«Gradevoli e spesso di grande efficacia sono lo scherzo e le battute di spirito» (Cicerone, de orat. 2, 216 suavis autem est et vehementer saepe utilis iocus et facetiae, – le traduzioni usate in questo saggio sono di MARTINA et al. 1994; il testo è quello dell’edizione critica di KUMANIECKI, 1969). Con queste parole esordisce l’oratore Marco Antonio (nonno del triumviro) nel II libro del De oratore di Cicerone per introdurre l’argomento dell’umorismo e dell’ironia, un’attitudine diffusa nel mondo antico (vd. WEEBER 1991, pp. 9 ss.) ed ampiamente utilizzata per scopi forensi nell’eloquenza romana, anche più che in quella greca (vd. LEEMAN-PINKSTER-RABBIE 1989, p. 173).
Il dialogo De oratore, composto nel 55 a.C., si immagina svolto, come è noto, nel 91 a.C. a Tuscolo, nella cornice fittizia, ma storicamente verosimile, di una conversazione svoltasi nella villa dell’oratore Lucio Licinio Crasso (maestro di Cicerone e da lui molto ammirato), in compagnia di illustri ospiti quali politici, avvocati e giuristi, che si confrontano sulle qualità del perfetto oratore. Un’atmosfera amichevole e sorridente pervade tutta l’opera per la familiarità e la confidenza tra i partecipanti, a cominciare dalla scelta iniziale della struttura dialogica dell’opera e dalla sua ambientazione, ispirata apertamente al modello platonico e suggerita come per gioco da una battuta del giureconsulto Scevola l’Augure (de orat. 1,28): cur non imitamur, Crasse, Socratem illum qui est in Phaedro Platonis? («Crasso, perché non facciamo come il Socrate del Fedro di Platone?»). L’idea di sedersi a parlare seduti sull’erba sotto un platano (nam me haec tua platanus admonuit «questo tuo platano me lo ha fatto venire in mente») è accettata volentieri dal padrone di casa, Crasso, che però, con maggior senso pratico e forse in scherzosa emulazione dei Greci (tema ricorrente nel De oratore), aggiunge qualche comodità (de orat. 1,29 immo vero commodius etiam) facendo portare dei pulvini (cuscini).
Nel II libro la conversazione si svolge nel corso di una passeggiata sotto il portico, con allusione alla scuola peripatetica, benché non senza qualche ironica critica da parte dello stesso Crasso alla «mania di discutere assai sottilmente, come sono soliti [i greci], dovunque e con chiunque, su problemi o difficilissimi o irrilevanti» (de orat. 2, 18 ut illi solent, quocumque in loco quoscumque inter homines visum est, de rebus aut difficillimis aut non necessariis argutissime disputare). Tra gli argomenti della conversazione vi è spazio dunque anche per l’umorismo, soggetto apparentemente ludico e marginale, ma in realtà ricco di implicazioni tecniche e strategiche per la professione dell’oratore, come viene detto più avanti da un altro personaggio del dialogo, Giulio Cesare Strabone (de orat. 2, 219 multum in causis persaepe lepore et facetiis profici vidi, «ho osservato che molto spesso nelle cause si ottengono buoni risultati con l’arguzia e le battute di spirito»). Non a caso il tema è introdotto da Antonio, oratore amante degli aspetti tecnici dell’eloquenza, basati sull’osservazione e sulla pratica, piuttosto che su conoscenze teoriche e culturali, care invece a Crasso (vd. BOLDRER 2017, pp. 25 ss.). Si pone tuttavia la questione se l’uso di facezie sia una vera e propria ars (definita ars salis in de orat. 2, 216) – non riconosciuta da tutti nel mondo romano – e quindi inclusa tra i mezzi «con cui si commuovono gli animi umani», specialmente per variarne lo stato (de orat. 2, 204 quibus rebus animi hominum moverentur): in proposito poco prima Antonio aveva sottolineato la necessità della compresenza, in un discorso, di toni diversi, sia veementi che pacati, per suscitare emozioni possibilmente opposte a quelle prodotte da un precedente oratore avversario, per distoglierne il pubblico e riconquistarlo (de orat. 2, 204), e a ciò anche l’umorismo poteva contribuire. L’uso studiato di facezie rientrava in particolare nel ricorso a verba iucunda («parole gradevoli») che doveva caratterizzare il perfetto oratore, almeno secondo l’opinione espressa da Antonio nel I libro (de orat. 1,213): e um puto esse qui et verbis ad audiendum iucundis et sententiis ad probandum accommodatis uti possit in causis forensibus atque communibus («penso che l’oratore sia colui che è in grado di servirsi di parole gradevoli all’ascolto e di argomentazioni atte a convincere nelle ordinarie cause forensi»).
