[ Riproponiamo qui – per gentile concessione dell’autore e del prof. Gabriele Scaramuzza – l’articolo apparso su “Materiali di estetica”, n. 4 (2001). ]
Prima di parlare di qualcosa che vediamo in immagine, ripetiamo con Magritte una breve formula propiziatoria: “Ceci n’est pas une pipe”; eviteremo di scambiare la cosa mostrata con quella che la mostra. È più semplice farlo che dirlo; nessuno accenderebbe la pipa, pure realistica, dipinta e accompagnata da questa avvertenza; ma molti, a proposito di immagini, finiscono per parlare delle cose raffigurate, salvo indignarsi della loro imperfetta congruenza. Così capita a chi parla di cartoline, anche se sin dal 1914 uno stornello suonava: “Er Generai Cadorna je disse a la Reggina / Si vo’ vede’ Trieste, védela in cartolina!”; tradotto in termini metodologici, indica che quanto è mostrato dalle cartoline ha realtà essenzialmente immaginaria; il che consente di risalire al loro pubblico, alla sua mentalità e gusti, ma solo indirettamente e impropriamente alle cose mostrate.
Noteremo poi che una stessa immagine, a seconda del supporto che la veicola, si rivolge a un pubblico differente, o esercita su di esso un diverso impatto, e ha quindi un senso variabile. Ad esempio, l’effigie di Beethoven ha valore diverso a seconda che si incarni in un monumento cimiteriale o urbano, su uno spartito o sulla copertina d’un saggio, in una maschera mortuaria o sulla custodia d’un disco, su un manifesto pubblicizzante un concerto o un insaccato; oppure sulla cartolina ove, a mo’ di ectoplasma, appare a una trasognata fanciulla al piano.
Insomma, pur senza entrare nello specifico che distingue le cartoline da altri supporti di immagini musicali, pare ingenuo interpretare solo secondo un’ortodossia da conservatorio quelle raffiguranti musicisti, strumenti, opere liriche ecc. A seconda dei casi, esse rivelano l’idea che della musica ha il pubblico, o il personaggio figurato; altre hanno valore di status symbol; oppure, giocando su analogie formali e d’uso, possono indicare metaforicamente proprio un’altra cosa; quelle di propaganda sfruttano gli stilemi retorici del melodramma; altre invece giocano ‘musicalmente’ sulla propria struttura formale; infine, può darsi che la cartolina stessa, persa ogni referenzialità – diretta, allusiva, simbolica, metaforica -, da semplice supporto di immagini, si proponga come fonte sonora.
Ma partiamo dal gradino referenziale in cui la musica è musica e la cartolina è cartolina; due realtà connesse solo dalla congiunzione ‘e’, poiché, apparentemente, altro non si può chiedere a tale supporto di immagini, se non di documentare illustrativamente anche la realtà musicale. E che ciò sia possibile, è desumibile dall’assioma fondante l’universo cartofilo; esso suona:
1. In cartolina si può trovare figurata ogni realtà.
I cercatori del pel nell’uovo lo specificano così:
1.1. Se proprio avete difficoltà a trovare un certo tema in cartolina, allargate l’orizzonte ai suoi parenti prossimi (figurine, etichette, chiudilettera, menù, ecc.).
Ma, da quando ho conosciuto un collezionista che fa una tematica, a modo suo sonora, come le incudini in cartolina, io mi ritengo soddisfatto del 1. Soprattutto un tema vasto e popolare come la musica può contentarsi delle sole cartoline; anzi, può suddividersi nei numerosi settori specifici in cui questa materia si articola.
Facciamoci dare il la da due personalità del campo musicale: Michele Straniero – dello Studio Nazionale di Musica Popolare – e Virgilio Savona – del Quartetto Cetra. Lavorando con le cartoline, essi hanno avuto solo l’imbarazzo della scelta; infatti il loro Musica & Cartoline (Edicart, Legnano 1988) ha dimensioni degne di un pianoforte a coda: 254 pagine di grande formato, con oltre 500 riproduzioni a colori. Come suona il sottotitolo, si tratta di una carrellata di Cento anni di canzoni, canzonette, inni e romanze celebri, cantanti e musicisti, strumenti, strumentisti, balletti e concertini, spartiti e manifesti nelle cartoline illustrate dal café-chantant al rock.
Come si vede da questa lista, cui, con ripartizioni ancor più minute, corrispondono i vari capitoli (anche su chitarra, mandolino, violino, arpa, piano), gli Autori considerano la musica nella sua accezione letterale e ne cercano una puntuale documentazione iconografica in cartolina. Musicologi o semplici melomani, volendo una ricchissima rassegna visiva sul proprio oggetto di studio o di passione, possono dunque trovare in questo volume un repertorio tanto vasto quanto vario e abbondanti informazioni fornite ora sulle cartoline, ora sulla musica (non sulle due insieme).
