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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 15

 ottobre 2017

Testi

Emilio De Marchi

Storia di una gallina, da Vecchie storie (1926), Milano, Lampi di stampa, 2003

Vivevano una volta due vecchi sposi. Egli non si chiamava Taddeo, ma Paolino, ed essa, la signora Brigida, buone anime entrambe. Il sor Paolino lavorava in canestri e la moglie in raggiustare le calze; dopo trent’anni, si volevano bene come il primo giorno di matrimonio, anzi, invecchiando, miglioravano nell’amore, come il vino nelle botti suggellate. Se il Cielo mi concedesse tanto buon tempo che io potessi raccontare giorno per giorno la vita del sor Paolino, e della sora Brigida, crederei di giovare col mio libro a’ miei simili, ben più che con un trattato di meccanica celeste: perché, dopo tutto, l’amore e la benevolenza sono il pernio, sul quale la ruota del mondo gira senza stridere. Ma poiché questa consolazione non mi è concessa dalle circostanze, racconterò almeno in quest’occasione del santo Natale un episodio della loro vita, che farà piangere, io credo, tutte le anime sensibili. Beato chi piange, e una lagrima, dice un libro chinese, è più grande del mare.

Dopo l’esperienza fatta negli anni passati e sempre in loro danno, i nostri buoni vecchietti eran venuti entrambi del parere di allevare in casa una gallinetta, per vederla crescere sotto i loro sguardi all’avvicinarsi di queste ultime feste dell’anno, togliendo così il pericolo, tanto comune oggidì, di dover mangiare una cosa per l’altra o fors’anche una porcheria. E poiché sono sull’argomento, si sa oggimai che, se tutte le lepri, che si mangiano all’osteria potessero parlare, i topi non starebbero a sentirle; come, per altra parte, accade spesso a qualcuno, mentre siede col suo pezzo di manzo sul piatto, di vederselo scappar via al suono d’una frustata. La lepre è gatto, il bue è cavallo, e così via il vino è aceto, l’aceto è veleno; non c’è speranza che nel tempo, quando, cioè, le cose saranno diventate così naturalmente false, che per cambiare torneranno quelle di prima.

Ma intanto i nostri vecchietti, giunti sulla sessantina, dovevano per obbligo di coscienza guardarsi dalle cose false e tener da conto lo stomaco: non meritano lode, se all’avvicinarsi delle feste comperavano una gallinetta viva per nutrirla colle loro mani? La cara bestiola passeggiava per casa da circa tre mesi, chiocciando, piluccando, ruspando, come fanno tutte le sue pari.

Brigida, mentre suo marito stava alla bottega, soleva discorrere con lei o le tagliuzzava foglie di verze, o le sbriciolava del pan di melica, invitandola a bere in una terrina bianca che pareva porcellana. Che dirò del sor Paolino? prima d’entrare si fermava dietro l’uscio chiamando chi-chi-chi; se fosse stata nelle nuvole, la povera bestia correva giù. Il canestrajo allora rovesciava le tasche in terra e ne usciva del grano, del pane, del biscotto, che la gallina bezzicava divinamente sotto gli occhi beati dei suoi padroni. Una vedova che abitava vicino al loro uscio e che, dopo la morte d’un suo pappagallo non poteva resistere a tali spettacoli, piangeva come una bambina. – Che peccato! – disse un giorno il sor Paolino, – che peccato che la povera bestia non possa assaggiare una goccia del mio caffè! oggi ha mangiato asciutto e le farà peso.

La sora Brigida invece trovava che, stando sempre in cucina sul mattone, avrebbe patito del freddo; non che volesse dire con ciò che un paio di calzette sarebbero convenute a una gallina, ma fece in modo che Paolino stendesse almeno una vecchia stuoja presso l’acquajo. E bisogna dire che la gallina avesse veramente dei meriti, perché con niente non si fa il buon brodo, né la buona stima.

Le penne infatti le aveva screziate sul petto e d’un bel colore rosso dorato sulla schiena; le zampe magre e svelte, l’occhio vivace e malizioso la sua parte, e ai ragionamenti dei padroni rispondeva con certi movimenti del collo, degni di qualunque ragazza da marito. Le volevano bene, dunque, non solo perché fosse una gallina, ma perché gli animi buoni si attaccano volentieri alle cose buone. Mentre i due vecchietti sedevano a tavola a mangiare quel po’ di carne comechessia, comperata dal beccaio (né potevano allevarsi in casa un bue come un pulcino), la gallinetta saltava su, guardava ne’ piatti, ora coll’occhio destro, ora col sinistro, con tanta innocenza che i due vecchietti perdevano la memoria dell’appetito.

Ma i giorni passano per tutti. Già si discorreva delle feste, come se fossero giunte: la gente pensava al modo di passarle bene e il Natale veniva innanzi colle sue scarpe di feltro. I nostri due buoni vecchietti già da cinque o sei giorni si vedevano sopra pensiero, come se avessero nel capo un cespuglio di spine; ma, essendo e l’uno e l’altra d’indole timida e rispettosa, per paura di farsi torto a vicenda, masticavano in silenzio il loro dolore. La gioja comune che si spande in questi giorni e che rischiara le case e gli animi della gente, non li rallegrava, anzi se qualcuno diceva: – buone feste, sora Brigida, – essa rispondeva appena, crollando malinconicamente la testa. Anche il sor Paolino a bottega non era più lui; stava immobile, colle mani sul canestro, gli occhi fissi in terra e pensava: «Se non fosse che la Brigida ha bisogno d’un vitto sano e nutriente, chi oserebbe strappare una penna a quella povera creatura?». E la sora Brigida dal canto suo, correndo sulla calza: «Se quel pover’uomo non avesse lo stomaco disfatto, se non avesse speso per allevarla, chi avrebbe cuore?… ma dirà che sono tenerezze da donna malata, e riderà di me; come noi ci burliamo della nostra vicina». Così passò qualche altro giorno, senza che né l’uno né l’altra osasser toccare quel brutto tasto.