Benché dapprima iocus e facetiae appaiano doti innate che non possono essere insegnate attraverso una doctrina, di fatto si offre una trattazione ampia ed approfondita dell’argomento (de orat. 2, 216-291) – più estesa, come è stato notato, di quella della dispositio o della memoria, pur parti essenziali dell’arte retorica (vd. LEEMAN-PINKSTER-RABBIE, p. 173) – attraverso indicazioni teoriche ed exempla, con citazioni di oratori e poeti scenici. L’esposizione è affidata principalmente a Cesare Strabone (apparso nel dialogo a partire dal II libro, in de orat. 2, 12), interpellato da Antonio per la sua fama di oratore abile e spiritoso, e perciò relatore ideale.
In un discorso cosparso esso stesso di facezie, egli comincia scrupolosamente – ma con caustico spirito critico – a fornire alcuni (vaghi) riferimenti bibliografici a trattati greci sull’argomento (de ridiculis), letti «nella speranza di trarne qualche insegnamento» (de orat. 2, 217 cum quosdam Graecos inscriptos libros esse vidissem de ridiculis, nonnullam in spem veneram posse me ex iis aliquid discere). Si è vista qui una possibile allusione al celebre quanto incerto II libro della Poetica di Aristotele (vd. JANKO 1984, che tenta una sua ricostruzione sulla base dell’anonimo Tractatus Coislinianus sulla commedia, supponendo che «Cicero’s source was in some way related to our treatise on comedy», p. 73) ed ai Peripatetici Demetrio e Teofrasto – autore di uno scritto (perduto) Sul ridicolo, ma che anche nei Caratteri mostra inclinazione all’umorismo nelle caricature di figure morali –, o ancora a raccolte di facezie popolari; più avanti risulterà utilizzata una raccolta di facezie di Catone (ma nessun trattato in latino, ancora inesistente). Riguardo alle letture greche Cesare Strabone afferma, con ironica antitesi tra salsus e insulsus, di aver sì trovato divertenti ed argute molte battute dei Greci (inveni autem ridicula et salsa multa Graecorum), ma anche che coloro «che tentavano di insegnare un qualche sistema razionale in proposito riuscivano così insipidi, che l’unica cosa che faceva ridere era la loro insulsaggine» (de orat. 2, 217 sic insulsi extiterunt, ut nihil aliud eorum nisi ipsa insulsitas rideatur).
Ciononostante, nell’implicita emulazione dei predecessori (vd. GRANT 1924), il relatore del dialogo (e Cicerone dietro di lui) inizia a suddividere l’argomento scientificamente in due parti (de orat. 2, 218 cum duo generis sint facetiarum…), distinguendo dapprima, con erudita (e desueta) terminologia arcaica legata alla commedia, tra il concetto di cavillatio, indicante un costante e prolungato tono ironico (già in Plaut. Truc. 685 istaec ridicularia, cavillationes; Stich. 228), e ladicacitas (voce attestata a partire da Cicerone, ma cfr. dicax già in Plaut. Truc. 683), ovvero la battuta breve, lo scherzo pungente, il lazzo improvviso detto anche “Witz” (vd. SANTARCANGELI 1989, pp. 129), congeniale all’italica mordacità, l’ Italum acetum ricordato poi da Orazio in sat. 1,7,32 (vd. PAOLI 1968, pp. 601 ss.). In seguito si ricorre invece nel discorso a termini più usuali quali lepor, facetiae, iocus e risus, che mostrano una notevole varietà lessicale utilizzabile per tale argomento (vd. BEARD 2016, p. 89).