I capitoli iniziali sono giustamente dedicati a quelle autodefinentesi ‘cartoline musicali’; nel primo Novecento esse erano edite a Napoli da Bideri – il massimo editore di canzonette – e dai suoi concorrenti: sono cartoline-spartito, cartoline da guardare e da cantare; l’immagine in stile realist-impressionistico, con accenti sentimentali e soggetti romantici, è marchiata dal titolo: Vieni sul mar, Catarì, Napule Bello, O sole mio… Da buon acquerellista, Pietro Scoppetta sfuma ai bordi, lasciando ampio bianco al piede o al margine del supporto. È qui che, passando la cartolina dalla macchina litografica a quella tipografica, l’editore inscrive musica e parole. Nel caso in cui il testo sia lungo – e poco noto -, come nel repertorio da caffè concerto del macchiettista Nicola Maldacea, ogni pezzo, che mostra l’artista in un tipico travestimento, viene clonato in due modelli: uno con le parole, l’altro con la musica. Negli anni Venti una serie di Aurelio Bertiglia mostra le sue coppie di bimbetti (con gli occhioni sgranati di fronte all’orrore di trovarsi nei ruoli ammiccanti di piccoli adulti) attraverso spartiti sfondati; in alto è il titolo della canzonetta (con le credenziali di parole e musica); al piede sono i più celebri versi di canzoni come Abat-jour, Fili d’oro, Cocaina… Analogo carattere hanno le cartoline militari riportanti a fianco di un’immagine dal forte simbolismo nazional-guerresco lo spartito dell’inno dei vari reggimenti, marce, canzoni patriottiche. Anche le edizioni più popolari relative alla lirica mostrano le scene salienti delle opere più amate, con indicazioni didascaliche e brevissime frasi musicali (parole e note).
Per una “Enciclopedia della musica” vi serve il ritratto di Luigi Albanese (“A cui l’archetto è scettro e la corda scandaglio delle anime”)? Eccolo sulla cartolina-tessera che dà libero ingresso ai suoi concerti. Cercate il Maestro Cinico Angelini o Ferruccio Busoni? Eccoli fra centinaia di cartoline dedicate ai loro colleghi. E, certo, nessun problema se volete documentare Betty Curtis o Natalino Otto, i Bad Boys o I Pelati.
A proposito dei ritratti fotografici, Umberto Eco nota: «Togliete a Einstein la relatività e lasciate i ritratti, pare un professore di provincia, coi capelli troppo lunghi per la sua età, incline al barbera»; Debussy potrebbe essere un assicuratore di Saluzzo. Insomma, il ritratto fotografico non eterna un’ineffabile soggettività; se non vengono in aiuto l’individuante didascalia e una sufficiente cultura, esso finisce per omogeneizzare tutti entro la – pur articolata – classe borghese. La fotografia è il prodotto e il ritratto di tale classe. E la soddisfazione dei suoi rappresentanti piccoli e medi è scoprire di aver qualcosa in comune con i grandi; anzi, magari, di poter esser presi per uno di loro.
Fanno eccezione i membri delle professioni che, oltre la divisa e particolari attrezzi (siano la piccozza o il violino), implicano un physique du role modellato non solo dal mestiere svolto, ma soprattutto dall’idea che se ne ha; allora proprio la posa fa coincidere l’idea che si ha di sé con quella che si ha della propria professione (spesso intesa come vocazione e missione) e con quella che ne ha il pubblico. Il ritratto posato, in quanto immagine pubblica, si depura da ogni contingenza casuale, occasionale, istantanea e persino individuale, per caricarsi di valori ideali e simbolici.
Se l’austera compostezza borghese, barbe aiutando, è il principale messaggio espresso dai volti della maggior parte dei musicisti, dalle loro capigliature viene un messaggio più specificamente artistico: la lunghezza e scarruffatura (da Beethoven a Busoni, da Mascagni a Paderewski) sono segni di un’arte intesa come genialità e sregolatezza e della musica come indice di un’attività che possiede, invasa e squassa. L’espressione tesa, sino a farsi corrucciata, di Beethoven è divenuta simbolo di una musica che non concede nulla alla leggerezza.
Nelle cartoline musicali Bideri, dunque, l’immagine accompagna solo le parole e la musica; esse costituiscono perciò un vero e proprio pro memoria, uno strumento utile a chi voglia cantarle e suonarle; più e prima che cartoline illustrate, sono delle specie di Bignami postali dello spartito.
Le cartoline ritratto dei grandi musicisti (e chi non si sente tale potendone ordinare anche solo 500 pezzi?) condividono invece con i santini e le icone di ogni tipo di star la caratteristica di essere immagini di cult destinate ai fans. Infatti sono quasi sempre conservate come feticci propiziatori; se portano una firma, non è, al dorso, quella del mittente, ma l’autografo che, lato vista, dedica e griffa il ritratto.
