Gallina, la femmina adulta del gallus, da cui deriva il nome come aggettivo sostantivato con suffisso femm. -ina, simile a regina da rex (vd. ERNOUT, MEILLET 19594, p. 266), sarebbe – secondo l’erudito romano Marco Terenzio Varrone – una parola latina onomatopeica, come i nomi di vari altri pennuti (ling. 5,75): ‘alites’ <ab alis>, ‘volucres’ a volatu. Deinde generatim, de his pleraeque ab suis vocibus [appellatae sunt]… item haec: pavo, anser, gallina, columba (“‘uccelli’ (alites) deriva da ali, ‘volatili’ da volo. Quindi, in base alle specie, la maggior parte di questi [trae nome] dai propri versi… anche i seguenti: il pavone, l’oca, la gallina, la colomba”).
L’autore non prende invece in considerazione qui il nome latino più comune per indicare un volatile, avis (f.), in origine legato alla pratica augurale che traeva auspici dall’osservazione del volo e da cui deriva l’italiano “uccello” tramite il diminutivo avicellam (poi aucellam e masch. aucellum).
In verità il termine gallina non riproduce molto fedelmente il verso dell’animale e l’interpretazione varroniana sembra uno dei casi di bizzarra e forzata etimologia, non rara da parte dell’erudito nel suo sforzo di classificare il lessico latino e di individuare il significato ‘vero’ delle parole che, secondo gli stoici, deve arrivare al punto in cui il suono ne esprime il significato (vd. TRAGLIA 1974, p. 16). Peraltro non si può escludere una qualche somiglianza tra il verso e la pronuncia dura e ripetuta della sillaba iniziale “ga”, basata su una percezione acustica antica in parte diversa dalla nostra; per noi, come è noto, il verso in questione è similmente gutturale, ma corrispondente piuttosto a “coccodè” (da cui l’onomatopeico francese “coq”, gallo), che è il più noto tra i possibili suoni emessi dalla gallina – ma non l’unico –, legato alla posa delle uova o inteso come segnale di allarme.
L’origine del nome resta perciò oscura, nonostante vari tentativi di derivazione dal greco o da altre lingue (vd. la rassegna di possibili etimi in WALDE – HOFMANN I, p. 581, tra cui “kymrisch galw ‘rufen’, altkirchenslavisch glagolati ‘reden’, altnordisch kalla ‘singen’), spesso collegati a verbi riferiti alla voce (“gridare, parlare, cantare”). Si è anche supposto un etimo geografico nel senso di “animale gallico” (indicato da Wilamowitz), benché i Romani non menzionino, tra le tipologie straniere del volatile, quelle settentrionali, bensì le “africane” come precisa altrove Varrone (seguito da successivi autori) nel suo trattato De re rustica (3,9,1 gallinae quae vocantur generum trium, villaticae et rusticae et africanae , “quelle che sono dette galline sono di tre generi, da cortile, selvatiche e africane”), oppure altre razze greche e asiatiche, anche se citate per la scelta dei galli da combattimento, “tanagrici” da Tanagra in Beozia o “melici” dalla Media, o ancora “calcidici” da Calcide nell’Eubea (in Varrone, rust. 3,9,6). Sono state comunque notate immagini di galli su monete del III secolo a.C. che potrebbero suggerire un’introduzione dell’avicoltura anche da nord, forse da colonie greche della Gallia meridionale, ma l’ipotesi prevalente è che il pollo domestico sia giunto dall’India in Grecia attraverso la Persia e quindi in Italia (vd. André 2016, trad. it., p. 145).
Le galline erano assai diffuse ed incluse tra le componenti essenziali della villa romana, cuore dell’economia agraria italica (vd. CARENA 1977, pp. IX ss.), come nota Cicerone (Cato 56, semper enim boni assiduique domini… villaque tota locuples est, abundat porco, haedo, agno, gallina, lacte, caseo, melle, “la fattoria di un padrone bravo e costante è ben fornita in tutto, abbonda di maiali, capretti, agnelli, galline, latte, formaggio, miele”), per cui erano allevate con una cura consolidata e quasi ‘religiosa’, come suggerisce l’aggettivo sollemnis usato in proposito da un altro scrittore latino di res rustica, Lucio Giunio Moderato Columella (8,2,1): gallinarum vero plerumque agricolae cura sollemnis est (“in generale la cura delle galline è un’attività tradizionale per il contadino”). Del resto pragmatismo e religiosità si mescolano non di rado nella trattazione di questo animale.
Nella letteratura latina la gallina ha goduto di discreta fortuna, sia in contesto quotidiano in favole e proverbi, sia per una sua valenza magico-sacrale particolarmente valorizzata in età giulio-claudia, oltre all’interesse zootecnico e naturalmente all’uso gastronomico di cui era oggetto. Ne risulta, come osserva Cattabiani (2000, pp. 229 s.), una considerazione forse maggiore nell’antichità di quella di cui godette l’animale in seguito.