Sul piano teorico-didattico, Cicerone sembra colmare una lacuna presente nella letteratura tecnica in lingua latina (vd. NARDUCCI 1994, p. 64) basandosi sia sulle fonti che sull’esperienza di vari oratori (tra cui spicca Crasso) e indirettamente sulla propria, con un’accurata articolazione dell’argomento che rivela la vastità e varietà degli aspetti e delle tecniche utili a suscitare ilarità e soprattutto beffa. Ne risulta un vero e proprio manuale collocato al centro del II libro e dell’intero trattato De oratore, che può essere inteso da una parte come una digressione ovvero «un divertissement indirizzato a rilassare il lettore» (vd. NARDUCCI 1994, p. 63), specie in base alla battuta di Antonio che ne parla come di una piacevole pausa quasi in aliquo peropportuno diversorio («come in un albergo che capiti quanto mai a proposito») nel corso dell’impegnativa esposizione delle prime due parti dell’eloquenza, dopo l’inventio e prima della dispositio; d’altra parte, si tratta della trattazione professionale di un genus degno di analisi e di studio (genus iocandi), conosciuto e praticato da vari oratori autonomamente, in mancanza di una precettistica comune. È inoltre probabile che Cicerone sia stato spinto alla composizione dalla volontà di legittimare l’umorismo come una componente dell’ars dicendi, anche con intento apologetico contro avversari e detrattori che lo avevano definito ironicamente per questa sua abilità γελοῖον ὕπατον («console faceto»), come esclamò Catone in occasione della causa Pro Murena del 63 a.C. dopo che Cicerone aveva deriso i paradossi stoici per colpirlo (vd. Plutarco, Comp. Demosth. Cic. 1,5 «signori, che console faceto abbiamo!»), o anche più aspramente consularis scurra («buffone consolare» in Macr. Sat. 2, 1,12), come disse il testimone dell’accusa Publio Vatinio nel processo contro Publio Sestio, difeso da Cicerone nella Pro Sestio nel 56 a.C. (vd. LEEMAN-PINKSTER-RABBIE 1989, p. 173; NARDUCCI 1994, p. 64).
Grazie all’ironia o al dileggio della parte avversa, Cicerone aveva in effetti affrontato con successo cause giudiziarie, specie in mancanza di altri elementi o argomentazioni utili, come nella Pro Caelio, vinta (in collaborazione con Celio Rufo e Crasso) nonostante la grave e fondata accusa di violenza politica (vis contra rem publicam) rivolta al suo cliente, puntando su toni da commedia (e da mimo) soprattutto nella denigrazione comica della principale accusatrice, Clodia, paragonata maliziosamente sia a una librettista di mimi (per i suoi presunti intrighi), che a un’attrice per la discutibile moralità. Non è forse casuale che l’approfondimento sull’umorismo nel De oratore risalga all’anno successivo a tale causa giudiziaria, discussa nel 56 a.C. (come la Pro Sestio), in cui Cicerone aveva sperimentato con successo iocos et facetias, assieme alla tecnica di smembrare le imputazioni ed aggirare i reali capi d’accusa (vd. (vd. GEFFCKEN 1973; CAVARZERE 2001, pp. 24 ss. e 173 n. 160).
