto il tuo viso s’asconde,

difendi or l’onorata e sacra fronde,

ove tu prima, e poi fu invescato io;

e per vertù dell’amorosa speme,

che ti sostenne ne la vita acerba,

di queste impression l’aere disgombra;

sì vedrem poi per meraviglia insieme

seder la donna nostra sopra l’erbe

e far del le sue braccia a se stessa ombra.

Petrarca in questo sonetto si incammina dietro a Ovidio: sullo sfondo del fiume Tessaglia, protetto dal padre di Dafne, il dio fluviale Peneo, intravediamo Apollo, dio del sole, mentre nella stagione invernale tiene nascosto il suo viso. A lui fa appello l’io lirico, affinché possa proteggere dal freddo la pianta a lui sacra: l’alloro, dalla quale entrambi sono stati avvinti per amore. Questo sentimento potrà far rivivere nuovamente il miracolo della metamorfosi: salvaguardata dal freddo, l’alloro ai loro occhi si trasformerà nel miraggio di Dafne / Laura che, pudica, si proteggerà con le sue stesse braccia dall’altrui indiscrezione. Nell’universo petrarchesco, dunque, Dafne conserva il suo senso del pudore, mentre Apollo appare sempre più innamorato, ma di un amore distante, nostalgico e maturato con gli anni. Lo sguardo di Petrarca, tutto rivolto verso l’interiorità, umanizza Apollo; e aggiunge a Dafne nel frattempo un particolare fisico non presente nel mito antico: le chiome bionde, rimando linguistico a Laura. Ovidio infatti si sofferma spesso sui capelli della ninfa, soprattutto però per coglierne i movimenti prodotti dal vento: essi sono rappresentati icasticamente scomposti, sciolti sulle spalle, destinati a trasformarsi lentamente ma inesorabilmente in foglie.

Con la suggestione visiva dei capelli di Dafne attraversati dalla brezza, ci accostiamo a un’altra fonte del mito di Apollo e Dafne: la scultura di Gian Lorenzo Bernini, realizzata fra il 1622 e il 1625 e oggi esposta nella Galleria Borghese di Roma. Il complesso marmoreo racconta il momento in cui Apollo sta terminando la sua corsa e sfiorando con la mano sinistra Dafne che, per sottrarsi all’abbraccio divino, si avvia alla metamorfosi in alloro. Il piede sinistro ha già perso il suo aspetto umano ed è radice, le sue mani si affusolano in rami, i capelli si scompigliano al vento come rami novelli. Tutto è in divenire in questa scultura che, da ogni lato, fa scorrere velocemente scene e azioni come se fossero sequenze cinematografiche, ricche di pathos e dinamismo fisico e psicologico. Mentre il corpo di Apollo corre e quello di Dafne muta, gli animi dei due si evolvono in preda al desiderio e alla paura. Tali emozioni sembrano fuoriuscire dal marmo e avvolgere chi si reca ad ammirare l’opera, come dimostra questo video tratto dalle teche RAI: https://youtu.be/BaeM8WyDwcQ

Fra gli innumerevoli estimatori dell’opera, possiamo annoverare proprio Gabriele d’Annunzio, il quale durante gli anni universitari visse a Roma, dove affinò il suo gusto estetico passeggiando e studiando fra le molteplici testimonianze del patrimonio artistico romano. La statua è, dunque, una fonte dell’Oleandro assieme alle Metamorfosi di Ovidio e ai sonetti di Petrarca. Il testo inizia con una domanda rivolta da Derbe ad Aretusa: «Quando / fiorì di rose il lauro trionfale?» (vv. 39-40). In questo quesito è racchiuso il senso stesso della lirica e del suo titolo: l’oleandro, una pianta sempreverde come l’alloro ma ornata di fiori dai colori seducenti, qui diviene simbolo della nuova poesia di Alcyone che aspira a essere classica, come ci ricordano i richiami all’alloro, e moderna come ci segnalano le rose.

Nella variante della fabula, d’Annunzio presenta la ninfa Dafne mentre fugge dall’inseguimento di Apollo, non perché timorosa del dio ma perché desiderosa di accrescerne il desiderio. E il terrore di quanto le potrebbe accadere è misto a una gioia per lei sconosciuta:

una gioia s’aggiunge al suo terrore / ignota che il divin periglio affretta./…/ sente la forza del perseguitore, / vede l’ardor pe’ chiusi cigli e aspetta / d’esser ghermita, e più non chiama il padre.