All’inizio emergono menzioni affettuosamente scherzose del volatile come esempio di imperizia e rozzezza – alcune rimaste in uso fino ad oggi –, ma anche attestazioni di simpatia come animale domestico, pacifico e solerte, per cui il suo nome poteva essere usato persino come vezzeggiativo. In età arcaica il commediografo Plauto nel III-II sec. a.C., cui risalgono le prime attestazioni del termine in lingua latina, offre esempi per entrambe le interpretazioni, positiva e negativa, con ironica comicità ed in un uso retorico che doveva essere familiare al suo pubblico. Così nella commedia Asinaria (666) il servus Leonida, astuto e servizievole ma anche impertinente, chiede alla cortigiana Filenia – dopo aver aiutato lei ed il padroncino che la ama a procurare l’ingente somma necessaria per riscattarla – di essere chiamato con una serie di affettuosi nomignoli tratti dal mondo animale – tra cui anche quello di gallina – in segno di riconoscenza, suggerendo infine abilmente anche la concessione di un bacio (vv. 666 ss.): dic me… tuom passerculum, gallinam, coturnicem,/ agnellum, haedillum me tuum esse, vel vitellum,/ prehende auriculis, compara labella cum labellis (“di’ che sono il tuo passerottino, gallina, quaglia, agnellino, caprettino o vitellino, prendimi per le orecchiette, unisci le labbrucce alle labbrucce”).
Vi è qui un arguto gioco verbale e fonico basato sull’accumulo di diminutivi, alcuni peraltro solo apparenti per analogia nelle terminazioni – come appunto gallina –, che parodia il linguaggio ‘sdolcinato’ degli innamorati. Diversamente nella commedia Pseudolus lo stesso Plauto menziona il volatile a proposito di una scrittura illeggibile, appunto ‘da gallina’ – come si dice tuttora –, attraverso le parole del premuroso servo Pseudolo che, vedendo il suo padroncino Calidoro angosciato ed immerso nella continua rilettura di una lettera scritta su tabellae, le tavolette cerate inviategli dalla sua amata cortigiana Fenicia, insiste per leggerle lui stesso per poter aiutare il giovane, ma ne commenta poco gentilmente la scrittura – con comica mancanza di sensibilità – negando di riuscire a decifrarla, benché Calidoro la attribuisca ad una “dolce (lepida) mano” (vv. 29 s.): an opsecro hercle, habent quas gallinae manus?/ Nam has litteras… gallina scripsit (“ma, ti prego per Ercole, che mani hanno le galline? Perché una gallina ha scritto questa lettera!”). Ne segue la comprensibile reazione risentita di Calidoro (vv. 30 s.): odiosus mihi es./ Leges vel tabellas redde (“sei proprio odioso: leggi o restituisci le tavolette”).
Tuttavia, questo beffardo riferimento alle galline non pare, a ben vedere, del tutto negativo nei loro confronti poiché implica l’idea che esse tentino appunto di ‘scrivere’, per quanto male, ovvero di tracciare dei segni potenzialmente significativi e mostrino quindi qualche facoltà intellettiva e volontà comunicativa. Ciò ricorda le numerose teorie antiche e dispute filosofiche sulla possibile razionalità degli animali, nate in ambiente culturale greco in cui spicca l’intensa opera di Aristotele, ritenuto da molti il padre della zoologia (vd. GIEBEL 2003, p. 61), che compose tre trattati sull’argomento quali l’Historia animalium, in cui dedica ampio spazio al comportamento degli uccelli nel libro IX (612b – 620b), il De partibus animalium e il De generatione animalium, nonché il De anima e scritti minori in parte attinenti. Egli riconosceva agli animali un’anima ed una qualche intelligenza in quanto esseri viventi con movimento e sensazioni, anche se a livelli diversi (vd. Laspia, pp. 19 ss.). Diversamente, in seguito, sia la corrente stoica che l’epicureismo affermarono che solo l’uomo fosse dotato di una mente razionale, attribuendo i comportamenti degli animali alla provvidenza (non al logos) o all’istinto, ed escludendo quindi gli animali rispettivamente dalla virtus stoica o dal piacere epicureo (vd. MANETTI 2016, pp. 40 ss.; DIERAUER 1998, pp. 69 s.), mentre i neo-accademici (Carneade, poi anche Plutarco), opponendosi all’idea della centralità dell’uomo nell’universo, non escludevano una parziale razionalità animale portando esempi di facoltà cognitive quali rapporti di sensazione-percezione e di memoria che presuppongono una comprensione. Peraltro una pratica trasversale comune a molte scuole era il vegetarismo (presente in epicurei, stoici e periparetici; vd. LI CAUSI 2015, pp. XXXs.) con astensione da cibi di origine animale legata alla metempsicosi teorizzata da Pitagora e da altri, o a scelta ascetica ed in alcuni casi esoterica.
