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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 17

 ottobre 2018

Tourbillon

Enrico De Zordo

Enrico De Zordo, testi. Postfazione di Gabriele Di Luca

Tre gemelli

La stringata descrizione di due gemelli seduti sui sedili posteriori di un tassì.

I due sono identici in tutto: hanno occhi uguali, bocca uguale, scarpe uguali. Entrambi pesano sessantaquattro chili e la stessa ruga d’espressione solca la fronte dell’uno e quella dell’altro. Mentre il gemello che occupa il sedile dietro il tassista alza la mano destra e se la passa tra i capelli, il gemello seduto al suo fianco fa lo stesso.

Nemmeno il fatto che il linguaggio del primo sia aulico e quello del secondo volgare costituisce una differenza rilevante, poiché i due hanno smesso di parlare da diversi anni.

– Uffa, deve pure esserci un limite all’eguale!

Quando l’autore si accorge che il tassista è identico ai due passeggeri, per evitare un’inutile proliferazione di gemelli introduce nel racconto un incidente stradale.

Il gemello aulico spira, quello volgare crepa. Il terzo gemello, linguisticamente equilibrato, si limita a morire.

Questo è un genere di storia che non mi interessa più.

(Divertimenti tristi, Merano, Edizioni alphabeta Verlag, 2018, pag. 31)

Il selfie della vita

Se un’onda eccessiva, imprevedibile, la cui altezza esorbitante sbeffeggia le leggi della fisica, sollevasse una nave da crociera a perpendicolo, con la poppa in alto e la prua sprofondata nelle schiume; se i passeggeri raccolti nella sala del teatro di bordo per assistere a una pièce drammatica obbedissero senza accorgersene alla loro vocazione di star e precipitassero sul proscenio collocato verso prora, venendo sbalzati dai sedili, o ruzzolando in basso per i brevi corridoi che separano la platea dal palcoscenico; e se in via del tutto eccezionale questo accadesse, anziché non accadere, ecco che l’unico spettatore rimasto al proprio posto, appeso a testa in giù con un piede impigliato tra i braccioli di due poltroncine, alzando leggermente la testa e distendendo il braccio destro avrebbe l’occasione di farsi il selfie della vita, con la sua faccia gigantesca e sorridente in primo piano e sullo sfondo un numero imprecisato di primi attori ammucchiati sulla ribalta, i quali, comprimendosi e schiacciandosi l’uno contro l’altro, rappresenterebbero involontariamente un protagonismo statico senza soluzione di continuità. Tra un corpo e l’altro non ci sarebbe spazio, qualsiasi movimento sarebbe impedito.

Se la faccia smisurata dell’uomo sospeso non occupasse l’intero schermo dello smartphone, sullo sfondo si vedrebbe il ginocchio di un mattatore incastrato nella bocca aperta di una star seduta sul viso di un protagonista, nel cui petto affondano i piedi unghiuti di una diva con il naso premuto sulla schiena di un personaggio principale, a cui una vedette, seppellita sotto un ammasso indistinguibile di prime attrici e di lustrini, schiaccia il collo con il gomito destro, non curandosi dell’istrione con i riccioli biondi che, pur non essendo in grado di respirare, giace sotto di lei facendole l’occhiolino.

Seguirebbe forse il momento in cui l’uomo a testa in giù, sfilando il piede dalla scarpa incastrata tra le due poltroncine, precipita sul cumulo di primi attori pigiati sul palcoscenico, penetrandovi come in un lago d’acqua solida. L’immersione nel mucchio, conforme al sogno ricorrente di ogni tuffatore, avverrebbe senza produrre schizzi. Un attimo prima dell’impatto il corpo dell’uomo si sovrapporrebbe a una striscia verticale immaginaria, perpendicolare alla superficie del carnaio; i suoi talloni formerebbero, con i polpacci, la schiena e la nuca, una linea tesa e dritta, che continua nei gomiti e nel dorso delle mani, per terminare nelle unghie delle dita che già sfiorano la pancia tatuata di una star.

Ecco, se questo accadesse, se anche l’ultimo passeggero smettesse di far parte del pubblico per diventare protagonista, in platea non resterebbe nessuno: non uno che battesse le mani, non uno che spaccasse tutto; nemmeno una mosca che zigzagasse a vuoto in cerca di una testa china su cui posarsi.

(prosa inedita per la rivista “Fillide”)

Esercizio di disattenzione

Il segreto è prendere la mira e mancare esattamente un punto indefinito lontano dal bersaglio; oppure, in alternativa, escogitare un metodo inflessibile per educarsi alla disattenzione.

In ogni caso, quanto più un evento è coinvolgente, tanto più vale la pena di pensare ad altro.

Al Maracanà, durante la finale del campionato del mondo, occorre non guardare la partita di calcio, ma chiudere gli occhi e visualizzare, per esempio, le mutande degli spettatori.

