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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 18

 aprile 2019

Testi

Emanuela Scicchitano

«Si foret in terris, rideret Democritus». Considerazioni in margine ai Racconti da ridere curati da Marco Rossari

 

SUL RIDERE “DI”

Altra cosa non può il mio cuore esprimere
vedendo il lutto che da voi promana
(F. Rabelais)

«Non sono né un clown, né un comico, non rallegro l’umanità, ma rappresento l’allegria. […] rido tutti i secoli, tutte le classi sociali, tutte le età»: è questa la confessione che l’anonimo personaggio del racconto di Heinrich Böll, Der Lacher, sembra rilasciare a se stesso e al lettore. Lui sa di essere solo ciò che sa fare: sa ridere e, dunque, è l’uomo che ride: a comando, senza spontaneità, su richiesta degli attori comici che lo vogliono nel pubblico per contagiarlo con una risata che altrimenti potrebbe non arrivare. La sua condizione di alienazione sembra figlia di quella di Serafino Gubbio, il personaggio pirandelliano protagonista dell’omonimo romanzo, che diventa la manovella che gira fino al punto da non poter più distinguere fra sé e la macchina. Ma nel caso dell’uomo che ride l’“altro” con cui dover far i conti non è fuori, ma dentro di sé: è il ridere. Il ridere “come”, il ridere “qualcosa”, mai il ridere “di”: «così rido in tante maniere, ma il riso mio, non lo conosco» (ROSSARI 2017, p. 260). In questa lapidaria amarezza si condensa la consapevolezza del personaggio; ciò che gli manca è il ridere “di”, il solo che ci fa accedere alla conoscenza del sé nelle sue relazioni con il diverso da noi. Le altre forme di risata sono solo uno scimmiottamento estemporaneo e aggressivo di qualcosa che non ci appartiene e non ci dice nulla di noi.

«Ecco il nostro mondo sembra arrivato a questo punto. Il nervo è stato così sollecitato da ottundersi. Forse dovremmo ridere meno, per imparare a farlo in maniera intelligente»: così commenta il racconto Marco Rossari in un articolo intitolato Ridere meno per ridere meglio, in cui riflette su uno dei paradossi dell’età contemporanea: l’umorismo si è svuotato di senso proprio nel momento in cui sembra diventato il canale comunicativo privilegiato. Tutti ridono insensatamente e caoticamente, stimolati da una proliferazione di battute che fuoriesce dai social media come un blob. Non è nemmeno più necessario essere parte della platea che l’uomo che ride deve trascinare recitando a soggetto: «scoppio a ridere secondo il programma, tutto il pubblico urla insieme a me e la battuta è salva» (ROSSARI 2017, p. 259). No, quel programma è avviato all’obsolescenza perché travolto dalla pervasività dei nuovi media che fanno sì che ogni uomo sia platea, che ogni posto sia ideale spalto per lo spettacolo, che ogni post col suo corredo iconico sia «l’uomo che ride» e che ci invita, in modo subdolo, a ridere “come” ma non a ridere “di”. Questa inclinazione (auto)-critica della risata necessita, infatti, di modelli che sembrano dispersi e non fruibili a un utente medio assuefatto a una comicità hic et nunc, non filtrata dalla meditazione della parola letteraria. O meglio potremmo parlare di una comicità che fa l’occhiolino alla letteratura e alla lunga tradizione occidentale dei calembour e dei bisticci, senza però che dietro di essi ci sia un pensiero strutturato che vada oltre lo stimolo polemico offerto dalla contemporaneità.

A volte, invece, per essere classici è necessario essere anacronistici: muoversi su una linea del tempo ondivaga che guardi l’hic come un altrove, il nunc come un altro tempo. Dalla stessa prospettiva ottica del dottor Fileno che, nella novella di Pirandello La tragedia di un personaggio, si immergeva nella lettura del passato per comprendere il presente, convinto della superiorità teoretica della sua «filosofia del lontano» (PIRANDELLO, p. 716), del suo «cannocchiale rivoltato» (p. 719) a cui sottoporre «le questioni più ardenti e le più mirabili opere dei nostri giorni» (p. 719). Il «cannocchiale rivoltato» del dottor Fileno è quello che i grandi scrittori umoristici della storia letteraria hanno imbracciato per dilatare i particolari del reale occultati alla vista comune e rimpicciolire quelli più evidenti e scontati.

