Come convincere una studentessa diciottenne ribelle dai capelli striati di verde a leggere Jane Austen e ad apprezzarne l’ironia? Come incoraggiare chi ha appena intrapreso gli studi letterari a rimuovere la patina di polvere accumulata fra le pagine dei classici per riportarne alla luce il vigore nascosto? Forse, basta scriverle una lettera e intraprendere con lei un carteggio che, prendendo in giro la letteratura, le faccia comprendere quanto la letteratura sia in realtà una cosa seria, talmente seria da giustificare anche la fatica che comporta studiarla.
È quanto fa Fay Weldon in Letters to Alice: On First Reading Jane Austen, pubblicato per la prima volta in Inghilterra nel 1984 e ora tradotto in Italia per Bompiani da Beatrice Masini, in occasione del bicentenario della morte di Jane Austen. Gli anni che separano la prima edizione inglese dalla traduzione italiana non hanno tuttavia macchiato di obsolescenza il testo, che si conferma come un attuale divertissment nel quale l’autrice mescola con sapienza più generi e temi letterari: romanzo epistolare, autobiografia, critica letteraria, apologia, satira di costume, riflessione sociologica. In Lettere ad Alice, infatti, si apprezza sin dall’esordio la freschezza ironica con cui la scrittrice, già all’apice della fama per le sue opere e le sue battaglie femministe, si rivolge alla sua giovane interlocutrice, incerta sul suo futuro da studiosa nelle aule universitarie o da scrittrice per le strade del mondo. La zia mostra, allo stesso tempo, comprensione e irriverenza verso di lei, ma anche verso se stessa, ormai divenuta così celebre nel mondo anglosassone da essere invitata in luoghi sperduti come Cairns in Australia a tenere un ciclo di lezioni:
Mia cara Alice,
è stato bello ricevere la tua lettera. Sono molta lontano da casa, quasi in esilio. E tu mi chiedi consiglio, il che mi fa bene al cuore, e mi induce a credere che forse so qualcosa; o comunque più di te. L’impressione di sapere sempre di meno via via che si diventa più vecchi è inquietante. L’ultima volta che ti ho vista eri un angioletto biondo di due anni. Adesso ne hai diciotto, so che ti tingi i capelli di nero e verde con la tintura vegetale, e che tua madre, mia sorella, è preoccupata. […] Mi dici che stai facendo un corso di letteratura inglese e sei costretta a leggere Jane Austen; che la trovi noiosa, insignificante e irrilevante, e che col mondo in crisi e il futuro che si annuncia catastrofico non riesci a immaginare che scopo ci possa essere a leggerla. (pp. 5-6)
Lo scopo lo spiega proprio Fay Weldon, lanciandosi in una appassionata apologia non solo di Jane Austen ma della letteratura, anzi della Letteratura con la L maiuscola, che non offre soluzioni facili e risposte immediate al lettore contemporaneo, sempre più immerso nell’immediatezza della comunicazione e, a tratti, incapace di distinguere un best-seller da consumo hic et nunc da un classico da lenta meditazione. In questa difesa però, la Weldon evita apologhi moraleggianti e pedagogici che potrebbero ottenere su Alice e sui lettori l’effetto opposto da quello desiderato: allontanarli invece che avvicinarli ai classici. Da qui scaturisce il riconoscimento della dignità del best-seller e l’invito ad Alice a leggerli: «qualsiasi best-seller di qualsiasi decennio. I best-seller in genere – anzi, spesso – non sono letteratura, ma ti danno uno sfondo su cui collocare opere più alte. Sono stati attraenti, all’epoca per la sensibilità comune» (p. 263). Essi, inoltre, sono versatili:
si usano per accendere i barbecue quando il sole cala sulle colline selvagge, e c’è fame nell’aria: non solo di bistecca e salsa chili, ma un’autentica umana richiesta di vita, sesso, esperienza, cambiamento. Le pagine si incendiano, diventano rosse, diventano nere, fine. La bistecca sfrigola grazie a una copia di Gorky Park. Tutti mangiano. Ma nessuno brucia Emma. Nessuno oserebbe. C’è troppo concentrato qui: troppa storia, troppo rispetto, troppo dell’autentica essenza della civiltà, che è, te lo devo dire legata alla Letteratura. […] Bisogna essere veramente cattivi per bruciare la Letteratura. (pp. 8-9)
Si può rimanere impauriti dalla Letteratura e dal fascino seduttivo che esercita, ma non si può rimanerne distanti dato che noi abitiamo nel linguaggio e nei racconti che esso produce e che sono le fondamenta di ciò che la Weldon definisce la «Città dell’invenzione», la quale non si configura come un luogo “ideale” in cui vivono personaggi inventati ma come un luogo fittizio in cui vivono personaggi veri:
mettiamola così: gli scrittori creano Case dell’Immaginazione, e dalle loro porte le generazioni si salutano. Sentirai sempre un bel po’ di discussioni e vivaci dissensi. Madame Bovary doveva masticarlo, l’arsenico? Anna Karenina sarebbe finita sotto il treno se Tolstoj fosse stato una donna? Darcy avrebbe sposato Elizabeth in un posto che non fosse la Città dell’Invenzione? E via così, avanti e indietro nei secoli. E dunque in base a queste discussioni e a questa esperienza condivisa comprendiamo noi stessi e gli altri, e il passato e il futuro. (p. 17).