Enrico Sacchetti, Italia 1900, da una serie di 12 caricature di musicisti
Bonet, Italia 1900, da una serie di forse 8 caricature di musicisti
Indecifrato, Vienna 1912
Paderewski
Anonimo, 1901, commemorazione della morte di Giuseppe Verdi
Tavio, 1901, i funerali di Verdi
Anonimo, 1905 circa, ritratto arcimboldesco di Richard Wagner
Italia, 1905 circa, edizioni popolari di opere
Italia, 1909 circa, pubblicità del Pathefono
Italia, 1939
Dall’infinita serie di cartoline del repertorio di Maldacea, 1908 circa
Canzoni napoletane pubblicitarie dei Magazzini Mele, inizio Novecento
Aurelio Bertiglia, 1922 circa
Dalla canzone Sì e no di Ferrari e Parente, 1955 circa
I CCCP di Reggio Emilia, un mito degli anni Ottanta
A cavallo tra Ottocento e Novecento musica e cartolina convivevano nel cuore stesso della casa borghese: il salone. Qui le signorine da marito venivano giudicate dai loro album delle cartoline. La scelta dei soggetti (bimbi buoni e damine, soggetti di genere, fiori e cuccioli) rivelava l’assennatezza della raccoglitrice; lo stile nouveau, senza essere ardito, ne mostrava i gusti artistici alla moda; le firme dei qualificati mittenti palesavano le loro prestigiose parentele e frequentazioni.
Lì troneggiava il pianoforte, coperto di spartiti di romanze. Le brave figliole vi davano prova del loro doigté sulla tastiera e della soavità della voce, producendosi nel canto. Languidezze romantiche, estasi artistiche, esibizioni di decolletés e toilettes creavano l’atmosfera. A volte in cartolina, tali signorine appaiono rapite dalla musica che ne fa vibrare l’animo sensibile, sino a far loro apparire, come ectoplasma, il volto ispiratore di Beethoven, simbolo e garanzia di ogni musica come si deve.
Ma come mai molte altre, invece di guardare lo spartito, si girano verso l’obiettivo e sorridono? Come mai, per raggiungere più facilmente questa torsione (mani sulla tastiera e viso rivolto al pubblico, destinatario della cartolina compreso), siedono all’amazzone? E come mai certune suonano e cantano indossando solo scarpe e cappello (e a volte neppure quelli)?
Passiamo in rassegna altre cartoline raffiguranti fanciulle musicanti, strumento per strumento: ogni volta il grado simbolico zero (che sarebbe proprio delle fotografie di concertiste) è assente. Quando va bene, si parte da messe in scena in ricchi salotti ove le star e stelline del café-chantant esibiscono parures e avvenenze più che doti musicali. Ma basta stare attenti alle loro occhiate, sorrisi, pose, modo di tenere lo strumento per rendersi conto che tali signorine non evocano solo la musica come status symbol borghese, indizio d’animo sensibile e di romantico sentimentalismo.
Quando l’occhiata si fa strizzata d’occhio e il sorriso ammicca, e intanto l’abito s’alza oltre la caviglia, stiamo certi che anche il modo d’impugnare o maneggiare lo strumento è allusivo. Allora Straniero e Savona paiono turbati da numerose incongruenze e impertinenze musicali. Ad esempio, notano criticamente «la posizione delle dita sulle corde – o della mano nel gioco dell’archetto», che non «corrisponde a un minimo di conoscenza dello strumento». Un’arpista, «ahimè», tiene lo strumento «addirittura» all’incontrario o «con tre dita su una sola corda»; un’altra «tiene le gambe accavallate accanto alla tavola armonica, mentre si sa che la cassa di risonanza dell’arpa va tenuta tra le ginocchia, perché solo così si possono raggiungere i pedali dello strumento». Altre ancora tengono le cinque dita ben appoggiate sulle corde, «mentre è noto che l’arpa, diversamente dal pianoforte, si suona con quattro dita soltanto, senza appoggiare il mignolo». «E dire – soggiungono – che il fotografo avrebbe potuto comodamente scegliere le sue modelle tra le tante signorine di buona famiglia che si dedicano allo studio di uno strumento musicale» (pp. 51ss.). Ma quale buona famiglia avrebbe accettato che la sua figliola posasse per delle cartoline fotografiche? Questa tecnica infatti passava facilmente dal livello documentario a quello di un simbolismo che le avrebbe fatte arrossire.
Dunque, oltre a quella musicalmente corretta, è possibile un’altra classificazione degli strumenti, quando siano allusivamente intesi. Le tipologie fondamentali sono due e rimandano all’organo: maschile o femminile, a seconda della loro forma, impugnatura (o imboccatura) e movimento.
Prendiamo le arpiste: si parte da un ipotetico (tuttora irreperito) documento musicalmente pertinente; si moltiplicano i casi di diteggiatura errata o incongrua, ma in cui l’insieme evoca la musica come momento spiritualmente alto; senza soluzione di continuità si passa alle immagini ove la posizione errata dell’arpista s’accompagna a palesi indicazioni di cambio di registro: dalla lettura realistica a quella simbolica; i segni diacritici sono l’occhietto, l’ammiccare, la risalente veste. Le cartoline di genere grafico-umoristico esplicitano il riferimento simbolico cochon; rarissime volte si giunge all’esibizione della cosina stessa, che pone quindi in secondo piano il gioco simbolico. Nel caso in cui l’arpista, nuda e sdraiata, suoni l’arpa a gambe larghe, per dirla con Roland Barthes, il punctum dell’immagine si sposta dal simbolo (lo strumento musicale) al referente; allora diviene incongrua la presenza stessa dell’arpa, non sussistendo gli estremi del qui pro quo.