Se si svolge l’esercizio fino in fondo, distraendo l’attenzione dall’evento principale, verso la fine dei tempi regolamentari si verrà premiati con l’immagine imprevista di un reticolo di fili sospeso sopra il campo: su ogni filo, srotolato da una curva all’altra, da una tribuna all’altra dello stadio, fluttueranno nell’aria, allineate come tante bandierine bianche e rosa, le mutande stese degli spettatori, trascinate in su e in giù, tra cori irriverenti e scoppi di petardi, dal capriccio ondisonante della ola.

(Divertimenti tristi, Merano, Edizioni alphabeta Verlag, 2018, pag. 36)

Gabriele Di Luca, Postfazione

Dal tavolo quadrato al mondo

Invero, questo esperimento di redazione casuale [di un’opera] è quello a cui tende tutto il mio essere.
(Tommaso Landolfi, Des mois)

Lo scrittore che preferisco, seduto sulle ginocchia di Calvino, sfida Manganelli nel lancio di palline di carta.
Il gioco consiste nel centrare la nuca di Musil, il quale gira le spalle a tutti, seduto al tavolo degli scienziati .
(EDZ)

Secondo una visione ingenua e perciò molto diffusa, nessun testo – sia esso narrativo o poetico – potrebbe essere spiegato a dovere se gli elementi sufficienti alla sua comprensione non fossero già contenuti nel suo perimetro, se cioè non fossero intelligibili a partire da “tutto” ciò che lo fa essere quel che è. Ma è proprio la natura di questo “tutto” a scompigliare le carte, a mandare in frantumi l’approccio ingenuo. Nessun testo può infatti essere racchiuso, trattenuto entro il suo perimetro, giacché esso tenderà necessariamente a impattare sia l’onda di significati e dei significanti che lo precedono – i significati e i significanti dei quali esso si nutre, che lo attraversano – sia quella delle interpretazioni che lo fanno vivere in ogni sua possibile percezione o rifrazione presente e futura. Il compito di queste righe non è pertanto rendere più comprensibile quel che il lettore giunto sin qui avrà afferrato benissimo con i suoi mezzi, né ipotecarne il senso che altri gli vorranno dare, quanto piuttosto ripercorrere la storia della sua genesi, adducendo alcune brevi notizie sulle avventure della sua composizione.

Al principio immaginiamoci un tavolo quadrato. Un grande tavolo quadrato collocato in una stanza di un’enoteca che oggi non esiste più, ma che allora era il punto d’incontro di tre trentenni un po’ sbandati, un po’ reduci da grandi sogni appena sfioriti, eppure ancora desiderosi di ricavare dal comune sbandamento qualche scampolo di consolatoria saggezza. Vinissimo, si chiamava quell’enoteca gestita da un oste all’apparenza burbero e convinto, per sua e loro disgrazia, che «tutti i vini sono buoni». Ogni sabato, verso le quattro del pomeriggio, i tre amici prendevano posizione attorno al tavolo quadrato, sceglievano con cura maldestra una bottiglia (anzi: prima sceglievano una bottiglia, quindi si sedevano attorno al tavolo quadrato) e cominciavano a parlare per due ore del mondo. Ovviamente non parlavano di tutto quello che si può dire sul mondo («non si può vedere che non si vede quel che non si vede», ha scritto Niklas Luhmann), ma a loro pareva intanto abbastanza per scorgere qualche scampolo del macrocosmo oltre quei limiti angusti, oltre a ciò che solitamente erano costretti a vedere: il microcosmo attorno a quell’enoteca, la cittadina nella quale abitavano. Il tavolo quadrato era insomma ciò che un famoso filosofo chiamò das Geviert , l’aprirsi del mondo nelle quattro direzioni del cielo e della terra, dei mortali e dei divini:

Nessuno dei Quattro si irrigidisce in ciò che ha di specificamente proprio. Invece, ognuno dei quattro, all’interno della loro trasposizione, è espropriato in modo da divenire qualcosa di proprio. Questo espropriante espropriare è il gioco di specchi della Quadratura.

Come si sarà capito, a quel tavolo quadrato, i tre amici cadevano spesso in uno stato di evidente ubriachezza.

La prima avventura, allora, fu trasformare in scrittura quei discorsi vasti e volatili come le quattordici sostanze che gli enologi riscontrano nel vino. Enrico De Zordo era chi, tra loro, aveva il talento, la capacità per farlo. I Foglietti sudtirolesi – che in questo volume compongono l’ultima sezione – rappresentano per l’appunto la versione definitiva, o per meglio dire l’ultima versione stabilizzata della precipitazione originaria. Miniature di situazioni probabili, o anche improbabili, sospese tra la caricatura e l’apologo. Autentici “foglietti”, nel senso che Ennio Flaiano dava ai propri abrasivi esercizi di osservazione, riscritture criptate di autori amati. Tutte cose capaci di stemperare in amaro umorismo (nel tono è già contenuta la radice affettiva di tutti i tristi divertimenti a venire) quel che nella dimensione pubblica del luogo era invece (ed è ancora) sempre preso terribilmente sul serio. Si tratta insomma di rapidi scorci, Bilder einer Ausstellung, frammenti di un ciclo estendibile all’infinito e che in origine avrebbe dovuto essere intitolato Sudtirolo ideale eterno. Un controcanto al racconto ufficiale dell’autonomia, fatto di lamenti e vittimismi incrociati, oppure di celebrazioni senza mai grandi entusiasmi, e per questo bisognoso di essere smontato e messo a distanza evidenziandone anche gli aspetti comici, grotteschi, parossistici: perché a volte soltanto una risata (non certo il Dio del filosofo, quello del Geviert) ci può salvare. E poi «zuppa d’orzo per tutti».

