[ Il testo è apparso per la prima volta con il titolo Porca vacca! – La vache! Pour une sémiologie de la vache et de ses proches, in Patrizia Nuvolari, La vache Pub. La mucca e i suoi parenti nella pubblicità, Regione Autonoma Valle d’Aosta, Comune d’Aosta, 2002 (testo bilingue), ed è stato ripubblicato in “Charta”, 60, 2002.
Enrico Sturani si presenta così: ‘advisor’ del MUMU, il ‘Mucca Museum’ di Aosta. ]
Fra toro e mucca non c’è paragone. A lungo solo il primo ebbe l’onore dell’immagine e dello spettacolo: dipinti sulle pareti di preistoriche caverne, stilizzati sui vasi micenei, essi sono protagonisti – e vittime – della corrida; tuttora chi, per scongiuro, fa le corna, non sa di evocarli come animali totem; essi battezzano la città di Torino, ove sputano acqua nelle fontanelle, mentre quello inserito nel marciapiedi sotto i portici di piazza San Carlo, offre i genitali al calpestio degli intenditori.
Solo una nubile professoressa di latino poteva farsi in proposito delle idee sbagliate ma lusinghiere. Con mia madre era dal macellaio: sul bancone, tra i vari pezzi, troneggiava. già capitozzata, una grigia mammella: incuriosita, chiese cosa fosse; arrossendo, il macellaio rispose: “È cosa …”. “Sì, sì, ho capito”, fece lei, togliendolo d’imbarazzo; poi, dando di gomito a mia madre, sognante, soggiunse: “Però, non credevo che i tori le avessero così grosse”.
Questa è la riprova di quanto forte sia l’influsso esercitato dal toro sull’immaginario popolare; il che ne spiega l’uso simbolico: non a caso certe focose auto sportive prendono il nome da razze taurine. La vacca, così come il giovane vitello e il mortificato bue, non assurge: al massimo, il suo nome è usato come epiteto insultante a indicare certe signore un po’ troppo libere (e, in Francia, certi severi dipendenti municipali); rafforzato accoppiandolo al nome di un altro vilipeso animale, esso può divenire esclamazione di disdetta.
Solo nel XVII secolo, in Olanda, le mucche conobbero il loro primo momento di gloria. Paulus Potter, che aveva iniziato a dipingerle nei suoi paesaggi, come segno di pace bucolica, a poco a poco le portò in primo piano, traendone il titolo dei suoi quadri: in uno di questi la bestia, soddifacendo i propri bisogni, costringe il catalogo dell’Ermitage a funambolici eufemismi. Da allora vacche e buoi sono simboli di mansueto pacifismo, di remissività e scarsa voglla di avventurarsi fuori dai “paesi tuoi”; Carducci li ha marchiati con un’ode di cui nessuno andrebbe fiero: “T’amo, o pio bove”. Nell’ultimo secolo la pubblicità ha confermato tali premesse. Al toro spetta reclamizzare prodotti rinforzanti e virili, come estratti di carne e vini; alle mucche spetta la materna immagine di produttrici di latte (e suoi derivati). Attributi grafici del primo sono le grandi corna puntute e levate all’insu, il mantello scuro, lo sguardo poco rassicurante: mucche, buoi e vitelli sono invece connotati da capo chino. Corna ridotte, manto pezzato, occhio mite (direi bovino). Se al toro, per pruderie, spesso vengono dimenticati i penzolanti attributi, la mucca può invece andare fiera di turgide mammelle; addirittura, con ardita sineddoche, esse possono comparire da sole, a indicare tutta la bestia.
Il toro è raffigurato per lo più assieme all’uomo, che ad esso viene contrapposto; alla vacca si accompagnano presenze femminili e infantili, ma spesso esse sono da sole, parte integrante e marchio di garanzia del paesaggio alpino. Sul toro c’è poco da scherzare, mentre con le vacche ci si prende certe libertà: il primo conosce gli stilemi forti del modernismo, alle seconde spetta la caricatura ridanciana.
Possibile che in anni di contestazione, ribellione e pari opportunità, le mucche siano rimaste passivamente bovine? No: quando, negli anni Settanta, s’inaugurò a Roma la prima discoteca gay nell’ex-mattatoio, essa venne battezzata “Mucca assassina”: in onore agli animali che vi furono ammazzati e, pubblicità aiutando, ridotti a carne, cuoio e colla; le loro anime, finalmente ribelli, gridano vendetta. Ma si tratta di un caso isolato; le mucche, già sull’orlo di una crisi di identità, negli ultimi anni, sono diventate pazze.