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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 03

 settembre 2011

Saggi e rassegne

Fabrizio Cambi

L’illusorietà del comico nell’opera drammatica di Andreas Gryphius

La letteratura incentrata sulla definizione della comicità è di per sé sterminata. Delle ragioni e delle occasioni che la producono si occupano molte discipline, la fisiologia, la psicologia, la filosofia, la sociologia e, nell’analisi della sua rappresentazione, la critica letteraria. La comicità, quale esistenziale dell’essere umano, per usare una categoria heideggeriana, è infatti uno dei tanti versanti che caratterizzano la letteratura intesa come specchio più o meno astigmatico di situazioni umane. È noto che il comico e il tragico si richiamano a vicenda, traendo alimento l’uno dall’altro e rivelandosi filiazioni della medesima matrice. La compensazione e complementarità della dimensione comica e luttuosa sono componenti della letteratura drammatica che ha una delle sue espressioni più significative e incisive nel teatro tedesco del Seicento, proiezione di categorie religiose, esistenziali e politiche che connotano la sensibilità e la concezione della realtà di questo secolo.

Walter Benjamin, nel suo noto volume Ursprung des deutschen Trauerspiels (1963), ricostruisce queste dinamiche ideologiche con il suo costante approccio metodologico che si traduce in folgoranti osservazioni come le seguenti: «La comicità – o più esattamente: il puro divertimento – è il rovescio interno obbligato del lutto che ogni tanto viene in luce come l’imbottitura di un vestito nell’orlo o nel risvolto. Chi la rappresenta è legato al lutto […] E il lutto, la cui felice sacralità rende così minaccioso lo sprofondamento dell’uomo etico, tutt’a un tratto non appare più tanto irremissibile, nonostante tutta la sua desolazione, se comparato alla scherzosità, da cui inconfondibilmente spunta il ghigno del demonio» (BENJAMIN 1971, p. 126 e p. 128). Benjamin, che nel fissare le coordinate del dramma barocco insiste sull’assenza escatologica, sulla precaria assunzione e identificazione della storia da parte del sovrano («il sovrano, in quanto primo esponente della storia, è perciò automaticamente deputato a costituirne l’incarnazione», ibidem, p. 48), sull’«affinità tra lutto e ostentazione», non può non affrontare la questione della necessaria commistione di generi drammatici diversi, ricorrendo a una felice affermazione di Novalis: «Commedia e dramma guadagnano molto e in fondo cominciano a diventare poetici soltanto attraverso una delicata connessione simbolica» (NOVALIS 1907, vol. III, p. 4). È evidente che il poeta romantico, considerando superata e antipoetica ogni rigida separazione e delimitazione dei generi codificati nella trattatistica poetica da Aristotele a Gottsched, mira a un’opera letteraria aperta, composita e progressiva, speculare della ricchezza della vita. L’osservazione di Novalis deriva dall’ammirazione incondizionata, comune ai romantici, del teatro di Calderón e di Shakespeare che consente a Benjamin di rilevare la profonda differenza di qualità fra il teatro inglese e spagnolo seicentesco e quello dei tedeschi «che non riuscirono mai ad andare al di là di una tipologia rigidamente stabilita» (BENJAMIN 1971, p. 128). Uno degli elementi più indicativi della «connessione simbolica» è, secondo Benjamin, la presenza nel teatro shakespeariano di personaggi di fool come Jago e Polonio con i quali proponendo «l’antico schema del buffone demoniaco la commedia diventa dramma» (ibidem). Se è scontata la distanza dalla tradizione drammatica inglese e spagnola, resta per alcuni aspetti problematico il versante in chiaroscuro della letteratura teatrale nella seconda metà del Seicento in Germania, non vastissima, comunque consistente, segnata dalla catastrofe della guerra dei Trent’Anni e dalle conseguenze della pace di