Se in questo caso il motteggio appare prolungato e senza riguardi verso la controparte, altrove nella trattazione De facetiis viene invece consigliata una ironia priva di punte malevoli e una ilarità rispettosa della dignità dell’avversario (anche per conservare la propria reputazione), come mostra l’esempio di un discorso di Crasso a favore di Curio contro Scevola (de orat. 2, 221). D’altra parte, nel caso di un avversario di grande autorevolezza – come Domizio in un processo che lo contrapponeva a Crasso, ricordato in de orat. 2, 230 –, «appariva preferibile infirmare le sue accuse con l’arguzia che smantellarle di forza». Peraltro Cesare Strabone nota curiosamente la difficoltà, per le persone naturalmente spiritose, a trattenere battute mordaci spontanee e quasi indotte da un impulso irrefrenabile, che viene spiegato attraverso una similitudine faceta, ma piuttosto irriverente, con un passo moraleggiante di Ennio tratto da un’opera scenica (167 J = 412 s. V. 2), suggerita da «buontemponi» (ridiculi homines), come dice Cesare Strabone quasi per dissociarsi (ma tra questi sembra incluso lui stesso), e riguardante in verità i sapientes, spinti necessariamente a dire sempre bona dicta.
Quanto ai motti rapidi e incisivi, si riporta un esempio tratto da un altro discorso di Crasso contro un certo Marco Giunio Bruto a lui inviso, colpito attraverso riferimenti imbarazzanti a sue vicende personali (benché estranee al processo), quali il fatto che avesse venduto dei balnea (impianti termali) e dilapidato il patrimonio del padre, un noto giurista (de orat. 2, 223): quam multa de balneis, […] quam multa de amisso patrimonio dixit! («quanti motti a proposito dei bagni […], quanti sul patrimonio che quello aveva dilapidato!»). Inoltre Crasso, parodiando lo stesso Bruto che aveva utilizzato nel processo la lettura di documenti, fece leggere a sua volta alcuni passi tratti dalle opere di diritto civile del padre (defunto) di quello – quasi lo chiamasse a testimoniare contro il figlio –, in cui erano citati i possedimenti che aveva perduto, e invocò persino un’anziana parente di Bruto (di cui si svolgeva il funerale proprio nei giorni del processo) perché lo biasimasse idealmente davanti alle imagines degli antenati, con domande incalzanti e in enfatici toni tragici. Dopo tali e tante trovate la conclusione non poteva che essere questa (de orat. 2, 225): «insomma, chi non ammette che Bruto fu ridotto al silenzio?» (quis est igitur qui non fateatur hoc lepore atque his facetiis non minus refutatum esse Brutum […]?). Di tale tattica spregiudicata e brillante Crasso diede prova anche in altre occasioni, benché fosse altrimenti noto come oratore serio e solenne, mostrandosi dunque capace di un’eloquenza versatile, come poi anche il suo allievo Cicerone.
Quasi ad attenuare il carattere aggressivo e spregiudicato di tale uso dell’arguzia, Antonio interviene a questo punto della trattazione per sottolineare che, pur nella mancanza (al momento) di una vera ars dell’umorismo, essa richiede doti psicologiche quali la capacità di valutare le persone, il fatto e la circostanza, riconoscendo la necessità di usarla quando necessario e preferibilmente in risposta ad una provocazione, anziché come arma di offesa, meno naturale e poco gradita al pubblico (de orat. 2, 229 s.). L’esposizione giunge, però, ad un punto critico – quasi mimando l’incertezza dell’autore dell’opera sull’opportunità o meno di approfondire ulteriormente l’argomento – per una sostanziale divergenza di opinioni tra i personaggi, ovvero tra chi, come un altro partecipante al dialogo, il tribuno della plebe Publio Sulpicio Rufo, chiede ulteriori notizie sulla natura e l’origine delgenus iocandi (de orat. 2, 231 totum genus hoc iocandi quale sit et unde ducatur), e Cesare Strabone, che ribadisce che «non esiste alcuna teoria dell’umorismo» (adsentior Antonio dicenti nullam esse artem salis).