Per distinguere una chitarra da una chitarrina, più che competenze musicali, sono di conforto quelle goliardiche, così ricche di rimandi simbolici che facilmente trapassano alle figure, partendo dal linguaggio figurato poetico-letterario (se a tanto assurgono taluni componimenti, compresi quelli di Argia Sbolenfi, alias Olindo Guerrini).
I riferimenti femminili sono quindi pertinenti a tutti gli strumenti a corda o pizzicati; sovente essi rivelano un eccesso d’uso con la rottura della cassa armonica o delle corde. Triste fatto che altri strumenti, a percussione come il tamburello, rivelano nello sfondamento. Hanno invece riferimento maschile gli strumenti che implicano il movimento di va e vieni dell’archetto, nonché quelli a fiato. Possono essere distinti a seconda del modo d’uso: quelli da imboccare, come i pifferi, e quelli da percorrere per tutta la lunghezza, come ocarine e flauti traversi.
Ci possiamo chiedere chi spediva tali cartoline. Alcune delle quali erano cartoline per tutti. A chi osava rilevare qualche ambiguità, si poteva rispondere con l’honni soit qui mal y pense; d’altronde erano allora normalissime cartoline augurali quelle celebranti il Primo d’Aprile: mostravano fanciulle alle prese con sguscianti pescioni; al piede alcuni versi spiegavano: «Tenetelo così, bello dritto; / insieme lo faremo fritto / coi raggi di paradiso / del vostro dolce sorriso».
Se il rarissimo livello delle cartoline più esplicite non era certo destinato alla spedizione allo scoperto, le cartoline di genere grafico-umoristico con riferimenti simbolici, malgrado varie proteste, sequestri e assoluzioni, erano postali a tutti gli effetti; infatti una chitarra rotta non è più sconcia della Brocca rotta di Jean Baptiste Greuze esposta al Louvre.
Se le cartoline romantiche erano senz’altro cartoline destinate alla raccolta delle signorine bene, quelle pesantemente allusive erano appannaggio maschile. Nelle spedizioni ci si atteneva al principio della confacenza tra soggetti raffigurati e destinatari. Il problema sorgeva quando, facendosi gioco delle convenienze, «alcuni anonimi mascalzoni spediscono cartoline raffiguranti asparagi alle lettrici che hanno messo i loro indirizzi sulla nostra rivista per ricevere cartoline a cambio» (“Il raccoglitore di cartoline illustrate”, II, 1900).
Insomma, Straniero e Savona non si adombrino per certe arpiste; semplicemente esse non erano loro destinate; le passino a un amico psicanalista. Faranno un uomo felice.
Franz Laskoff, 1903, per “Musica e Musicisti” della Ricordi
César Santiano, 1904 circa, pubblicità di pianoforti
giovani donne al piano
cartolina venduta a Porto Said nel 1920
1910 circa
1904 circa
cartolina dipinta a mano
Francia, 1950 circa
Ad. Lalyre, Il tamburello rotto, fa pendant alla celebre Cruche cassée esposta al Louvre
Italia, 1903 circa: La chitarra rotta è ormai un classico
per le elezioni politiche del 1958 il Partito monarchico ricorre a una doppia metafora
Ho prima accennato alle cartoline dedicate alle opere liriche. Le più popolari, in lunghe serie, ricostruiscono fotograficamente i tableaux più salienti, quelli che una battuta, sia canora che musicale, basta a evocare. I fondali di cartapesta, gli interpreti improvvisati non fanno ostacolo ai melomani; ma non impressionano più che tanto chi non sappia coglierne gli echi evocativi. Anzi, tali sceneggiate scadono nel ridicolo, come i fotogrammi del cinema muto che, pur bloccando un’azione nel suo culmine parossistico, ne trasmettono il senso solo a chi è già noto.
In queste specie di fotoromanzi ante litteram, gli interpreti portano vistosamente una mano fra i capelli («Oh, mio dolor !») o tutte e due («Oh, mio Dio, morir sì giovine!») o sul cuore («Ah!. .. Finalmente!… Nel mio cuor stolto vedea»); oppure stringono il pugno sbarrando gli occhi («Che avete detto?»), si buttano ginocchioni ai piedi dell’amata («Conte, sorgete … !»), sbracciando s’abbracciano («Amami, Alfre… do!»), si sfrenano nella danza («A noi, Zazà!»).
Molto più eleganti e raffinate sono le serie che, rinunciando al sussidio della parola e delle note scritte, affidano l’espressione del pathos alla sola immagine. Sono soprattutto quelle edite, fra il 1897 e il 1907, dall’editore Ricordi. Questa casa era allora non solo la maggiore in campo musicale, ma primeggiava anche, per quantità e soprattutto per qualità, nella produzione di cartoline artistiche cromolitografate, più care delle sceneggiate monocrome di cui sopra. Nel suo staff lavorava il fior fiore dei grafici ormai affermati (Leopoldo Metlicovitz, Alfredo Hohenstein, Giovanni Mataloni, Luigi Beltrame) e di quelli emergenti più alla moda (Marcello Dudovich, Franz Laskoff, Aleardo Terzi, Aleardo Villa). Appare dunque chiaro che il pubblico, cui erano destinate queste due forme d’arte (musica e grafica), fosse lo stesso: la più signorile borghesia internazionale; mentre i loggionisti si contentavano delle più referenziali cartoline da due soldi edite da Alterocca.