Rispetto a tali dibattiti filosofici greci, nel mondo romano soprattutto Lucrezio sembra voler dare un suo contributo – anche se per altri aspetti – citando in particolare gli uccelli tra i primi esseri viventi nella storia dell’origine della vita sulla terra (5,788 s. e v. 801 principio genus alituum variaeque volucres/ ova relinquebant exclusae tempore verno “all’inizio la stirpe dei volatili ed i vari uccelli deponevano uova, schiuse nella stagione primaverile”; vd. TUTRONE 2012, pp. 125 s.). In genere, tuttavia, i Romani – nella cui alimentazione la carne aveva da sempre un ruolo importante (maggiore che nella nostra; vd. PAOLI 1962, p. 81), anche se era divenuta cara in età imperiale, come nota Columella in 10 praef. 1 (che rimpiange l’età arcaica in cui anche i poveri potevano nutrirsi di carne, poi sostituita sempre più da ortaggi; vd. BOLDRER 1996, pp. 93 ss. ad l.) –, mostrano interessi diversi: da una parte sembrano propendere per un approccio tecnico-pratico ed utilitaristico, dall’altra appaiono incuriositi da manifestazioni sovrannaturali, magiche o divine, riguardanti gli uccelli (tradizionalmente fonte di auspici già nella pratica divinatoria etrusca) e in particolare le galline, come attestano proverbi, favole o singole espressioni.
È il caso del detto popolare, diffuso già tra i Greci, “latte di gallina”, indicante una sostanza ‘fantastica’ citata (spesso ironicamente) per indicare qualcosa di raro, prezioso ed in realtà inesistente; se ne occupa tra l’altro nel XVI sec. Erasmo da Rotterdam nella sua raccolta commentata di proverbi, sentenze e massime di saggezza derivate dalla cultura greca e latina, gli Adagi (vd. l’edizione a cura di LELLI 2013, pp. 525 s.), in cui riporta passi paralleli presenti in Anassagora (che però riteneva che si trattasse del bianco d’uovo), Aristofane, Strabone, Plinio il Vecchio, Ateneo e in Eustazio, commentatore di Omero.
La gallina era poi protagonista di racconti in cui appare fonte o messaggera di buona fortuna – se afferrata dal destinatario –, oltre ad apparire istintivamente benevola verso il suo prossimo, sia animale che umano. Già il greco Esopo ne sottolineava la sensibilità “materna”, fin troppo ingenua, nella favola 286 La gallina e la rondine in cui – per dimostrare l’ingratitudine dei malvagi anche dopo grandi benefici – viene descritta una gallina che covava con ogni cura delle uova di serpente incustodite, ammonita da una rondine poiché allevava esseri che avrebbero danneggiato lei per prima. Sempre in Esopo essa appare come generosa benefattrice dell’uomo nella favola della “gallina dalle uova d’oro” (287), la quale ogni mattina deponeva un uovo d’oro per il contadino suo proprietario, finché questi, incapace di accontentarsi per curiosità ed avidità, la uccise per osservarne l’interno, perdendo così per sempre la fonte del suo tesoro.
Ne emerge una antica connessione tra le galline e la ricchezza o fortuna che trova riscontro anche nell’antica Roma, dove l’animale – specie se di colore bianco – risulta menzionato per indicare una favorevole condizione sociale o nobiltà di origine, come in un’espressione usata dal poeta satirico Giovenale. Egli, cercando di consolare un amico eccessivamente affranto per il furto di diecimila sesterzi, lo invitava a sopportare tale perdita di buon grado considerando i casi simili o peggiori subiti da molti esseri umani, e a non sentirsi diverso o superiore agli altri quasi fosse “nato da una gallina bianca” (sat. 13,140 ss.): ten (o delicias) extra communia censes/ ponendum quia tu gallinae filius albae,/ nos viles pulli nati infelicibus ovis?/ Rem pateris modicam (“forse tu, gioia, pensi di dover essere posto al di là della condizione comune, perché sei figlio di una gallina bianca, mentre noi poveri polli siamo nati da uova sfortunate? Tu sopporti un danno limitato”).
Anche su questo proverbio si sofferma Erasmo nei suoi Adagi (LELLI 2013, pp. 167 s.), sottolineando come il proverbio si addica a chi abbia fortuna e successo negli affari, e cita altri esempi simili come l’episodio della “gallina bianca” di Livia (di cui parleremo a breve) e un passo di Cicerone (fam. 7,28,2) che, a proposito delle sue visite ad amici in campagna, notava che essi guardavano il cittadino “benpensante” (bene sentientem, alludendo a se stesso) “come se vedessero un uccello bianco” (quasi avem albam videntur).
Lo stesso Giovenale utilizza anche altrove i volatili – bianchi, ma non solo – per indicare soggetti umani insoliti e stranamente positivi nella società corrotta e tormentata del suo tempo, colpita dalla sua aspra satira morale: da una parte egli definisce una moglie virtuosa come rara avis in terris (sat. 6,165), “un uccello raro sulla terra” perché difficile da trovare e pure sgradita ai più per la sua perfezione, dall’altra, in una disquisizione sul tema della fortuna, si riferisce ad un uomo fortunato come ad un “corvo bianco” (sat. 7,201 s.): servis regna dabunt, captivis fata triumphum./ Felix ille tamen corvo quoque rarior albo (“il fato darà regni agli schiavi e ai prigionieri un trionfo. Comunque l’uomo fortunato è più raro anche di un corvo bianco”).