La seconda avventura segna lo sbriciolarsi dei frammenti in porzioni ancora più piccole. Una riduzione all’osso della scrittura, perché la polpa politica, sociologica, storica, è ormai cancrena, cosa morta, comunque in via di putrefazione. Flaiano passa il testimone a Franz Kafka, le parole diventano schegge taglienti, da ripulire e lucidare per liberarle dalle incrostazioni di un senso ormai usurato e da appartenenze diventate definitivamente obsolete. La scrittura qui è pienamente soggetto, meccanismo reso autonomo, non più strumento finalizzato a illustrare ciò che ne starebbe al di fuori, ed emana bagliori fosforescenti. Il cielo dipinto è notturno, le stelle “punteggiatura”, e non ha più nulla di “locale”, bensì si dispiega come un sudario di colore cobalto sospeso su un paese qualunque, percepito dalle bassure di una condizione di isolamento che ricorda il passo elegiaco di Robert Walser:

Un piano non esiste, nessuna meta ci orienta. A parte la felicità dei nostri passi, c’è solo un vento fresco che ci soffia sulla faccia.

La terza avventura tira le somme, e la somma fa zero. Leggendo le prose aeree della prima sezione di Divertimenti tristi, ma di fatto l’ultima a essere stata scritta, viene in mente l’immagine contenuta nel titolo di un libro di Daniele Del Giudice, Staccando l’ombra da terra: «Può accadere un giorno di dover volare da soli, e di perdersi come ci si perde nella vita». In Cipria turchese non si parla però di voli effettivi, e la meteorologia esistenziale che avvolge il lettore è un pulviscolo di sensazioni in contrasto, spuma di oggetti privati del loro peso, essiccati, quindi soffiati e agitati in un’ampolla di vetro fine come carta: «Le principali attività della cipria sono due: raccogliersi in nuvolette, disperdersi di nuovo». Voltandosi verso il panorama dal quale questa narrazione è partita, e ancora più in basso, verso il tavolo quadrato attorno al quale possiamo illuderci di ritrovare i tre amici, anche il ricordo di quelle conversazioni sembra definitivamente evaporato in un balbettio in cui, a malapena, si riconoscono «filamenti di alluminio, brezze, cinguettii, mai un aggettivo, pettegolezzi, cammei, carta velina, cenere, schiume, elenchi di parole sconnesse» (La catasta di Arturo). Le prose minime sono già trapassate in poesia.

Infine, si potrebbero ovviamente dire molte altre cose per corrompere la presunzione di autosufficienza che ogni lettore ha comunque sempre il diritto di avanzare, sfogliando pagine bellissime come queste. Non lo farò, perché la mia testimonianza termina con un’attestazione di affetto. Giusto il tempo per svelare alcuni ultimi dettagli. Ci sono voluti tredici anni di sedimentazioni, limature e innumerevoli ripensamenti per avere in mano l’opera alla quale tendeva tutto il suo essere. Questo però non sarebbe ancora bastato se, mediante un gesto di dolce violenza, non avessimo insistito, quasi costretto Enrico De Zordo a fermare il suo esercizio d’inesausta riscrittura che, come nei paradossi di Zenone di Elea, avrebbe potuto rovesciarsi di­sgraziatamente nel non-essere: «Ferie d’agosto. Parto da Bressanone e vado a Bressanone, ma torno in giornata». L’Alto Adige, Bressanone appunto, la piccola Heimat della Valle Isarco in cui era piantato il tavolo quadrato, occhio aperto sul mondo, incipit del viaggio apparente, in cui «si comincia a salire dopo aver raggiunto la cima». Mai muovendosi da lì, eppure avviati a fare della propria condizione d’isolamento un simbolo di liberazione o dannazione, i testi qui raccolti sono scorci anamorfici, particolari riconoscibili sbalzati in allusioni universali e, viceversa, temi vertiginosi che trovano posto nel palmo di una mano:

Si dice che quaggiù, nel sottosuolo, le insidie siano i buchi, i pozzi, i vuoti. Per me, che li conosco tutti, l’abisso più profondo è in superficie.

Una prova di maturità non solo individuale, non solo legata alla particolare biografia dell’autore, bensì l’esempio di come la marginalità, quando è benedetta dalla luce della qualità, può ambire a conquistare i traguardi più alti.