Tocca ora a noi lettori, dismessi gli abiti di semplici utenti, provare a sbirciare da questo cannocchiale per cambiare il punto di vista. Un invito a farlo ci proviene proprio da Marco Rossari, curatore della raccolta Racconti da Ridere: un’antologia tematica dell’umorismo che vuol far ridere “di” e “assieme a”:

racconti satirici, ironici, puramente comici, amari, demenziali, intellettualissimi. Esemplari, sorprendenti, inediti, dimenticati. Sagaci, irriverenti, profondi. Qualche premio Strega e perfino un premio Nobel. Tutte queste storie mi hanno fatto ridere ad alta voce o in silenzio, ma anche pensare, riflettere, annuire, ammirato da un lato dell’animo umano a cui non avevo fatto caso o semplicemente dall’arguzia di un personaggio o di una situazione o anche solo dal talento di uno scrittore. (ROSSARI 2017, p. XII)

Si tratta di un’antologia «personale» che non ha pretese di esaustività bensì di divertimento ed è suddivisa in cinque sezioni dedicate al ridere: «con stile», «con rabbia», «di sé», «di te», «dell’imperscrutabile». Ogni sezione è aperta da una prefazione che introduce alle diverse sfumature della comicità: l’umorismo, la satira, l’autoironia, la parodia, il non-sense e l’assurdo. Cinque ideali contenitori che racchiudono testi molto noti e testi meno noti, individuati dal curatore in base ai suoi gusti di lettore professionale, affinati nella sua attività di traduttore, di scrittore umorista e di insegnante di scrittura umoristica presso la scuola Belleville di Milano. Una rassegna che mira a difendere la comicità dall’effetto posticcio della seriosità lacrimevole e parassitario della risata artefatta: i poli opposti e speculari della comunicazione digitale in cui siamo immersi da utenti e non più da lettori. Accedere ai Racconti da ridere significa, prima di tutto, leggere il reale con lo stesso animo disincantato di Democrito, il filosofo greco che:

aveva cominciato a osservare i concittadini e a sogghignare di ogni loro gesto, suscitando un profondo sconcerto, a tal punto che i senatori della città inviarono una lettera a Ippocrate e gli chiesero aiuto. […] quando Ippocrate – grave, autorevole – gli disse che […] i mali del mondo inevitabilmente toglievano all’uomo la tranquillità, Democrito cominciò a ridergli in faccia. Il filosofo gli spiegò che ridere degli uomini è inevitabile, perché in loro si trovano ogni follia e ogni ridicolaggine. Ippocrate rimase folgorato. Davanti all’assemblea dei senatori, dichiarò che Democrito era il «saggio fra i saggi, il solo capace di render savi gli uomini» (ROSSARI 2017, p. VI).

Così ci testimonia Luciano di Samosata, così ci ricorda Rossari nella sua introduzione, intitolata appunto Date retta a Democrito. Ed Eraclito? Dove lo mettiamo? Nella tradizione occidentale, i due filosofi sono l’uno il doppio dell’altro: se l’uno ride “di”, l’altro piange “per” le sofferenze degli uomini. Li possiamo ammirare l’uno accanto all’altro nell’affresco di Bramante, ora custodito nella Pinacoteca di Brera. Simboleggiano la commedia e la tragedia ma la loro è una dicotomia solo apparente poiché il loro sguardo è sempre puntato su una umanità dolente che si barcamena in una quotidianità ristretta, faticosa, intessuta di ossessioni e priva di sbocchi risolutori, ma alla quale il riso offre vie di espressione che, in alcuni casi, sono persino in anticipo sui tempi. O meglio in anticipo rispetto ai tempi di chi, in questo momento, legge e recensisce il libro.