Anche qui il colore bianco appare indice di una condizione eccezionale, addicendosi particolarmente al corvo – per il forte contrasto con la realtà – ma meno, in verità, alle galline. Non sembra infatti che galline bianche fossero una rarità nel mondo romano né particolarmente preziose o apprezzate, almeno a livello zoologico: Varrone nota infatti (rust. 3,9,4) che quelle preferibili per il pollaio, in quanto più prolifìche, sono quelle con colori vari e vivaci, plerumque rubicunda pluma, nigris pinnis (“per lo più con penne rosseggianti, ali nere”), mentre Columella consiglia espressamente di evitare l’acquisto di quelle bianche (8,2,7): vitentur albae, quae fere cum sint molles ac minus vivaces, tum ne fecundae quidem facile reperiuntur atque etiam conspicuae propter insigne candoris ab accipitribus et aquilis saepius abripiuntur (“si evitino quelle bianche che, essendo per lo più delicate e meno vivaci, facilmente non risultano poi neppure produttive e, risaltando per la particolarità del colore candido, molto spesso vengono catturate da sparvieri ed aquile”).
Il bianco ha però nell’antichità una valenza sacrale come segno di purezza e favorisce particolarmente un rapporto con il mondo divino, con cui le galline sembrano avere non di rado confidenza e contatti, talvolta anche indipendenteente dal colore. In proposito Plinio il Vecchio osserva, nell’ambito della sua trattazione tecnica sugli uccelli nella Naturalis historia, che nelle galline da cortile “vi è un qualche innato senso religioso” (nat. 10,116 villaribus gallinis et religio est), evidenziando la loro abitudine, dopo aver deposto l’uovo, di arruffare le penne, scuotersi e ‘purificare’ se stesse e l’uovo girando intorno o usando uno stelo di paglia.
Fu però già in precedenza, in età augustea, che il valore religioso delle galline, ed in particolare di una gallina bianca, divenne ufficiale e diede inizio ad una inedita forma di devozione mantenuta per tutta la dinastia giulio-claudia. Tale pratica risulta ispirata da un episodio storico-leggendario che accadde nel 39 o 38 a.C. e di cui fu protagonista una componente femminile della famiglia augustea, Livia, la moglie di Ottaviano (allora non ancora Augusto), poco prima o poco dopo le nozze (a seconda delle versioni) in una sua villa di campagna presso Roma, detta poi ad gallinas (albas) e nota anche come Villa di Prima Porta. Si tratta di una località romana, ora sito archeologico, in cui sono emersi anche importanti ritrovamenti, quali la statua di Augusto loricato o di Prima Porta (esposta ai Musei Vaticani) e gli splendidi “affreschi di giardino” che rivestivano l’ipogeo, trasferiti poi al Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo.
La storia della gallina bianca è tramandata da Plinio il Vecchio e in seguito anche da Svetonio, ma in contesti e con scopi diversi: nel primo caso il racconto è inserito nel libro XV di botanica della Naturalis Historia sul tema dell’alloro – poiché l’uccello ne aveva nel becco un ramoscello, interpretato come un prodigium felice e promettente per i futuri successi militari di Augusto –, mentre nel testo di Svetonio si trova all’inizio della biografia di Galba, il successore di Nerone, per ricordare invece soprattutto un prodigium funesto, la morte delle galline discendenti da quella di Livia, che fu uno dei segni premonitori della drammatica fine dell’ultimo imperatore giulio-claudio nel 68 d.C.
Plinio, che pubblicò il trattato nel 77-78 d.C. ma raccolse notizie già negli anni precedenti, ignora in ogni caso il fosco epilogo – benché animato da spirito antineroniano (vd. CONTE 19892, p. 386) – e si concentra sulla fase iniziale, narrando nei dettagli la graziosa vicenda (nat. 15,136 s.):
Ci sono anche, riguardo al divo Augusto, eventi degni di essere ricordati. Infatti a Livia Drusilla, che prese poi il nome di Augusta con il matrimonio, dopo che si era fidanzata con Cesare (cum pacta esset illa Caesari), un’aquila fece cadere in grembo dall’alto, mentre era seduta, una gallina illesa, di un candore straordinario (gallinam conspicui candoris), e mentre lei osservava ciò coraggiosamente si aggiunse il fatto singolare che quella teneva nel becco un ramo di alloro pieno di bacche (tenentem rostro laureum ramum onustum suis bacis), per cui gli aruspici ordinarono che si custodisse sia l’uccello che la sua prole, e che quel ramo venisse piantato e conservato religiosamente: ciò avvenne nella villa di campagna dei Cesari posta presso il fiume Tevere al nono miglio della via Flaminia, che per questo è detta Ad gallinas (“Alle galline”), e vi crebbe un bosco in modo straordinario. Di lì Cesare, quando celebrava un trionfo, prese l’alloro che teneva in mano e la corona che portava in testa, e così poi tutti i Cesari imperatori. E si tramandò l’usanza di piantare i rami da loro tenuti in mano e rimangono i boschi distinti in base ai loro nomi, ragion per cui forse furono mutati gli ornamenti del trionfo.