All’interno di questa Città così affollata, Jane Austen vive in una casa speciale, soprattutto se confrontata con le abitazioni del suo tempo echeggianti di voci di mogli, mariti, figli. Jane Austen non fu moglie, non fu madre. Scelse la scrittura e «attraverso la scrittura si è data un’altra vita che è andata oltre la sua; una vita letteraria. […] Ha inspirato la fonte della sua energia, la sua stessa vita, e ha espirato cento vite diverse. Aveva tanta energia da saper costruire. (p. 19)
Ed è nella casa di Jane Austen che trova spazio, nella seconda lettera, una caustica descrizione storico-sociologica dell’epoca della scrittrice (1775-1817): un «periodo terribile in cui vivere» e verso cui la Weldon non manca di lanciare i sui strali di scrittrice sensibile ai genre studies. È un mondo dalla quotidianità aspra e difficoltosa, il cui peso ricadeva principalmente sulle donne. La Weldon lo rimarca con energica ironia:
Bimba, non sai quanto sei fortunata. Se non paghi il biglietto della metropolitana ti affidano a uno psicologo. Se ti rompi una gamba c’è qualcuno che l’aggiusta. Se hai un raffreddore usi un fazzoletto di carta e lo butti nel water. Jane Austen usava un fazzoletto da tasca e aveva una domestica che lo bolliva per farlo tornare pulito. Benissimo se eri Jane Austen, ma se eri la domestica? Lavoravi diciotto ore al giorno, sei giorni e mezzo la settimana, con un giorno libero al mese, e dovevi ritenerti fortunata. […] Oppure potevi sposarti. (pp. 48-9).
Il matrimonio, visto esclusivamente come contratto sociale ed economico, è il vero bersaglio polemico del libro di Fay Weldon. Lungi dall’essere l’incontro romantico fra due persone che si amano, esso si rivela la gabbia che per secoli ha imprigionato le donne dentro un universo maschile ingiusto e opportunista che le sfruttava per perpetuare quello status quo attraverso la generazione e l’educazione di figli che avrebbero ereditato e custodito quel sistema valoriale. Ma l’aspetto più crudele – sottolinea la Weldon – era costituito dal presentare quella gabbia come un Eden di felicità rispetto all’ipotesi opposta di non essere sposata e di dover portare per sempre la maschera sociale della donna non voluta:
le donne nascevano povere e restavano povere, e vivevano bene solo per concessione dei mariti. […] Una volta sposata naturalmente la vita non era rosea. Qualunque proprietà acquisissi era di tuo marito. I figli erano suoi, non tuoi. Se al momento del parto bisognava scegliere tra madre e bambino, era la madre a morire. […] Lui poteva picchiarti, se voleva. […] Lui poteva divorziare per adulterio da te, ma tu da lui no. […] Ti accontentavi della vita sessuale che avevi, e in generale, e nelle fasce più umili delle classi medie, non ci si aspettava che tu ne traessi piacere. Innanzitutto tendeva a produrre una gravidanza (pp. 48-50).
Il quadro storico della Weldon continua poi, su questa scia, ad addentrarsi nei meandri più intimi e imbarazzanti della non-vita media delle donne dell’epoca, rispetto alla quale quella vissuta da Jane Austen e dalle eroine dei suoi romanzi appare, pur nella sua moderazione, rivoluzionaria. La Austen infatti, nata in una famiglia di sette figli della middle class, poté studiare e scrivere; Elizabeth Bennet, nata in una famiglia di cinque figlie da dover sposare, riesce addirittura a unirsi in nozze a Mr. Darcy per amore, facendo intravedere ai lettori dell’epoca la possibilità di una scelta alternativa in un’epoca che tendeva a non concederne. La letteratura e l’amore si profilano nel mondo della Austen come tranquille forze rivoluzionarie in grado di scardinare meccanismi automatici per i suoi contemporanei o caduti nel dimenticatoio per i posteri. E fra di essi c’è proprio Alice, l’interlocutrice a tratti sognatrice a tratti annoiata di Fay Weldon, che le vuole al contrario insegnare un metodo di lettura che le permetta di comprendere e apprezzare ciò che prima le appariva solo obsoleto oppure bigotto, se paragonato con la libertà di costumi conquistata dalle donne occidentali nel Novecento. Ma nessuna libertà deve comportare la perdita di memoria: leggere i classici ci aiuta a preservare il senso della diversità storica e ad allenarci alla riflessione e alla scrittura.
Ed è per questo che il romanzo autobiografico ed epistolare della Weldon, dopo aver passato in rassegna la produzione letteraria di Jane Austen, si chiude con un «elenco di letture alternativo per i facilmente distratti» e con la richiesta rivolta ad Alice di leggerli e aggiungerli:
ai più opachi scrittori che trovi nei programmi dei tuoi corsi universitari e dovresti essere in grado di sostenere una discussione di letteratura intorno a qualsiasi tavola del mondo, e non per mettere in mostra le tue conoscenze ma soltanto perché ricavi piacere dai libri e conosci alcune delle strade principali della Città dell’Invenzione (p. 264)