Vestfalia e divaricata fra la tradizione del teatro gesuita e la scuola slesiana riformata. I rappresentanti più noti, separati da una generazione e quindi vissuti in una mutata situazione politica, sono senza dubbio Andreas Gryphius (1616-1664) e Daniel Casper von Lohenstein (1635-1683). Proprio con Gryphius si potrebbe tentare di verificare se nel suo percorso di drammaturgo non sono rilevabili elementi di quella «connessione simbolica» fra tragedia e commedia indicata da Novalis e recepita da Benjamin. La tesi da dimostrare è che Gryphius sia consapevole di poter agire autonomamente nelle pieghe imposte dalle ferree definizioni precettistiche del genere tragico di tradizione aristotelica. È d’altra parte vero, come sostiene Benjamin, che l’autorità di Aristotele nel Seicento viene costantemente sopravalutata nella critica perché «mancava tutto per la sua comprensione, mancava, non ultima, la volontà di capirlo». Tuttavia, come Benjamin stesso osserva, essa era in qualche modo mutuata dalla ricezione della poetica rinascimentale dei Poetices libri septem di Giulio Cesare Scaligero, di Trissino e di Boileau. In ogni caso la definizione di tragedia di Martin Opitz, riportata nel suo Buch von der Deutschen Poeterey (1624), per decenni la poetica di riferimento nel Seicento, resta ancora il cardine dell’impostazione e delle finalità del genere tragico: «La tragedia è per maestà conforme al poema eroico, tal che di rado sopporta che si introducano personaggi di infimo ceto e cose brutte: perché essa tratta soltanto di regali voleri, colpi mortali, disperazioni, figli e parricidi, incendi, oltraggi del sangue, di guerra, di rivolta, di lamenti, di singhiozzi, di sospiri e simili» (OPITZ 1986, p. 27). È una definizione dettagliata, ancora pienamente inserita nel solco di quella aristotelica1. Ma la novità nella letteratura tragica di Gryphius è data dalla cornice e al tempo stesso dalla sostanza stoiche recepite, anche se di improbabile accertamento, da Seneca, mutuato da autori olandesi, in particolare da Joost van der Vondel (1587-1679), noto al drammaturgo slesiano fin dal suo soggiorno a Leiden dal 1638 al 1644. La dimensione etico-religiosa, che si alimenta della visione storicizzante della realtà, connota l’azione delle figure tragiche, quali ad esempio Papinianus o Catharina von Georgien, che nella tragedia politica alla disumanità e alla violenza del tiranno oppongono l’arma incrollabile della virtù. Di questa conflittualità tragica è investita la storia, soprattutto nelle epoche più emblematiche e morbosamente godute nell’immaginario del pubblico seicentesco della decadenza dell’Impero Romano e dei sultanati orientali. È stato rilevato spesso che nelle tragedie slesiane per questo motivo non c’è mai un’ambientazione in area germanica, tanto meno compare un tiranno tedesco. È singolare che nelle tragedie di Gryphius, un autore che vive, anche se non direttamente, la catastrofe della guerra dei Trent’Anni, non sia mai rappresentato un evento calato nella realtà tedesca contemporanea. Qualcosa di lontanamente analogo accadrà anche nel teatro di Lessing e di Kleist. La spiegazione immediata e scontata che queste scelte siano state obbligate perché dettate da timori giustificati in una Germania frammentata e legata ancora a modelli economici e sociali feudali, non esclude altre interpretazioni, sebbene proprio con la miseria tedesca politica e culturale si misuri la distanza da Shakespeare che, al contrario, non si sottrae dall’attingere materia tragica dalla sua epoca. La proiezione nel passato di drammi storico-politici secondo il genere della Haupt- und Staatsaktion mira con la decontestualizzazione a universalizzare conflitti e antinomie che trascendono la sfera politica. Ma anche questa sublimazione del politico in una dimensione ecumenica ma relegata al passato si rivela subalterna alla finalità morale, fino ad annullarsi in essa.