Soprattutto la serie dedicata alla Iris da Hohenstein e Mataloni (1899) fonde mirabilmente modernismi, referenzialità e forza espressiva; lo stesso forte taglio dell’immagine, la sua spezzatura, l’ambiguo gioco tra figura e sfondo, l’inquadratura di spalle ed altri estremismi grafici di matrice giapponista, non sono fini a se stessi, ma enfatizzano le immagini dei personaggi colti al culmine di momenti espressivamente forti: fanciulle che si coprono il viso per nascondere il pianto, che giacciono riverse al suolo, che contrastano l’insidia del drago, messe a forza a tacere, infidi asiatici che tramano, momenti di languido abbandono.
È qui chiaro che il termine ‘melodrammatico’ può essere usato metaforicamente anche per le cartoline; soprattutto negli anni successivi, quando, stemperati gli ardori stilistici, i nostri autori liberty ripiegano su un neomichelangiolismo che enfatizza ogni gesto eroicizzandolo.
Intanto su “La domenica del Corriere” Beltrame lavora sul vissuto quotidiano, fissando (in anticipo su Cartier Bresson) il ‘momento decisivo’: il tradizionale quadretto di genere assurge a dimensione epica se si sa fissare l’istante in cui l’eroico carabiniere salva al volo la bimba precipitata dal treno in corsa. Dudovich e compagni, nella nascente pubblicità, sublimano poi l’acquisto e il consumo nei valori simbolici del prestigio sociale.
Ma solo quando, a partire dal 1915, la Patria chiama, stuoli di grafici, perso ogni senso della misura – e del ridicolo -, danno fiato alle trombe nazional-popolari e bellico-patriottiche. Lo stile è verista, per consentire al pubblico la più immediata identificazione, ma la realtà raffigurata è trascesa dai Valori, Simboli e Messaggi che vi si incarnano. Attraverso l’immagine di quel certo soldato vediamo quindi il Milite e attraverso di lui – a scelta – ci appare luminoso il Dovere, l’Eroismo, il Sacrificio. Basta un’immagine, purché giocata su forze contrastanti e inconciliabili, per portare il pathos al diapason, per commuovere il pubblico e suscitare in lui pavloviane reazioni di slancio partecipe, affermative risposte alle più retoriche fra le domande.
Il melodramma, trapassato nel romanzo d’appendice, poi nel cinema muto, ha fatto scuola e gli autori delle cartoline mostrano la propria bravura concentrandolo in un’unica immagine. Il nemico, bestia più che persona, violando i sacri confini, il focolare e le sue vestali, grida vendetta; la reazione gestuale è immediata e univoca: la mano alla strozza o, quantomeno, un indice puntato; così come immediato e univoco è il grido prorompente da ogni gola ben fatta: “Va fuori d’Italia, va fuori stranier!”. Un altro indice, visto non di profilo ma frontalmente, punta invece verso lo stesso destinatario della cartolina: non è un invito a sottoscrivere il Prestito Nazionale, è un ordine.
Al tempo della Grande Guerra lo stile realistico a cui sono affidati questi epici scontri simbolici tra opposti valori (Patria/nemico, Civiltà/barbarie, Eroismo/viltà… ) è ancora quello popolare, desunto dagli ex voto e da quel sublimatore della cronaca nera che fu Beltrame. Con la seconda guerra mondiale, specie con gli anni della Repubblica Sociale, Gino Boccasile fa scuola: tutte le tecniche della buona pittura – dalla prospettiva al chiaroscuro – volte a gerarchizzare ciò che emerge in piena luce rispetto a ciò che va lasciato in ombra e sulle sfondo, da lui già ampiamente sperimentate nella pubblicità dei prodotti più popolari, sono messe al servizio della propaganda.
I valori della Repubblica Sociale Italiana emergono allora con toni drammatizzati ed enfatici, estremi e assoluti, eroici e retorici: il nemico è dipinto in modo grottesco e trucido; la Patria, la famiglia, la nostra civiltà sono colti nel momento di un mortale pericolo. La reazione del pubblico non può che essere emotiva e irriflessa: disgusto e odio da un lato, simpatetica commozione ed eroico slancio protettive dall’altro. Un negraccio, ad esempio, sta portandosi via una Venere in marmo comprata per due dollari: il contrasto fra civiltà e barbarie è enfatizzato dal reiterato contrasto tra bianco e nero (anche quello tra il buio dello sfondo e la piena luce del primo piano), fra il bruto e la bella, tra ghigno bestiale e classica imperturbabilità. In altri autori prevale la venatura sentimentale e patetica dovuta alla presenza femminile (mamme, mogli) e infantile: ad esempio, vediamo una mamma, con un pargolo in braccio e uno per mano; è ormai giunta in primissimo piano, correndo per una strada costellata di morti, feriti, macerie, esplosioni di bombe, letteralmente braccata dagli aerei ‘alleati’.