UNA PAUSA (SEMISERIA) DI RIFLESSIONE

Lettori amici, voi che mi accostate,
[…] leggendo non vi scandalizzate.
Qui non si trova male né infezione.
(F. Rabelais)

E dunque il recensore si prenderà ora una pausa di riflessione (espressione che non vuole essere tristemente evocativa per il lettore dei film degli Anni Novanta in cui c’era sempre chi la usava per lasciare qualcuno senza troppi sensi di colpa), tanto personale quanto lo è stata la selezione del curatore, e che lo porterà a parlare solo di alcuni dei racconti che compongono il libro. I criteri saranno – lo dichiaro – prevalentemente empatici e catartici e avranno a che fare con il mio immaginario nazional-popolare, costruitosi negli anni Novanta, prima evocati, ma non ignaro degli sviluppi degli anni Duemila con le sue derive un po’ trash.

Un immaginario che lo stesso curatore dell’antologia mi ha solleticato nelle pagine introduttive della sezione La moderna proposta. Ridere con rabbia, che raccoglie i testi satirici i quali, sulla scia della Modesta proposta di Jonathan Swift, colpiscono al cuore vizi e presunte virtù del mondo che ci circonda (espressione che vuole solleticare nel lettore i ricordi dei temi da lui svolti a scuola, in cui c’era sempre un mondo che circondava e pure afflitto da gravissimi problemi). Ebbene, in questa prefazione, leggo: «se oggi esiste Lena Dunham, l’inventrice della fortunata serie tv Girls, dovremmo ringraziare una scrittrice sopraffina come Nora Ephron, la sceneggiatrice del fortunatissimo Harry ti presento Sally (ma non solo): eccola inveire contro la manutenzione del corpo femminile» (ROSSARI 2017, p. 64).

Chi non ha mai visto Harry ti presento Sally? Se non lo avete ancora fatto, fatelo. Date retta a Nora Ephron e al suo irridere gli stereotipi con cui il maschile e il femminile si auto-rappresentano. Poi leggete il racconto On Maintenance (Della manutenzione) apparso nella raccolta I feel bad about my neck and other thoughts on being a woman (Il collo mi fa impazzire e altre riflessioni sull’essere una donna). Da donna, leggendolo, mi sono ritrovata: l’autrice tocca infatti, sotto forma di diario tematico, tutti i problemi legati al rapporto con il proprio corpo e indotti dall’imposizione collettiva di modelli esterni a cui aderire. Essere eternamente giovani e curate è quanto la società di massa ci richiede come donne ed è ciò da cui il femminismo ha provato, invano, a liberarci. La bellezza da virtù diventa necessità; una necessità onnivora che risucchia il tempo a disposizione:

sono settimane che cerco di scrivere della manutenzione, ma non è stato facile, e per un motivo molto semplice: la manutenzione mi porta via tanto di quel tempo, che non me ne resta quasi più per sedermi davanti al computer. […] Otto ore la settimana, e che vanno aumentando. Quando batterò i settanta, sono sicura che vorranno almeno il doppio. L’unica consolazione in tutto questo è che quando sarò molto vecchia e nessuno mi potrà più assumere, perlomeno avrò qualcosa da fare. Sempre che, naturalmente, non abbia speso tutti i miei soldi in manutenzione (ROSSARI 2017, p. 92; p. 107).

Nella manutenzione dello status quo femminile sono compresi tutti quei rituali a cui, con posa intellettuale, vorremmo anche sottrarci ma ai quali debolmente cediamo, vittime dei pensieri paranoici che non confesseremmo mai; del genere: e se uscissimo non truccate e poi incontrassimo il vecchio boyfriend che ci ha mollato? Cosa fare: nascondersi? Ecco Nora Ephron dà voce all’inconfessabile: al nostro farci la tinta convinte (magari dalle pubblicità delle case di cosmetica) che i trenta siano i nuovi venti e i quaranta i nuovi trenta (del resto non è l’assunto morale su cui si basava Sex and the city, la bibbia femminile degli anni Duemila?); al nostro farci la dolorosa ceretta convinte che ci avrebbe liberato dall’incubo di assomigliare a un orso bruno per poi scoprire che è una illusione come quella dell’amore eterno (a proposito: Harry e Sally stanno ancora assieme?).