Il silenzio che ne risulta (cum Sulpicius reticuisset…) è colmato dall’intervento equilibrato di Crasso, il saggio ospite che contribuisce a nobilitare il genus iocandi indicandolo come uno strumento retorico pari ad altri basati sulla observatio, non senza una battuta ironica rivolta ad Antonio – con cui era in amichevole competizione – sul fatto che altrimenti anche tutti gli altri insegnamenti da lui esposti, ugualmente basati sulla pratica, non avrebbero avuto valore (2, 231 quasi vero […] horum ipsorum de quibus Antonius iam diu loquitur ars ulla sit!). Anche Crasso chiede dunque una dissertazione sull’argomento per completezza «in modo che non sembri per caso che si sia trascurato […] questo che, per vostra stessa ammissione, costituisce un aspetto dell’oratoria» (de orat. 2, 233 ne qua forte dicendi pars, quoniam ita voluistis, […] praeterita videatur).
Appare significativo a questo punto il merito che Cesare Strabone, accettando, si attribuisce in tono semiserio, usando una formula (ego… primum) simile a quella (ego primus) che sarà poi propria di molti autori latini innovativi (specie poeti) nell’emulazione dei greci (de orat. 2, 233): «così anch’io ora, al cospetto di Crasso, per la prima volta parlerò delle facezie» (sic ego nunc, Crasso audiente, primum loquar de facetiis). Ciò indicherebbe secondo alcuni che l’argomento non era mai stato trattato prima in latino (MONACO 1964 ad l.), per altri solo che il personaggio stesso non ne aveva mai parlato in precedenza (LEEMAN-PINKSTER-RABBIE 1989, p. 235). Tale solennità epicheggiante è però ridimensionata subito dopo da una similitudine autoironica ispirata al prosaico proverbio sus Minervam docet («il porco insegna a Minerva», usato per indicare chi vuole insegnare ad uno più esperto di sé), che Cesare Strabone aggiunge (adattandola) per modestia davanti all’illustre Crasso: «e come il proverbiale porco, terrò una lezione all’oratore…» (et docebo sus, ut aiunt, oratorem).
L’attenzione si concentra quindi, in tono più serio e didascalico, sul tema generale del risus, esaminato sistematicamente in cinque punti: cosa sia, quale sia la sua origine, se convenga all’oratore, entro quali limiti e quali siano i tipi di ridicolo. Tralasciata scherzosamente la questione della sua «sede fisica» nel corpo umano (con ironia su studi scientifici di Democrito in proposito), si ricorda la sua origine da difetti morali, bruttezza fisica e aspetti sgradevoli in generale, nonché il fatto che l’abilità di provocare riso susciti simpatia sia come forma di difesa da un attacco, sia come segno di raffinatezza e di cultura (de orat. 2, 236 quod ipsum oratorem politum esse hominm significat, quod eruditum, quod urbanum), nonché soprattutto come mezzo per mitigare tristezza e serietà. Emergono qui alcuni aspetti dell’humanitas di Cicerone, la sua conoscenza del genere umano, di sentimenti e comportamenti spesso irrazionali ed imprevedibili, di cui si invita ogni oratore a tenere conto. Particolarmente acute e sempre attuali sono le osservazioni su come l’oratore «spesso con uno scherzo o una risata riesca a dissipare accuse odiose che non sarebbero facilmente confutabili con argomentazioni» e, d’altra parte, anche come non possano «essere oggetto di riso né la malvagità estrema né, per contro, l’infelicità estrema», perché «bisogna soprattutto avere rispetto dei sentimenti del pubblico» (de orat. 2, 237 parcendum autem maxime est caritati hominum) e non «portare lo scherzo al livello di quelli dei buffoni e dei mimi» (ibid. 2, 239 ne aut scurrilis iocus sit aut mimicus).