Questo ‘buon prodigium‘, che portò alla creazione di un allevamento di galline sacre e di un bosco di allori, si presenta dunque anche come un ‘mito eziologico’ volto a spiegare l’introduzione dell’alloro come ornamento trionfale a partire dal divo Augusto, che ne derivò l’uso “da quell’alloro inviatogli dal cielo” come viene detto anche altrove da Plinio (nat. 15,130 a Divo Augusto coepit… ex ea lauru quae ei missa e caelo est). L’episodio è poi chiaramente funzionale a onorare la famiglia augustea mostrando il favore divino sia verso la sposa che verso il marito: Livia risulta nobilitata dal fatto di aver assecondato il prodigium con pronta pietas religiosa, prendendo sotto la propria tutela una innocua creatura e garantendo una vita serena a lei ed ai suoi discendenti, nonché manifestando una sensibilità per gli animali non rara nel I sec. a.C. a Roma (come attestano Cicerone, Varrone, Virgilio ed altri) in contrasto con il gusto popolare per pratiche sanguinose come cacce o sacrifici cruenti (vd. LORENZ, pp. 366 s.); d’altra parte, anche il marito Ottaviano ne risultò beneficato con il rafforzamento della sua immagine pubblica in ambito politico e militare, poiché seppe cogliere il benevolo messaggio divino e legò quell’evento ai trionfi suoi e dei suoi successori.
Inoltre dall’episodio potrebbe trasparire la volontà del futuro princeps di creare una nuova pratica religiosa legata specificatamente alla sua famiglia, che poteva ricordare e voleva forse emulare l’onore riservato alle oche sacre a Giunone sul Campidoglio, anch’esse tipicamente bianche (come ricorda ad es. Lucrezio in 4,693 Romulidarum arcis servator candidus anser) ed allevate a spese dello stato, celebri per aver sventato nel 390 a.C. con i loro strepiti l’attacco dei Galli guidati da Brenno (vd. Livio 5,47,1-5 e cfr. Plutarco Cam., 27 e Dion. Hal. 13, 7, 3). Inoltre l’importanza data all’alloro sembra anticipare gli onori riservati da Augusto al dio Apollo – a lui caro e di cui tale pianta era tipico attributo – per il quale eresse poi un nuovo tempio sul Palatino nel 28 a.C. (vd. BOLDRER 2016, pp. 41 ss.) che divenne un polo religioso, politico e culturale (con annessa biblioteca), parallelo e forse competitivo rispetto all’antico tempio di Giove sul Campidoglio.
Quanto alla successiva versione della ‘leggenda’ augustea della gallina bianca attestata da Svetonio alcuni decenni dopo, essa riprende e prosegue la narrazione pliniana aggiungendo però, come anticipato, il finale funesto con l’improvvisa morte di tutte le galline sacre. Con omaggio al predecessore, l’incipit del racconto riecheggia volutamente quello di Plinio nella costruzione sintattica della frase – nell’analoga menzione di Livia in caso dativo e con participio (in Plinio Liviae… sedenti “a Livia mentre era seduta”, in Svetonio Liviae… revisenti “a Livia che stava visitando”) – e numerose sono le affinità nella prima parte; ma Svetonio, oltre ad aggiungere la conclusione della vicenda, cambia alcuni dettagli eliminando l’accenno agli aruspici, attribuendo maggior autonomia alla protagonista e definendo in modo diverso la sede della villa, ora collocata nel territorio di Veio (ma delimitato dalla via Flaminia di cui parlava Plinio) in una ricerca di variatio (Vita Galbae 1):
La dinastia dei Cesari si estinse con Nerone: da molti segni apparve chiaro che ciò sarebbe accaduto, ma soprattutto da due. Un giorno, poco dopo il matrimonio con Cesare (post Augusti statim nuptias), a Livia, che visitava la sua villa di Veio, un’aquila sorvolandola fece cadere in grembo una gallina bianca che teneva nel becco un ramoscello d’alloro (gallinam albam ramulum lauri rostro tenentem) come quando era stata ghermita. E poiché le piacque allevare il volatile ed interrare il rametto, ne venne una così grande discendenza di polli che ancor oggi la villa è chiamata Ad gallinas ed il il bosco di alloro divenne tale che i Cesari in procinto di celebrare il trionfo ne traevano corone di alloro. Ci fu anche l’usanza per i trionfatori di piantare subito un’altra pianta nello stesso luogo; e si notò che, poco prima della morte di ciascuno, appassiva l’albero di chi lo aveva piantato. Dunque (ergo), nell’ultimo anno di Nerone, inaridì fino alle radici l’intero bosco e morirono tutte le galline (quidquid ibi gallinarum erat interiit). E poco dopo nel palazzo dei Cesari, colpito da un fulmine, caddero insieme le teste da tutte le statue e a quella di Augusto fu strappato anche lo scettro.