Non vorrei essere letterariamente blasfema (dunque gli animi più sensibili e Ungaretti, pure, mi perdonino) ma leggendo questo racconto mi sono riconosciuta «una docile fibra» dell’universo femminile, a cui si è fatto credere che essere belle equivalga all’essere felici, con buona pace del nostro sempre ben amato Aristotele che invece ci ammoniva a perseguire l’eudaimonia: la buona realizzazione del proprio daimon, della propria perfezione individuale. Al contrario La manutenzione ironicamente ci mette in guardia contro il subdolo meccanismo di alienazione che i brand cosmetici hanno attivato. Donne avvisate mezze salvate? Non so. Forse non salvate, ma divertite almeno.

E quante ancora fra le donne (ma aggiungerei per parità di genere anche gli uomini) non si sono lasciate cullare dall’idea di avere un matrimonio perfetto? Che sia un «modello del vicinato» (ROSSARI 2017, p. 82)? Anche in questo caso il recensore ammette la sua permeabilità culturale agli archetipi culturali degli anni Ottanta e Novanta. Ve la ricordate la famiglia del Mulino Bianco? Io ci sono cresciuta con le loro facce sorridenti e rasserenanti mentre si riunivano per fare colazione attorno alla tavola, avvolta come in un’aureola dal sole mattutino e dolcemente immersa in un locus amoenus che avrebbe fatto impallidire anche il Petrarca di Chiare, fresche e dolci acque.

Ma purtroppo non è l’unica famiglia nazional-popolare con cui mi sono dovuta confrontare: ammetto che sì, un’altra famiglia si ergeva luminosa sul sentiero delle mie utopie. Era la famiglia dei Walsh, protagonista delle serie televisiva Beverly Hills 90210 e così composta: papà serio lavoratore medio-borghese, mamma casalinga e amichevole, due gemelli adolescenti che incarnano i modelli della kalokagathía greca: belli e bravi come più non si poteva sperare. Insomma la famiglia americana ideale: benestante e altruista, giusta e cordiale, severa e comprensiva allo stesso tempo. Senza incrinature, perciò, che non potessero essere ricomposte in un sereno dialogo familiare. E io (assieme a tutte le adolescenti degli anni Novanta che conosco) avrei tanto voluto essere una di loro perché Walsh means family.

E lo giuro: rimarrà così (almeno per me e le Beverly Hills – addicted) anche dopo la lettura del racconto Christmas means giving di David Sedaris. Lo scrittore statunitense non infrangerà il mio idillio televisivo-familiare convincendomi che no, le famiglie perfette non esistono. Eppure tenta di farlo in un testo, dalla violenza satirica vertiginosa e irrispettosa, nel quale in prima persona un pater familias statunitense racconta il romanzo familiare in cui, ovviamente, non possono mancare una moglie casalinga, una villetta, un giardino, un barbecue e pure due figlie gemelle. Sospetto che siano proprio loro, i Walsh, fin quando compare una crepa: «pensavamo di essere felici, ma poi, poco dopo l’arrivo dei Cottingham, nel frizzante mattino di un giorno del Ringraziamento tutto cambiò» (ROSSARI 2017, p. 83).

I nuovi vicini, infatti, innestano una vorticosa sfida competitiva che induce le due famiglie a investire le loro risorse in improbabili migliorie alle loro case: un campo da calcio, una pista da pattinaggio, un multiplex da sette sale occupano gli esterni delle abitazioni fino a soffocare i residui spazi del giardino. La gara diventa pericolosa quando dall’esterno si sposta all’interno delle case e tocca le corde etiche dei due nuclei. Al giungere del Natale la battaglia si gioca nell’agone della solidarietà. Ad arbitrarla un barbone, inconsapevole osservatore e vittima di una munificenza dai contorni pantagruelici e autodistruttivi. Nel regalare sempre di più e meglio al barbone e a chiunque ne avesse avuto bisogno, i protagonisti arrivano a donare se stessi in una climax grottesca e macabra:

Come aveva osato? Il tema della generosità medica l’avevamo praticamente inventato io e Beth, e la tronfia espressione di superiorità che si intravedeva dietro la mascherina chirurgica del nostro vicino ci mandò in bestia. Nella difficoltà, qualsiasi coppia sposata da tempo è in grado di comunicare senza bisogno di parlare. La riprova è che io e mia moglie ci mettemmo all’opera senza nemmeno aprir bocca. Beth […] chiamò l’ospedale, mentre io contattavo un fotografo dalla nostra auto. Prendemmo tutti gli accordi del caso, e prima dell’alba io avevo già donato entrambi gli occhi, un polmone, un rene e buona parte delle vene intorno al cuore. Beth che possiede un innato attaccamento per i suoi organi interni, preferì ripiegare su cuoio capelluto, denti, gamba destra e entrambi i seni. Solo dopo l’operazione scoprimmo che i contributi di mia moglie non erano trapiantabili, ma a quel punto per ricucirli era troppo tardi. […] Ci sarebbero stati altri Natali, certo, ma sia io che Beth ci rendemmo conto che quello sarebbe rimasto speciale. Da lì a un anno avremmo dato via la casa, tutti i nostri soldi e quel poco che restava delle nostre proprietà. […] con un po’ di fortuna, il ricordo del nostro amore e della nostra generosità mi avrebbe cullato verso un sonno profondo e ristoratore, dal quale mi sarei risvegliato solo al mattino (ROSSARI 2017, pp. 90-1).

Senza temere derive splatter, Sedaris punta il dito contro la tanto acclamata charity, espressione del perbenismo statunitense, e contro la standardizzazione narrativa della società, basata sul cliché Walsh da cui siamo (lettori di Fillide esclusi; il noi include me e le mie compagne di liceo, che per l’ultima puntata della serie hanno costituito un gruppo di ascolto e auto-aiuto) rimasti sedotti nei pur lontani anni Novanta. Ancor tardi sarebbero sopraggiunte le liberatorie Desperate housewives a rivelarci che i quieti sobborghi residenziali americani nascondevano le ipocrisie che Sedaris icasticamente qui ritrae.

VITE PANTAGRUELICHE

Meglio è di risa che di pianti scrivere,
ché rider soprattutto è cosa umana
(F. Rabelais)

E ancor più tardi sarebbero sopraggiunti le debordanti Vite al limite che, dallo schermo voyeur di Real Time, ci inondano di un sentimento definibile solo come Schadenfreude, il piacere che nasce dalla constatazione della sfortuna altrui, a cui pure i Simpson hanno dedicato un’intera puntata. Un edonismo facile e sadico, che in questo caso è mosso nello spettatore occidentale dal sentirsi magro, salutista e in forma rispetto a chi giunge a gravissime forme di obesità. I super-obesi statunitensi, le cui vite sono seguite dalla telecamera, appartengono per lo più a strati sociali dal basso livello economico e a minoranze, vittime di una discriminazione etnica che, se non sfocia più in aperte violenze, non prova però pudore nel tradursi in apartheid culturale e alimentare. Le vite al limite si aggirano su auto extra-large in un deserto alimentare popolato da mall extra-large e da fast-food in cui il cibo viene servito da automi fantasmatici che lavorano in postazioni simili a caselli autostradali. Il sovrappeso fisico è direttamente proporzionale al vuoto emotivo, che li soffoca.

Ma gli obesi televisivi non sono prototipi di una nuova genia umana; sono al contrario nipoti degli zii «grassoni» che compaiono nel racconto di Wodehouse intitolato The fat of the land (tradotto in italiano conLa lotteria dei grassoni) che apre la sezione La gentilezza del divertimento. Ridere con stile. Sul narratore inglese Rossari commenta:

Da dove nasce l’armonia sopraffina di un classico come P. G. Wodehouse? Stephen Fry, altro compagno di risate, ha raccontato di aver appreso da lui le meraviglie della trama e dello stile, sì, ma soprattutto di avere imparato durante l’adolescenza – grazie al mite farmaco di quella lettura – qualcosa sulla bontà, sulla gentilezza, sul divertimento. Ed è vero. Qui, ad esempio, l’inventore della saga di Jeeves riesce a imbastire una storia armoniosa su uno dei temi comici più scontati di tutti: la ciccia. Come ha trovato una tale lievità nella pesantezza? (ROSSARI 2017, p. 6).