Mancavano tre giorni appena al Natale e bisognava uscirne. Sedevano entrambi innanzi al camino, dopo un pranzo di magro fatto con certi pesci, che forse non eran pesci. Egli, il sor Paolino, andava costruendo colle molle una catasta di fuscellini, intorno a un ceppo, che bruciava vivo vivo, ed essa, la sora Brigida, in una cuffia di traliccio, colle mani sotto il grembiule, piangeva in silenzio nell’ombra. «Credi tu, amor mio» cominciò il sor Paolino, «che fosse veramente una tinca che abbiamo mangiato? »

«Credo di no» ella rispose stentatamente.

«Se si potesse tenerli in casa nella catinella i pesci, come si tengono i polli nella stia, si potrebbe vedere» soggiungeva il marito per tirare il discorso sull’argomento. Brigida si scosse sulla sua sedia e soffocò un sospiro dentro di sé per non dare segno a quel pover’uomo della sua sciocca debolezza. Vedeva troppo bene che Paolino contava di poter mangiare almeno il giorno di Natale qualche cosa di schiettamente sano. – Essa non immagina punto il mio pensiero, – disse fra sé il buon uomo, a cui spiaceva e come uomo e come marito di mostrarsi in qualche parte da meno di sua moglie. Sedevano innanzi al fuoco, come dicevo, scaldandosi le ginocchia e discorrendo così, quando a un tratto videro venire innanzi la loro gallina, che si era levata ad ora insolita, e che veniva a specchiarsi nella fiamma. Le sue penne mandavano bagliori e fosforescenze d’oro e di piropo e, o fosse che i poveri vecchi la vedessero attraverso le lagrime, o fosse altrimenti, parve loro una cosa piovuta dal Cielo, se non proprio il gallo che convertì San Pietro. Il sor Paolino non poté resistere a quella vista, e con un pretesto uscì; e uscita anch’essa, poco dopo, la povera donna, andò a bussare all’uscio della vedova, in cerca d’un consiglio.

Il canestraio trovò per via Angiolino del Trapano, suo vecchio amico, uomo prudente e quasi letterato, gerente d’un giornale politico, che propugnava una santa causa; Angiolino ascoltò la gran passione dell’amico e si concertarono insieme sul modo di regolarsi in questa difficile circostanza. La mattina dopo, e precisamente la vigilia di Natale, Angiolino venne a trovarlo a casa e strinse la mano alla sora Brigida. Egli s’era messo quel dì l’abito scuro e teneva in mano il cappello a cilindro come soleva fare nelle cerimonie o nei processi contro la santa causa. Parlò della mala piega delle cose d’Europa, dei tempi che si fanno grossi, della poca fede, della poca umanità che c’è nel mondo, e stava per aprire la bocca sull’argomento (che già Paolino era sugli spilli), quando entrò dall’altra parte anche la vedova, cogli occhi rossi, come il giorno che aveva trovato il suo pappagallo strozzato fra due ferri della gabbia. Era anche questa un’intelligenza presa fra le due donne. Tutti e quattro sedettero, sconcertati ciascuno per riguardo agli altri, mentre la gallina, più fortunata di tutti, passeggiava tranquilla, beccando le screpolature, quasi che al mondo non esistessero né i grandi né i piccoli affanni.

Vi fu un istante di silenzio. Poi Angiolino del Trapano, carezzando colla manica il pelo del suo cappello, coll’occhio fisso alla gallina: «Fortunate le galline» disse «che sfuggono a queste preoccupazioni! Esse posseggono ancora quella semplicità che gli uomini, fatti tiranni di sé stessi, mettono in non cale, correndo dietro, come sciacalli, al proprio interesse, paghi soltanto quando sono pagati. Beati i tempi dei patriarchi, quando gli uomini si contentavano d’un piatto di lenticchie, né avevano bisogno, come si vede in questi giorni, d’insanguinarsi le mani nella strage di tante creature, che sono pure creature di Dio! Quanto più bello e santo sarebbe, specialmente in queste occasioni, mostrar la bontà dell’animo nostro, concedendo riposo e tregua anche agli animali vivi e morti, che sono stati creati non per l’ingordigia umana, ma per far più lieta la natura col loro canto armonioso, collo splendore delle loro piume, col tenero belato, col guizzar rapido e snello nelle acque dei fiumi. L’usignolo col suo canto notturno… » seguitava Angiolino del Trapano; ma uno scoppio di pianto interruppe il bel discorso. Paolino strinse nelle sue la mano della Brigida, e sorridendo sotto il velo delle lagrime, esclamò: «Noi non saremo tanto cattivi; anch’essa mangerà nel nostro piattello».

Quelle care persone si accordarono di pranzare insieme il giorno di Natale, per far più lieta la festa dell’umanità. La sora Brigida preparò un pranzetto d’uova, di berlingozzi, d’insalata, e un pasticcio di riso e, poiché i tempi sono diventati così tristi, che uno non sa ormai quel che compera e quel che mangia a tavola, aggiunse per riguardo agli ospiti, anche una gallina delle solite, comperata sul mercato, la mattina al buio, senza discutere, sicura in cuor suo che questa almeno non sarebbe stata una gallina.