Si è già accennato al fatto che «Gryphius appartiene alla generazione più provata del Seicento. Aveva due anni allo scoppio della guerra, conobbe della guerra tutti gli orrori e della pace conobbe soltanto i due primi decenni di una faticosa ricostruzione. Egli è il primo poeta barocco che prende veramente sul serio la morte» (MITTNER 1977, p. 834). Il confronto con Shakespeare, non fondato e comunque proposto nel Settecento, secolo nel quale tuttavia il drammaturgo tedesco è pressoché ignorato, sembra trovare un esteriore e temporale conforto nel fatto che Gryphius nasce nel 1616, nell’anno della morte dell’autore inglese e muore nel 1664, nel centenario della sua nascita. In realtà, al di là di questo simbolico e improbabile passaggio di consegne, Gryphius ebbe maggiori contatti con la cultura olandese, francese e italiana proprio negli ultimi anni di guerra. In particolare il soggiorno parigino nell’estate 1644 gli permise di accostarsi alle opere di Corneille e di frequentare la ricchissima biblioteca di Richelieu morto due anni prima, e ancor più rilevante fu l’esperienza in Italia dove giunse nel dicembre 1645. Firenze, Roma (dove frequenta il dotto gesuita Athanasius Kircher e visita fra l’altro i giardini Aldobrandini e le Catacombe che gli ispirano alcuni noti sonetti), Bologna, Ferrara e Venezia sono le tappe più importanti di un lungo e fecondo ‘esilio’ formativo concluso a Strasburgo, prima di rientrare e stabilirsi definitivamente in Slesia. Dal 1650 Gryphius accetta infatti di ricoprire la carica di «Syndicus der Landstände» a Glogau, rinunciando a chiamate accademiche prestigiose. Proprio in questo arco di tempo, fra il 1648 e il 1650, sviluppa intensamente la produzione drammatica, componendo il terzo Trauerspiel Cardenio und Celinde Oder Unglücklich Verliebete, successivo a Leo Armenius (1646-1647), ambientato nell’epoca dell’Impero di Bisanzio, e alla Catharina von Georgien oder Bewehrete Beständigkeit (1649), prima tragedia del martirio di una regina cristiana. La redazione della tragedia Cardenio und Celinde si intreccia nel 1649 con quella della farsa, lo Schimpff-Spiel Absurda Comica. Oder Herr Peter Squentz, come osserva lo stesso Gryphius che nella presentazione informa il lettore di averlo composto «nebens einem seiner Trauespiele», accanto a una delle sue tragedie. La preposizione «neben» lascia presumere che l’autore intendesse inserire la farsa nel Trauerspiel sotto forma di Zwischenspiel, un interludio fra un atto e l’altro secondo schemi convenzionali della drammaturgia del tempo allo scopo di ‘alleggerire’ per lo spettatore il peso del corpo tragico. Sta di fatto che la farsa acquista una sua autonomia divenendo un’opera a se stante che avvia il genere comico della commedia proprio alla fine della guerra. L’elemento comico, marionettistico, istrionico e scurrile, che caratterizza gli Absurda Comica, riscrittura trasgressiva e parodistica di alcune scene del Midsummernightsdream di Shakespeare, in cui il maestro Squentz con un gruppo di artigiani ignoranti si mette in mente di rappresentare davanti al re e alla sua corte l’episodio ovidiano di Piramo e Tisbe, rivela al fondo la matrice comune al Trauerspiel basata sul carattere avvolgente della vanitas. Se la realtà terrena è apparenza e il theatrum mundi può essere smascherato ancor più sulla scena che lo rappresenta, viene quasi a cadere paradossalmente il diaframma che divide la burla dal lutto. Lo stesso Squentz definisce la rappresentazione con tutta una serie di aggettivi antinomici nella presentazione alla corte: «allegra e triste», «terribile e piacevole», «breve e lunga». Lo conferma il legame fatto di corrispondenze fra l’elemento tragico in Cardenio und Celinde e quello filtrato parodisticamente negli Absurda Comica. Motivo centrale di Cardenio und Celinde, tragedia ‘borghese’ in palese violazione dei canoni poetici opitziani in cui si rielabora il racconto La fuerça del desengaño (1624) di Juan Perez de Montalvan, è l’amore nella sua degenerazione sensuale che negli innamorati non può che causare infelicità e morte. Cardenio, studente a Bologna, è combattuto fra la virtuosa Olimpia, di cui è innamorato Lisandro, e la sensuale Celinde, amante di Marcello. Intrighi ed equivoci portano Cardenio a seguire al cimitero lo spettro di Olimpia che si trasforma in uno scheletro, mentre Celinde cerca di conquistarsi il suo amore strappando nello stesso cimitero il cuore dal cadavere di Marcello da lui erroneamente ucciso. Compare già in questa tragedia l’antitesi di amore e morte, che rinvia al conflitto fra naturalismo e spiritualismo, rappresentato sulla scena dallo spettro e dallo scheletro nei quali il corpo della donna amata e desiderata si scarnifica e si decompone. I Lustgärten, parchi lussureggianti e ammaliatori, ammirati da Gryphius anche in Italia, si trasformano in cimiteri. È questo il tema centrale del poemetto lirico-morale Gedancken uber den Kirchhoff und Ruhestädte der Verstorbenen (1656) in cui il cimitero è il luogo del disfacimento e della putrefazione, destino e sbocco terribili della caducità umana. Nelle altalenanti sequenze di seduzioni, corpi desiderati che si trasformano in spettri e in scheletri, e riti macabri, viene denunciato il vizio della lussuria e ossessivamente riaffermata la scadenza incontrovertibile della morte nel luogo del cimitero ad essa riservato come limite della vita apparente e proiezione possibile nella vita eterna indicati con enfasi nell’epilogo:

Olimpia: Beato chi si lascia guidare dalla mano dell’Altissimo!
Celinde: Beato chi ogni giorno è pronto per la sua tomba!
Pamphil: Beato chi è coronato in eterno dall’eternità eterna.
Cardenio: Chi vuole vivere bene qui ed ereditare quella corona che ci dà la vita, pensi ogni momento alla morte.

[Cardenio und Celinde, GRYPHIUS 1991, p. 306]

Anche nella messinscena parodistica e grottesca dell’episodio di Piramo e Tisbe negli Absurda Comica per l’insensibilità e la rozzezza degli attori l’amore è ridotto ad atto sessuale evocato e descritto con espressioni dirette o a doppio senso, spesso scurrili, come ad esempio alla fine del dramma dei due innamorati quando Tisbe, suicida, si lascia cadere sul corpo di Piramo che esclama: «Ehi Thisbe, così non va bene / le donne stanno sotto». La dissacratoria e trasgressiva violazione delle norme cortesi da parte degli artigiani-attori, che traducono ogni atto nella sfera sessuale, trasmette una concezione dell’amore privo di sentimento, non a caso rappresentato dal ceto sociale più basso, perché su di esso prevale l’istinto. Il bilancio finale di Squentz, come risposta al binomio canonico oraziano del «delectare et prodesse» non può essere che ottusamente negativo: «Imparate come sia bene restare liberi dall’amore […] L’amore rovina ogni cosa» (Absurda Comica Oder Herr Peter Squentz, GRYPHIUS 1991, p. 616). Il messaggio del maestro-capocomico consiste in definitiva nella miope esortazione all’astinenza e al rifiuto dell’amore per i rischi che esso comporta («Voi fanciulle state in guardia / E tenete conto di questo avvertimento: / Se volete dormire nell’erba / Non dovete aprire la bocca / Così amore non vi striscerà in gola», ibidem), banalizzando e quindi non comprendendo il dramma reale di Piramo e Tisbe. L’evento tragico narrato da Ovidio si rovescia nel comico, prodotto dell’ignoranza del ceto artigiano contrapposto a quello cortigiano.

La successiva commedia in cinque atti Horribilicribrifax Teutsch. Wehlende Liebhaber, specchio delle contraddizioni e degli scompensi nell’immediato dopoguerra, in cui si muovono molti reduci, sviluppa il tema ricorrente della ricerca e della scelta dell’innamorato calato in un carosello funambolico di intrighi e di sentimenti. Concepita nel quadro caricaturale della Commedia dell’Arte, conosciuta da Gryphius durante il soggiorno italiano, e delle Bravure del Capitano Spavento (1607) di Francesco Andreini, la farsa in cui sei personaggi maschili e cinque femminili giocano la partita della scelta amorosa è mossa dal principio barocco della Unbeständigkeit, dell’incostanza e della precarietà di valori e sentimenti. Anche in questa farsa la comicità nasce dall’incontro di registri lessicali e campi semantici eterogenei riconducibili a ceti sociali disparati che comunicano tramite l’equivoco nell’alternanza di finzione e realtà interscambiabili.