Benché Svetonio non interpreti apertamente i segni funesti elencati alla fine, i prodigia manifestano, più che dolore, lo sdegno divino per l’empietà di Nerone, anche perché alla fine del capitolo precedente l’autore aveva notato che l’imperatore “disprezzò ogni religione” (Ner. 56 religionum usque quaque contemptor) tranne, ma per poco, il culto della dea Siria. Il finale appare particolarmente efficace perché inaspettato, dato che il termine ergo che introduce la serie di sventure lasciava immaginare solo la rituale morte dell’albero corrispondente al singolo imperatore, come avvenuto in passato, e non il coinvolgimento delle galline e altro. Peraltro anche al successore di Nerone, Galba, i gallinacei non furono favorevoli, giacché tra i segni che annunciarono la sua rapida rovina, vi fu l’indifferenza dei “polli sacri”, i giovani galli e galline consultati dai Romani prima delle battaglie e ritenuti forieri di vittoria se mangiavano avidamente (vd. GIEBEL 2003, p. 137), i quali, mentre egli traeva gli auspici, non solo non mangiarono, ma volarono via (Svetonio, Vita di Galba 18,3 observatum etiam… auspicanti pullos avolasse).
Accanto agli aspetti popolari e soprannaturali, restano da esaminare ancora alcune testimonianze letterarie relative alla presenza di galline nella vita quotidiana, sociale ed economica romana, attestate da scrittori tecnici (di agricoltura e culinaria) e letterati, il cui interesse per tali animali sembra essere aumentato progressivamente. Lo dimostra innanzitutto il crescente spazio loro dedicato dai principaliscriptores rei rusticae quali Catone (agr. 89), Varrone (rust. 3,9,1-21), Columella (rust. 8,1-7) e, in minor misura, Palladio (agr. 1,27; 2,21), autori che mostrano competenza sull’allevamento e determinazione nel consigliare come trarne guadagno, ma anche attenzione per il benessere degli animali (vd. BODSON 1994, p. 59). Notizie scientifiche e culturali interessanti provengono inoltre ancora da Plinio il Vecchio, mentre sul piano gastronomico si conservano descrizioni e ricette di esperti, scene di banchetti o riferimenti all’alimentazione quotidiana comprendente spesso uova e pollame.
Gli antichi romani furono grandi consumatori di uova, proposte sempre nella gustatio, l’antipasto, tanto da diventarne l’aspetto distintivo, come risulta dal celebre detto ricordato da Orazio in sat. 1,3,6 s. ab ovo usque ad mala (“dall’uovo alla frutta”) usato per indicare l’inizio e la fine del banchetto, in particolare a proposito di un personaggio singolare, un cantore incostante di nome Tigellio che – come nota argutamente il poeta –, se gli veniva chiesto di cantare, non lo faceva, ma “se aveva estro, intonava un canto bacchico dall’antipasto alla frutta” (si conlibuisset ab ovo usque ad mala citaret “Io Bacchae” ). Le uova (ova) erano essenzialmente di gallina, se non diversamente specificato, altrimenti anche di oca, anatra e di tutti gli uccelli in genere, cucinate “poco sode” (hopala) ed in vari altri modi (vd. ANDRÉ 2016, trad it., pp. 169 s.), servite anche con salse o fritte nell’oenogarum come consiglia il gastronomo Apicio (7,19,1), oppure usate a loro volta per legare salse (Apic. 7,19,2) o ancora per frittate dolci al latte (ova spongia in Apic. 7,13,8).
Riguardo alla carne di gallina, Apicio offre 17 ricette, proponendo soprattutto pollo bollito e solo in un caso arrostito, che suscitano qualche dubbio sulla gustosità della carne (vd. ANDRÉ 2016, trad. it., p. 146), ma il valore culinario di tale cibo appare incerto e controverso, tra biasimi per la sua scarsa attrattività, o viceversa critiche perché pietanza di lusso, o ancora rifiuto in quanto ritenuto causa di sacrilegio (presso culture non romane).
Secondo alcuni (vd. PAOLI, 1962, p. 81), era considerato rustico e tenuto in poco conto rispetto alla carne di pavone ed alla selvaggina, in quanto carne bianca a buon mercato; altrove pare invece un cibo ricercato se l’animale era ingrassato, morbido e cotto con ulteriore abbondanza di grasso. In Columella, che sottolinea l’utilità dell’avicoltura soprattutto per la fattoria stessa come fonte di concime, di cibo e di guadagno (con la vendita delle galline), viene ambiguamente specificato che tali allevamenti “giovano più ai campagnoli che ai cittadini… e con gli stessi si arricchiscono il focolare familiare e la mensa di cibi preziosi” (8,1,1 s. agrestibus magis quam urbanis prosint… eisdem familiarem focum mensamque pretiosis dapibus opulerent), dove pretiosus sembra indicare il valore economico, non propriamente la raffinatezza degli alimenti. Tuttavia già Catone nel suo De agri cultura, nell’unico capitolo dedicato alle galline (agr. 89) intitolato Gallinas et anseres sic farcito (“Ingrassa così le galline e le oche”), si era concentrato sul metodo di ingrasso di galline selezionate, funzionale alla produzione di carne pregiata e costosa; si trattava forse di un compito della massaia più che del contadino, praticato a scopo commerciale oltre che ad uso domestico (vd. CANALI – LELLI 2000, p. 230 ad l.).