Cartoline come queste, potrebbero a giusto titolo fornire materiale per un inserto illustrato di una prossima riedizione dell’esauritissimo volume di Peter Brook. Ma alcuni storici hanno reagito melodrammaticamente a tale genere; anzitutto, lasciandosi travolgere dalla loro stessa forza espressiva, hanno fatto coincidere con queste tutte le cartoline di guerra, se non addirittura la cartolina illustrata tout court ; mentre puntuali calcoli relativi alla RSI palesano che le cartoline a forte carica simbolico-melodrammatica costituisce solo il 28%, mentre altre si limitano a riportare un messaggio scritto, hanno carattere satirico o documentario.
Dopo aver fatto coincidere la cartolina con un solo suo genere (seppure il più impressionante), si passa a bollarla come «paccottiglia cartolinesca» (Mario Isnenghi, La guerra in cartolina, Tuglie 1982). Come si vede, l’aggettivo ‘cartolinesco’ condivide con ‘melodrammatico’ il senso peggiorativo con cui viene usato all’interno di un discorso che suona come esecrazione moralistica; invertiti i valori di riferimento, il risultato (melodrammatico e retorico) non cambia.
Altri ricercatori invece, partendo dal celebre manifesto con l’indice puntato verso il possibile arruolando, citando Aby Warburg, parlano di «pathos formeln» (Carlo Ginzburg, Paura, reverenza, terrore, Adelphi 2015); io mi levo tanto di cappello, ma, metodologicamente, mi attengo al principio di non ricorrere al bazooka quando si sia infastiditi dalle mosche.
Non tutta la musica è d’accompagnamento, non tutta è orchestrazione di sentimenti e passioni, né tutta spinge sul pedale del fortissimo. La musica sarebbe anzi un puro gioco autoreferenziale, senza altri rimandi che a se stessa, altro valore che il libero gioco interno alle sue regole.
Nelle arti visive si crede che simili caratteri siano propri solo dell’arte astratta, a partire quindi dai suprematisti, da Klee e Kandinski. Ma se esaminiamo le cartoline che fra la fine Ottocento e il primo lustro del Novecento portarono alle estreme conseguenze la lezione giapponista, ci accorgiamo che i soggetti raffigurati sono sovente dei semplici pretesti. Alberto Martini, che fu allora autore di straordinarie cartoline, è chiarissimo: «Mentre i veri artisti rendono sensibile agli uomini il sogno – egli scrive nella sua autobiografia -, gli artisti inferiori rimangono schiavi delle reali apparenze».
Gli faremmo quindi torto se, nella serie Notti stellate (1900), ci limitassimo a individuare fanciulle che suonano la tromba, la campana, il triangolo, il violino, la cetra, il tamburello. Queste sue visioni notturne erano per lui segno di più ineffabili dimensioni spirituali; ma sono anche leggibili come puri giochi formali di aree campite, armonicamente articolate sul supporto in un non-finito che ne fa delle opere aperte, aperte al messaggio del mittente che, inscrivendosi nelle aree lasciate libere o più chiare, dà alla composizione il suo giusto equilibrio.
E così è per Raphael Kirchner (autore di centinaia di straordinari pezzi fra Ottocento e Novecento, fra Vienna e Parigi), i belgi Gisbert Combaz e Henry Meunier, l’ungherese Karl Jozsa, l’alsaziano Gilbert Demeufve, gli italiani (o da noi operanti) Franz Laskoff, Carlo Melina, Luigi Bompard, Aldo Mazza e pochi altri (spesso limitatamente alle sole cartoline di fantasia, libere dai simboli alti legati a ogni intento celebrativo). Anche per molti specialisti del liberty questi sono dei puri nomi, poco più delle iniziali che siglano tante altre straordinarie cartoline del tempo o dei numerosi capolavori di arte veramente nouveau che, creati forse ancor più per scherzo che per esperimento, furono lasciati anonimi.
Come mai tale estremismo grafico è presente soprattutto in cartolina? Il fatto è che, sino al 1905, il regolamento imponeva di lasciare il dorso libero da ogni altra indicazione che quelle postali (indirizzo, genere – cioè ‘cartolina’ o ‘stampe’-, affrancatura e annullo). Lo spazio per il messaggio doveva dunque essere ricavato lato vista. Allora molti autori, il signorile Alphonse Mucha in testa, ricorsero alla soluzione più banale: lasciare al piede o al bordo dell’immagine un margine bianco. Solo gli autori di cui sopra, traendo le estreme conseguenze di un giapponismo sino ad allora praticato più che altro come giapponeseria, seppero invece trasformare questo vincolo in fonte di ispirazione.