Passano altri dieci anni fra Horribilicribrifax e l’opera drammatica più matura e articolata, il Mischspiel Verlibtes Gespenste – Die gelibte Dornrose. Il genere innovativo è quello della commedia mista composta di due commedie a incastro di quattro atti ciascuna. La prima, Verlibtes Gespenste, è denominata un Gesangspiel, una rappresentazione musicale in alessandrini, anche se non finalizzata a un pezzo operistico, la seconda, Die gelibte Dornrose, è uno Scherz-Spill, una farsa prosastica in dialetto slesiano. Pur intrecciate alternandosi nella sequenza degli atti, le due commedie possono essere considerate autonome e nella tradizione critica si è di solito accentuata la loro distanza data dal ceto e dall’ambiente sociale di riferimento, borghese e cavalleresco nella prima e contadino nella seconda, con i relativi riflessi sull’uso linguistico. In realtà i due testi hanno in comune il tema dell’amore, introdotto nella prima scena, dopo la presentazione dei personaggi di entrambe le commedie, e di nuovo presente nell’epilogo danzante a suggello di un’armonia universale. L’unitarietà dell’opera è confermata anche dal gioco delle corrispondenze: nel Verlibtes Gespenste il protagonista Sulpicius è amato da due donne, nella farsa la protagonista Lise Dornrose è contesa da due uomini. Occorre premettere che occasione delle due opere teatrali, rappresentate a Glogau il 10 ottobre 1660, come esplicita la dedica fu la celebrazione delle nozze del duca Georg III di Liegnitz e Brieg con la contessa del Palatinato Elisabeth Maria Charlotte von Pfalz-Simmern. La rappresentazione rientrava quindi nel novero delle iniziative organizzate dal «Syndicus» Gryphius in occasione della visita a Glogau della coppia dei novelli sposi. Evidente risulta la finalità politica rivolta a celebrare la dinastia polacca e luterana dei Piasti in funzione antiabsburgica e la speranza che dalle nozze del duca sarebbero nati eredi maschi.

Il dio dell’amore che secondo la figurazione classica appare nelle nuvole con arco e frecce, spiega la sua finzione nei versi introduttivi («Io / che accendo di nuovo calore i cuori sciogliendoli dal gelo / Voi mortali / vengo, vengo vincitore»), è il motore delle intricate azioni in particolare del Verlibtes Gespenste, ma deve convivere nella fantasmagoria di illusioni e inganni con la morte, al cui potere quantunque messo falsamente in scena deve ricorrere per raggiungere i suoi fini. Infatti il protagonista Sulpicius, conteso da Chloris, cui va il suo amore, e dalla madre Cornelia, che per conquistarlo nasconde nei frutti canditi un filtro magico, si finge morto, ricorre al vecchio trucco dello spettro e recita la sua agonia facendosi sostituire sul letto di morte da un manichino di cera. Ha un’importanza secondaria il risalire alla pluralità di fonti, alcune delle quali assai note: la commedia Le Fantôme amoureux (1658) di Philippe Quinault (1635-1688), di cui quella di Gryphius fu ritenuta per qualche tempo la traduzione, il motivo shakespeariano del filtro magico, il topos, presente nell’Aminta del Tasso, dell’innamorato creduto morto che si risveglia per il bacio della donna amata. Ben più significativa è l’originale impostazione che guida la composizione drammatica di Gryphius fondata sul gioco dialettico di amore e morte. La finzione della morte imminente permette la rivelazione e il rafforzamento dell’amore: Sulpicius: «Se il mio corpo si fa cenere, anche sotto la cenere vive la fiamma» e Chloris: «Non l’amore potrà sposarci, ma la morte» (Verlibtes Gespenste, GRYPHIUS 1991, p. 820 e p. 829). Nell’intreccio di finzione e realtà la verità del sentimento sembra annullare l’apparenza che tuttavia impone la sua costante presenza riaffermandosi come unico principio dell’esistenza: «Che cosa dice il mio signore! È un sogno, è un gioco? È uno scherzo? È un’illusione?» (ibidem, p. 782), esclama Fabricius, il servitore di Sulpicius. Ma il «giocare con la morte», come confessa Sulpicius a Fabricius, permette di esorcizzarla e di celebrare la pace amorosa fra le varie coppie. Il coro finale che canta la ‘resurrezione’ di Sulpicius sancisce il trionfo dell’amore: «O prodigio dell’amore fedele / O forza inaudita. […] La morte depone le sue frecce di fronte alle frecce dell’amore» (ibidem, p. 832).