In questi versi si può notare la centralità della figura femminile nel testo poetico dannunziano: è una donna la voce narrante, è una donna la protagonista, è femminile di conseguenza anche il punto di vista. Non è un dettaglio di poco conto, perché se è il corpo di Dafne a trasformarsi, allora deve essere questo corpo a narrare le sue emozioni e a occupare lo spazio poetico e l’attenzione del lettore. Il recupero della dimensione corporea costituisce una novità in una tradizione che aveva eletto Dafne a simbolo della castità e della purezza; e castità e purezza in genere si accompagnano a toni monocromatici. D’Annunzio volta le spalle sia all’incorporeità sia al monocromatismo e restituisce corpo e colore alla poesia:

[Dafne] tendegli le mani, / che son fogliute; e il verde sale; e già / le braccia sino ai cubiti son rami, / e il verde e il bruno salgon per la pelle; /…/ il dolce crine è già novella fronda / intono al viso che trascolora / la figlia di Peneo non è più bionda; / non è più ninfa e non è lauro ancora. / Sola è rossa la bocca gemebonda / che del novello aroma s’insapora / Escon parole e lacrime odorate / dall’ultima doglianza. O fior d’estate, / prima rosa del lauro che s’infiora! / Tutto è già verde linfa, e sola è sangue / la bocca che querelasi interrottamente. / In pallide fibre il cor si sface / ma il suo rossore è in sommo della bocca. (vv. 315 ss.)

Questi versi corrispondono poeticamente al racconto scultoreo di Bernini e fotografano la transizione di Dafne nel suo drammatico svolgersi. Ma d’Annunzio a differenza di Bernini, che ha a disposizione solo la forza plastica del marmo bianco, può affidarsi alle suggestioni coloristiche della parola: ecco che compaiono i colori verde e marrone della pianta che cresce e quello rosso-sangue della bocca femminile che indica l’umanità sensuale che la donna sta per perdere per sempre.

E tuttavia divenire alloro non significherà per Dafne perdere il suo colore, una volta compiuta la metamorfosi, l’io lirico così commenta:

la bellezza di Dafne ecco riveste la terra/ le sue membra delicate/ son monti e valli e selve e fiumi e fonti, / il suo sguardo inzaffira gli orizzonti, / la sua chioma fa l’oro dell’estate. (vv. 378-382).

Due sono i colori dominati: l’oro della chioma di Dafne, allusione al modello petrarchesco, e l’azzurro del cielo a cui fa riferimento il verbo inzaffira che d’Annunzio deriva da Dante: «onde si coronava ‘l bel zaffìro, / del quale il ciel più chiaro s’inzaffira» (Paradiso, XXIII, vv. 101-102). In Dante significa adornarsi di pietre di zaffìro, come se fossero fiori intensamente blu; in d’Annunzio prende direttamente il significato di impreziosire il cielo, facendolo fiorire di blu. E tornano ancora i fiori, richiamati dal titolo stesso della poesia: l’oleandro, ovvero l’alloro fiorito di rose.

Ma d’Annunzio realizza in questi versi un altro tipo di accostamento: quello intertestuale fra i due grandi classici della poesia trecentesca italiana: Dante e Petrarca, che rivivono nel cielo che si inzaffira e nella chioma dorata; in queste immagini soffia il vento ideale delle mescolanze vietate di cui i Greci occidentali sono il vessillo.

Nel mito di Apollo e Dafne, esse assumono sfumature differenti: sono la combinazione di fonti diverse, Ovidio, Petrarca e Bernini; sono l’aggiunta del verde, marrone, rosso, azzurro a un mito candido; sono le rose che fioriscono sull’alloro; sono il sovvertimento nella narrazione di un punto di vista maschile con un femminile più complesso e sensuale. Ed è così che d’Annunzio ha aggiunto colore e corpo all’antichità o, forse, potremmo dire: ha restituito all’antichità il colore e il corpo che essa già possedeva.

BIBLIOGRAFIA

CARDUCCI G. (1962), Rime nuove, a cura di P. P. Trompeo e G. Salinari, Zanichelli, Bologna.

D’ANNUNZIO G. (1982), Versi di amore e gloria, a cura di A. Andreoli e N. Lorenzini, Mondadori, Milano.

EURIPIDE (1997), Elena, a cura di M. Fusillo, Rizzoli, Milano.

PETRARCA F. (2004), Canzoniere, a cura di M. Santagata, Mondadori, Milano.

SCICCHITANO E. (2011), «Io, ultimo figlio degli Elleni». La grecità impura di Gabriele d’Annunzio, ETS, Pisa