Se ne deduce quindi che la qualità della carne dipendeva dalla scelta dell’allevatore nella destinazione delle galline, da uova o da carne. Varrone, ad es., che dedica molto più spazio di Catone alle galline (rust. 3,9,1-21), sembra discostarsene intenzionalmente nel suo trattato poiché mira alla produzione di galline da riproduzione (novelle) e chiocce da cova di uno o due anni (rust. 3,9,9), mentre l’ingrasso è per lui marginale; ne risulta in questo caso che ad essere consumate fossero spesso galline vecchie più che capi ingrassati, oltre a capponi e talvolta galli (ANDRÉ 2016, trad. it., p. 146). Per il resto, la trattazione varroniana appare esemplare sia per la distinzione in tre tipologie di galline (sopra citate), sia per i cinque punti affrontati: acquisto, riproduzione, uova, pulcini e (per ultimo) metodo di ingrasso. Ne traspare l’esperienza e l’ambizione dell’autore, che propone un “allevamento perfetto” (rust. 3,9,4 ornithoboskíon perfectum) ed una produzione ‘industriale’ con pollai attrezzati, ordinati e puliti, curati da un addetto (il gallinarius) e predisposti per duecento galli e galline (vd. rust. 3,9,6), con femmine destinate a covare uova proprie e di pavone (rust. 3,9,8 e 10) secondo tempi precisi (20 e 27 giorni).
Ancora maggiore è l’approfondimento di Columella (De re rustica 8,2-5), che ugualmente propone un allevamento di 200 galline e lascia per ultimo il tema dell’ingrasso (che egli non ritiene compito del contadino, ma del fartor o “ingrassatore” addetto allo scopo in 8,7,1), ma mostra anche uno spirito autonomo. Così sembra gareggiare con Varrone nel maggior uso di grecismi tecnici e nel rinnovare la terminologia relativa all’avicoltura, forse effettivamente cambiata nei decenni che li separano: Varrone distingueva, come detto, tra gallina villatica, rustica eafricana, mentre Columella (8,2,2) le chiama cohortalis, rustica e numidica; il primo cita il greco ornithoboskíon come luogo di allevamento degli uccelli (rust. 3,9,2), mentre il secondo parla di orneithónes nel senso di “ripari di animali da cortile” (8,1,3); inoltre Varrone si era mostrato interessato anche ai galli da combattimento, mentre Columella biasima questa “passione greca” (8,2,5 omisso tamen illo studio Graecorum) occupandosi solo di galline, specie riproduttrici, nell’interesse del pater familias. Egli aggiunge inoltre notevoli informazioni su pollai, mangimi, disposizioni di uova nella cova e consigli di carattere veterinario.
Solo alla fine anch’egli si interessa alle galline ‘ingrassate’, sottolineando peraltro la facilità di tale forma di allevamento e l’opportunità di venderle alle tavole più raffinate per trarne il massimo guadagno, attestando così la richiesta di pollame anche presso i ceti elevati ed il valore economico e gastronomico di tale carne (8,7,1): antiquissimum est autem maximam quamque avem lautioribus epulis destinare. Sic enim digna merces sequitur operam et inpensam (“è usanza antichissima destinare tutte le galline più grosse alle tavole più sontuose. Così infatti il guadagno ripaga la fatica e la spesa”).
Tuttavia proprio le galline ingrassate sembrano suscitare, singolarmente, un problema di ordine morale in Plinio, che pare molto critico in proposito quando ricorda (in tono vagamente epicheggiante) il cattivo esempio dato in questo ambito dagli abitati di Delo, famosi allevatori di polli ed invidiati invece da altri per i loro cospicui guadagni (così in Varro rust. 3,9,2; Colum. 8,2,4). In proposito egli cita “un passo da antiche leggi sulle cene” (antiquis cenarum interdictis exceptum), restrittive ed emblematiche del frugale e severo mos maiorum, ma già eluse da tempo, rimpiangendo – come sembra – quella semplicità e moderazione perdute (nat. 10,139):
Gli abitanti di Delo furono i primi ad ingrassare le galline e da questi nacque il vizio (pestis) di abbuffarsi di pollame ingrassato, unto nel suo stesso grasso (opimas aves et suopte corpore unctas devorandi). Fra gli antichi decreti riguardanti le cene ho trovato questa prima norma, già presente nella legge del console Gaio Fannio stilata undici anni prima della III guerra punica (161 a.C.), che disponeva che non si ponesse sulla tavola alcun volatile tranne una sola gallina non ingrassata… Si trovò però, per raggirare queste restrizioni, la scappatoia di allevare polli con cibi imbevuti di latte: così vengono apprezzati assai maggiormente.