La leggerezza – direbbe Calvino – di questo racconto sta tutta nella naturalezza con cui il narratore presenta i suoi personaggi al lettore, contando sulla sua complicità. L’inizio in medias res ci mette al centro, come spettatori, di una gara che potrebbe esserci familiare come il Festival di Sanremo: una «lotteria abbinata a chi aveva lo zio più grasso». L’entusiasmo generato dalla lotteria spinge i protagonisti a ingannarsi reciprocamente pur di vincere la cifra in palio, che oscura in loro qualsiasi sentimento affettivo verso gli zii obesi. Fra questi il più probabile vincitore è zio Horace:

un uomo che, lo si capiva alla prima occhiata, aveva esagerato coi carboidrati fin dall’infanzia; uno così tondo e obeso e gonfio da tutte le parti che Shakespeare, se l’avesse visto, avrebbe mormorato tra sé: «di che cibo si nutre questo Horace, per essere tanto cresciuto?» C’era da meravigliarsi che un costume da bagno realizzato da mani d’uomo potesse contenere una tal mirabile quantità di zio senza rompersi nelle cuciture. […] Nelle cuciture nulla lasciava pensare che avesse anche delle ossa. (ROSSARI 2017, p. 10).

Tuttavia lo zio Horace farà a lungo tribolare il nipote Oofy lungo la strada della vittoria; il suo incontro, su una nave da crociera, con una lusinghiera signora inglese lo spingerà a entrare in una clinica per il dimagrimento, in cui il regime dietetico imposto spaventa il povero Oofy alla ricerca di una sospirata vittoria alla lotteria:

[Oofy] ancora rabbrividiva al ricordo di ciò che lo zio gli aveva detto in merito all’effleurage, al palpeggiare, al frizionare, all’impastare, al petrissage e al tapotement che un massaggio a Hollrock Manor comportava. Era spaventato. Con quel genere di cosa, oltra alla dieta a base di potassio e tisana alla bocca di leone, era chiaro che, quando lo zio fosse giunto al nastro di partenza, sarebbe stato l’ombra di se stesso e nulla più (p. 16).

Come gli obesi di Vite al limite, anche il loro ideale zio Horace non resisterà a lungo al clima asettico della clinica perché una vita di diete e massaggi è troppo «dannatamente stupida» (p. 21) per essere sopportata; meglio che le future promesse spose si buttino «nel lago più vicino» (p. 21) e consentano ai grassi zii di emulare le gesta del loro avo, Pantagruel. Insieme a lui potranno liberamente colonizzare quella Galassia di dementi, a cui più recentemente ha dato rappresentazione Ermanno Cavazzoni. Una galassia futuribile in cui gli umani sono divenuti obesi perché impigriti dall’efficienza delle macchine che li sostituiscono in ogni loro gesto: un mondo alla rovescia e carnevalesco in cui tutti sembrano divenuti lo zio Horace del racconto di Wodehouse.

Fra distorsioni fisiche e cinismo senza rimedio, zio Horace e suo nipote Oofy aprono questa rassegna di varia umanità, che Marco Rossari ha curato nell’antologia Racconti da ridere. A chiuderla è lui: der Larcher. Sì, l’etereo personaggio di Böll che non possiede un riso proprio perché ride quello altrui. Un uomo che non sa ridere e non sa piangere, che non sa essere Democrito ma neanche Eraclito e vive sospeso in una dimensione di lontananza da sé. Perché come ci ricorda Rabelais nella dedica al lettore che apre Gargantua e Pantagruel quel poco che si impara lo si fa con la risata:

Lettori amici, voi che m’accostate,
liberatevi di ogni passione,
e leggendo, non vi scandalizzate:
qui non si trova male né infezione.
È pur vero che poca perfezione
apprenderete, se non sia per ridere:
altra cosa non può il mio cuore esprimere
vedendo il lutto che da voi promana:
meglio è di risa che di pianti scrivere,
ché rider soprattutto è cosa umana.
(RABELAIS 1993, p. 6)

BIBLIOGRAFIA

PIRANDELLO L. (1964), Novelle per un anno, a cura di C. Alvaro, Mondadori, Milano, vol. I.
RABELAIS F. (1993), Gargantua e Pantagruel, a cura di M. Bonfantini, Einaudi, Torino.
ROSSARI M. (2017), a cura di, Racconti da ridere, Einaudi, Torino.
ROSSARI M. (15 Dicembre 2017), Ridere bene per ridere meglio, in “Sette. Corriere della sera”.