Nella produzione drammatica di Gryphius il “Liebespfeil”, la freccia dell’amore compie quindi percorsi diversi: il primo, negli Absurda Comica, dissacrante e scurrile, si riduce ad atto sessuale, in Cardenio und Celinde la morte sconfigge l’amore terreno, nella tragedia Catharine von Georgien è l’amore ad avere ragione della morte, ma sul piano cosmico-universale come cifra dell’onnipresenza divina. Nel Verlibtes Gespenste la morte è evocata strumentalmente per far trionfare l’amore.

Nella commedia rustica Gelibte Dornrose l’autore traspone nel mondo contadino il tema classico shakespeariano dell’amore di due giovani, Greger Kornblume e Lise Dornrose, contrastato dalle famiglie. Il motivo di Romeo and Juliet non fu tuttavia ricavato direttamente da Shakespeare ma dalla commedia Leeuwendalers di Joost von der Vondel. L’unione fra Greger e Lise, giovane di grande dignità e semplicità morali, potrà avvenire dopoché questa sarà riuscita a liberarsi dal rozzo molestatore Matz Aschewedell, che ha tentato di usarle violenza, e il giudice Wilhelm von hohen Sinnen avrà risolto intrighi e litigi. L’inganno della morte apparente di Sulpicius, l’ira sproporzionata del giudice nella messinscena tribunalizia per punire i colpevoli si legittimano con la finalità di ancorare la precaria condizione umana a valori positivi e autentici messi a rischio da una labirintica realtà gravida di illusioni. Il messaggio morale come antidoto al theatrum mundi è espresso da Greger Kornblume, capocomico morale che così si rivolge al pubblico nell’epilogo della farsa: «Vedete che cosa succede nelle questioni d’amore. Per un po’ le cose vanno in modo storto e strano: ma chi pensa in modo giusto e onesto non può non andare incontro a un buon fine da lui desiderato» (Die gelibte Dornrose, GRYPHIUS 1991, p. 846).

L’apoteosi finale che accomuna tutti i ceti sociali annullando differenze linguistiche e di costume in una reciproca comprensione fondata sull’amore e sull’armonia universale segna il culmine della utopistica visione morale di Gryphius calata nella fase di pacificazione e di ricostruzione negli anni del dopoguerra. L’approdo a questa dimensione come presupposto di un consolidamento politico sembra ormai escludere la componente della comicità connaturata alla commedia. La sua vanificazione coincide con il superamento di quello stadio di illusorietà e di apparenze che caratterizza una realtà caotica e proteiforme. La comicità irrompe ed esplode nelle discrasie linguistiche, nelle situazioni incongrue e nei comportamenti anomali, esaltando la dialettica di finzione e realtà. La risata e lo sberleffo non smascherano la falsità ma l’amplificano. Il piacere che suscita nel fruitore e che ben esprime la denominazione del genere teatrale Lust (piacere)-Spiel si rivela, nel gioco barocco dell’antitesi, l’altra faccia complementare alla sfera del lutto.

BIBLIOGRAFIA

Benjamin Walter (1971), Il dramma barocco tedesco, Torino, Einaudi

Gryphius Andreas (1991), Dramen, a cura di Eberhard Mannack, Frankfurt a. M., Deutscher Klassiker Verlag

Mittner Ladislao (1977), Storia della letteratura tedesca. Dai primordi pagani all’età barocca, Torino, Einaudi

Novalis (1907), Schriften, a cura di Jakob Minor, Jena

Opitz Martin (1986), Buch von der Deutschen Poeterey, Stuttgart, Reclam

NOTE

1 Riporto la nota definizione aristotelica di tragedia: «Tragedia è dunque mimesi di un’azione seria e compiuta in se stessa, con una certa estensione, in un linguaggio abbellito di varie specie di abbellimenti, ma ciascuno a suo luogo nelle parti diverse, in forma drammatica e non narrativa». È comunque evidente che a fronte della definizione di Aristotele, mirata alla peculiarità del genere, Opitz insiste più sui contenuti come egualmente avviene anche per la commedia: «La commedia consiste in un carattere e in personaggi di basso livello: tratta di matrimoni / banchetti / giochi / inganni e astuzie dei servi / mercenari vanagloriosi / tresche amorose / leggerezze della gioventù / avarizia della vecchiaia / ruffianerie e cose simili / che capitano ogni giorno fra gente comune».