Presso alcuni popoli il consumo di carne di gallina era addirittura vietato, come attesta Cesare per i Britanni, che consideravano sacrilegio cibarsi di carne di lepre, gallina ed oca, benché essi le allevassero per piacere personale (b.c. 5,12,6 leporem et gallinam et anserem gustare [Britanni] fas non putant; haec tamen alunt animi voluptatisque causa). Orazio, invece, ‘difende’ la bontà della gallina a tavola, ma considerandola un cibo umile (certo non ingrassato artificialmente, nel suo caso), contro il pregiudizio di quelli che erano attratti piuttosto da uccelli esotici e ricercati come i pavoni, dei quali egli sembra anche ridicolizzare i modi imitandone la conversazione esageratamente sofisticata (sat. 2,2,23 ss.): vix tamen eripiam, posito pavone, velis quin/ hoc potius quam gallina tangere palatum… carne tamen quamvis distat nil, hac magis illam/ inparibus formis deceptum te petere esto (“a stento io ti dissuaderei dal voler solleticare il palato con un pavone imbandito piuttosto che con una gallina… tuttavia, benché non ci sia nessuna differenza nella carne, ammettiamo pure che tu cerchi più quella di questa, ingannato dai diversi aspetti”). Più avanti, inoltre, nella stessa satira egli ribadisce il piacere di una cena semplice con amici, mangiando appunto pollo – quasi una rivincita – e capretto (sat. 2,2,119 ss. sive operum vacuo gratus conviva per imbrem/ vicinus, bene erat non piscibus urbe petitis/ sed pullo et haedo , “e se, libero dal lavoro a causa della pioggia, avevo come commensale un vicino gradito, stavamo bene mangiando non pesci comprati in città, ma pollo e capretto”).
Quanto a Petronio, egli propone nel Satyricon – come è noto – un’interpretazione culinaria particolarmente originale della gallina in una spettacolare portata della Cena Trimalchionis, costruita con combinazione ed inclusione di ingredienti e sorpresa finale (33,3-8): fu portato infatti un vassoio con un cesto in cui “c’era una gallina di legno con le ali aperte come se covasse…” ( gallina erat lignea patentibus in orbem alis, quales esse solent quae incubant ova… erutaque subinde pavonina ova divisere convivis ). La trovata visiva risulta anche tecnicamente acuta: infatti suggerisce da una parte idealmente la freschezza delle uova, come appena fatte dalla gallina sovrastante, dall’altra allude al reale uso agricolo di far covare alle galline uova di pavone (menzionato sopra). Poi i servi di Trimalcione estraggono dalla paglia uova di pavone coperte di farina impastata che vengono distribuite ai commensali e che il padrone di casa invita a bere, ma fingendo di temere che non siano bevibili e distribuendo cucchiai agli scettici commensali: così, mentre tutti temono di trovare un pulcino, si scopre che all’interno è in realtà inserito un altro uccello prelibato, un beccafico (preda di caccia), immerso nel tuorlo pepato! Artefice di questo trionfo di fantasia e lusso culinario è il cuoco, che viene in seguito lodato da Trimalcione come un uomo inestimabile (70,2 non potest esse pretiosior homo), sottolineando, tra l’altro, che era capace di fare de colaepio gallinam (“da un prosciutto una gallina”) con ulteriore variazione sul tema, da cui risulta l’importanza del pollame – vero o camuffato – tra le portate di un banchetto romano.
Ricordiamo infine che anche Plinio segnala varie “arti culinarie” (culinarum artes) dedicate alle galline (in nat. 10,140), aggiungendo un ulteriore esempio di manicaretti a base di pollo non limitati all’Italia, ma riferiti ai lontani (e storicamente famigerati) Parti, che “avevano dato anch’essi ricette ai loro cuochi” (dedere et Parthi cocis suos mores), quasi ad indicare la loro piena romanizzazione. Nello stesso passo egli ricorda pure la cura che veniva prestata nell’allestire la portata del pollo “affinché le cosce si presentassero bene, oppure fossero piegate secondo le due parti del dorso, o ancora allungate da un lato per occupare tutto il piatto” (ut clunes spectentur, ut dividantur in tergora, ut a pede uno dilatatae repositoria occupent), operazione tanto delicata che vi era uno schiavo addetto al taglio (menzionato da Seneca in epist. 47,6 e da Giovenale in 5,123). Eppure, come nota Plinio con sorridente ironia, “pure con questo abbellimento nulla piace del tutto, si loda la coscia, ma altrove soltanto il petto” (nec tamen in hoc mangonio quicquam totum placet, clune, alibi pectore tantum laudatis): ne risulta l’incontentabilità e superficialità del genere umano, anche quando viziato e fortunato, che ricorda vagamente la favola della gallina dalle uova d’oro.
Emerge dunque, anche intorno ad un soggetto apparentemente umile e campagnolo come la gallina, peraltro complesso nel suo molteplice ruolo di fattrice, chioccia e pietanza, la creatività e l’ingegnosità del mondo romano antico: il volatile attrasse e coinvolse in modi diversi scienziati, letterati, imperatori e cuochi, stimolò confronti e dispute, ispirò la saggezza popolare, suscitò sorrisi e speranze di fortuna, in un rapporto vivace e vario tra uomo ed animale, spesso necessariamente utilitaristico da parte del primo, ma anche talvolta affettuoso e non privo di soggezione.
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