L’azzeramento prospettico e del chiaroscuro fu un’autentica rivoluzione che di fatto anticipò le avanguardie: si abbandonava la gerarchizzazione dell’immagine in parti più o meno importanti, dalla luce del primo piano al buio dello sfondo. Forme di colore campito, ormai libere da ogni costruzione sintattica, erano giustapposte secondo un’euritmica paratassi. La tirannica figura umana, e la relativa visione frontale, fu sovente abbandonata per composizioni sino ad allora relegate al ruolo secondario della decorazione. Apparvero figure viste di spalle, o zenitalmente; altre erano tagliate – anche decapitate – dal bordo del supporto in cui, cessando di campeggiare, si ponevano nell’ambigua posizione di chi vi entra o ne esce. Gli spazi bianchi destinati al mittente, abbandonati i bordi, penetravano all’interno stesso dell’immagine, ponendola in questione, decostruendola, riducendola a spezzoni sparsi. La solida costruzione gerarchica dell’immagine, funzionale all’espressione precisa del suo significato diveniva ambiguo e dinamico gioco di forme.
Non so se, a chi si occupa di musica, tali cartoline possano far pensare allo sgretolamento tonale, alla concentrazione e brevità operate da musicisti che vanno da Debussy a Schönberg, sino all’abbandono dei poemi sinfonici a programma; certo, per chi si occupa di cartoline, la semplice individuazione di temi e soggetti (pur rintracciabili e sovente, in Raphael Kirchner, di carattere musicale) appare inadeguata. Pare invece imporsi da sé una lettura strutturale che, facendo uso di termini come armonia, ritmo, immagine sincopata, scansione, tensione pieno/vuoto, ambiguità percettiva, variazioni sul tema, ecc. si ispira, seppur metaforicamente, a un modello musicale; ma questo, per la debolezza della dimensione sia referenziale che simbolica, sta agli antipodi delle grandi orchestrazioni funzionali al melodramma.
cartoline liberty di Alberto Martini, 1899
serie Roma di Raphael Kirchner, 1899
Raphael Kirchner, 1900
serie Iris di Giovanni Mataloni, 1900
C’è un’estetica che vincola le forme ai significati, che trasforma i contenuti in segni di realtà trascendenti, che esprime Idee e Valori, che smaschera le fallaci apparenze del reale e si sprofonda in insondabili abissi; essa si riferisce ad articolate strutture di ampio respiro ed è ben espressa da aggettivi come melodrammatico, teatrale, romanzesco. Nelle arti visive essa s’incarna nei quadroni storici, biblici, mitologici, religiosi di cui le cartoline di propaganda patriottica sono forse l’ultima incarnazione.
Ma pittori e grafici hanno voluto far entrare sublimi aneliti, esasperati toni espressivi, iperboli semantiche, eterni valori, afflati e trippe nella piccola, leggera scarpetta di Cenerentola che, per il suo formato stesso, è la cartolina. Hanno così finito per zoppicare e per sfondarla. Caratteri suoi propri – per cui anzi è snobbata dagli adepti dell’impegno – sono la dimensione contenuta, il carattere occasionale ed effimero, la leggerezza, anche la superficialità. Solo chi ha saputo trasformare in ispirazione creativa questi caratteri e limiti (compresi quelli del regolamento postale), sovente vi ha danzato.
Le cartoline in cui meglio s’incarna lo ‘specifico’ del genere si pongono piuttosto sul versante di un’estetica della Gemütlichkeit e del frammento, dello humour leggero o dell’epigramma; la cartolina che eviti di porsi come la rana nei confronti del bove-manifesto (di pubblicità o di propaganda, comunque portatore di messaggi) si basa sulla serena, sdrammatizzata, ludica accettazione delle apparenze, della superficie, dell’insignificanza.
Le sue eventuali metafore e rimandi simbolici non alludono ad abissi nascosti; sono subito decifrabili, semplici veli per sfuggire alla censura postale. Accettando di restare alla superficie del proprio supporto, molti autori (quando il messaggio doveva essere iscritto lato vista; poi – una volta passato sul lato indirizzo – l’illustrazione si farà quadretto) hanno spostato il gusto per l’estremismo dai contenuti alle forme, dal pathos alla percezione; sono giunti così a un estremismo grafico che ha di fatto anticipato certi risultati dell’avanguardia.
Allora più nessuna figura è prepotente e invadente, nessuna forma è vincolata dalla sintassi gerarchizzante ad esprimersi seguendo una scala di valori; i vuoti, gli spazi bianchi, i silenzi, le assenze non si presentano come abissi da sondare o da riempire di contenuti sensati, né sono relegati ai margini, ma dialetticamente interferiscono con figure e forme e colori rendendone ambiguo il significato, persino il modo in cui si offrono alla percezione.
La cartolina, dunque, come molta musica, rimanda solo a se stessa; il suo lato nascosto non sta oltre; è subito lì, appena girata: è il suo dorso; e qui è possibile leggere i dati editoriali che spesso sdrammatizzano la visione melodrammatica che certi storici hanno dato, per esempio, delle immagini di Mussolini. Il fatto che sino al 1939 risultino soprattutto edite da privati (e che il massimo editore non fosse neppure iscritto al PNF), e non da enti pubblici, impedisce di interpretarle come propaganda imposta; il fatto poi che per la quasi totalità non risultino spedite, permette di assimilarle alle altre immagini di cult liberamente acquisite dai fans.
In campo letterario il carattere breve e leggero della cartolina ha fatto sì che il suo nome stesso sia stato usato metaforicamente per indicare certi generi. In poesia ‘Cartolina’ battezza spesso le raccolte di composizioni non solo brevi, ma a carattere di impressioni, istantanee leggere ed ironiche, epigrammi, parabole e flash; è il caso delle Cartes postales di Henry Levet (1902) e di quelle di Paul Nougé (1924); è il caso delle Cartolines di Pierre de Mandiargues (1964) e delle Postcards di E. Osens (1976), delle Cartoline di mare di Nico Orengo (1984); presentando le poesie di Blaise Cendrars, il commentatore americano le intitola Complete Postcards from the Americas e dedica un paragrafo a “Un nuovo genere: istantanee verbali e cartoline”.
Passando alla prosa, il viennese Peter Altenberg raccolse in Favole della vita varie opere degli anni 1901-11, in cui compaiono le parti Cartoline illustrate e Testi a cartoline illustrate : brevi prose analoghe a quelle intitolate Cose minime, Piccolezze, Schegge, Telegrammi dell’anima, Campioni senza valore, Estratti di vita (nel senso concentrato della Liebig); sono impressioni, aforismi, frammenti di realtà. Anche certe raccolte di racconti hanno preso il titolo di Cartes postales (di P. Abram, 1910).
Nel giornalismo è frequente intitolare ‘Cartoline’ le rubriche fatte di mini notizie che un tempo andavano sotto il nome di ‘Brevi’, ‘Flash’, ‘Stelloncini’. Questo uso è passato dal giornalismo scritto a quello televisivo e, in senso un po’ diverso, alla fortunata serie Una cartolina da Andrea Barbato. Anche in campo cinematografico titoli come ‘Cartoline dall’Italia’ confermano il carattere impressionistico e frammentario.
In campo musicale ricordo che la cartolina fu portata sulle scena all’Alcatraz di Parigi nel 1873 (Les cartes postales di ignoto), mentre Cartoline illustrate di C. Pettinato è un ‘operetta del 1960 e, infine, Postcards on parade è andato in scena a New York con la York Theatre Company sino al maggio del 2000. Né mancano presenze musical canore, da una romanza di Stanislao Gastaldon di inizio ‘900 a una canzonetta di Pippo Franco dei primi anni ’80. Il caso musicale più alto sono i Cinque Lieder op. 4 per orchestra su testi di cartoline illustrate di Peter Altenberg, scritti nel 1913 da Alban Berg; vennero eseguiti sotto la direzione di Arnold Schönberg che, con grande scandalo, fu schiaffeggiato da Oscar Strauss salito sul podio.
Vittore Baroni, autore del più intelligente e articolato intervento sui rapporti fra musica pop-rock e cartoline (Cartoline da orecchiare, dischi da spedire, “Cart 3”, 1988), scrive giustamente che «nei loro canonici tre minuti, molti brani pop possono essere considerati come ‘cartoline da orecchio’; essi condensano l’evocazione di un luogo, di uno stato d’animo, un ricordo; vere ‘cartoline sonore’ sono ad esempio molti brani anni ’60 dei Beach Boys». Egli passa poi in rassegna tutte le possibili presenze cartolinesche in fatto di dischi e tutte quelle sonoro-musicali in fatto di cartoline: ecco le cartoline che da fine Ottocento agli anni Trenta, se premute, cinguettano, miagolano, vagiscono, quelle da portare alla bocca per far cantare un galletto o per suonarvi un’armonichina; e, ancora, le cartoline-disco degli anni Trenta-Sessanta e quelle con microchip musicale incorporato di questi ultimi due decenni.
Io aggiungerò l’uso sonoro delle cartoline fatto, in questo dopoguerra, di chi imitava la moto pur avendo solo la bici: ne fissava una alla forcella con un pinza da bucato, in modo che sbattesse nei raggi. Più sofisticate sono le cartoline metalliche spedite da Piermario Ciani al compositore di ricerca Luca Miti che le percosse nel suo Simphony not for Cage (1984-5); oppure la cartolina con fischietto incorporato che la compositrice Christina Kubisch spedì a Daniele Lombardi per la sua Together n. 10, a collectiv piano composition (1978-81).
Ci si può allora chiedere come mai nella pratica musicale il termine ‘cartolina’ non abbia attecchito. Il motivo è abbastanza semplice: al contrario che in poesia, letteratura, giornalismo, in musica esiste già da secoli uno specifico termine per indicare un breve pezzo da camera, di carattere leggero, ludico e di semplicissima struttura formale: ‘bagattella’.
Germania, 1902. Cartolina da schiacciare [ clicca per il suono ]
Italia, 1920 circa. Cartolina entro cui soffiare [ clicca per il suono ]
Italia, 1955 circa. Cartolina da schiacciare [ clicca per il suono ]
Vienna, 1935 circa. Cartolina con inserita una fisarmonica [ clicca per il suono ]
Vienna, 1935 circa. Cartolina entro cui soffiare [ clicca per il suono ]