Rispetto a tale dimostrazione di sensibilità risulta in certo contrasto l’argomento goliardico successivo, che comporta un brusco cambiamento di atteggiamento, peraltro ricorrente nella trattazione sul ridicolo, nel probabile intento di animare l’esposizione e sorprendere o disorientare scherzosamente il lettore. Viene infatti espresso l’apprezzamento per aneddoti «inventati di sana pianta» (ficta tota narratio) dagli oratori per dileggiare la controparte, raccogliendo esempi di stratagemmi vari, quali l’uso di finte testimonianze, di dettagli esagerati e stravaganti – ad es. quando Crasso disse che Memmio aveva «divorato un braccio a Largio» portando come prova un (falso) acronimo scritto sui muri (de orat. 2, 240 L.L.L.M.M. lacerat lacertum Largi mordax Memmius); anche l’imitazione della voce e dei movimenti dell’avversario potevano prestarsi alla derisione, con spunti attinti anche da scene di teatro.
Nella casistica non mancano peraltro esempi negativi, ovvero battute infelici segnalate e criticate dal relatore a scopo didattico perché vengano evitate, come quella pronunciata ai danni di un testimone di piccola statura, ma fatta in presenza di un giudice ancora più basso di lui (de orat. 2, 245). Ne emergono riflessioni di validità generale, come l’invito a decidere «se e quando usare il motto di spirito secondo il nostro senso dell’opportunità e il nostro tatto» (de orat. 2, 247 tempus igitur dicendi prudentia et gravitate moderabimur), o l’affermazione che «da qualunque fonte si faccia scaturire il ridicolo, dalla stessa, di norma, si possono attingere anche concetti assolutamente seri» (de orat. 2, 248 quoscumque locos attingam unde ridicula ducantur, ex iisdem locis fere etiam gravis sententias posse duci).
Benché siano escluse generalmente le buffonerie, non mancano alcune contraddizioni nei precetti forniti, come riguardo all’uso dell’imitazione parodica dell’avversario, talvolta apprezzata anche in forme plateali (vd. de orat. 2, 266), ma altrove consigliata solo se attuata in modi impercettibili (de orat. 2, 242), oppure nel giudizio sui mimi, spesso biasimati e addidati come esempi da evitare (de orat. 2, 244 «vitanda est mimorum et ethologorum similitudo»), ma anche imitati e apprezzati per la loro arguzia (vd. infra), a dimostrazione che Cicerone li conosceva bene.
Cesare Strabone entra poi nel particolare esaminando l’uso di alcuni mezzi tecnici del genus iocandi: i doppi sensi (benché motivo più di ammirazione che di ilarità); le arguzie basate sulla delusione delle aspettative (specie alterando parole dell’avversario); giochi di parole e di nomi propri (con paronomasia), come la deformazione di Nobiliorem in mobiliorem (utilizzata da Catone) o una battuta sull’ambivalente nome Asellus (anche «asinello»); citazioni di versi e proverbi (tratti spesso da Cecilio Stazio); le parole prese alla lettera, per cui si ricorda l’esempio del Tutore, «un vecchio mimo assai divertente» (non altrimenti noto) interamente basato su questa tecnica (de orat. 2, 259 mimus vetus, oppido ridiculus); e ancora l’allegoria, la metafora e l’ironia; il ridicolo nei fatti, l’aneddoto, il confronto, la caricatura, le immagini paradossali.
Tra le varie facezie citate Cicerone trova l’occasione per ricordare anche una battuta di suo nonno, Marco Cicerone senex (in de orat. 2, 265), elogiando indirettamente pure suo padre, dato che l’avo è presentato da Cesare Strabone come «il padre dell’ottimo comune amico dei presenti» (huius viri optimi nostri familiaris pater). Si tratta peraltro di una facezia alquanto caustica nei confronti sia dei cittadini romani che dei loro schiavi, basata sulla tecnica del confronto e indicativa di un atteggiamento critico e diffidente simile a quello di Catone: «i nostri concittadini sono come gli schiavi siriani: quanto più sanno il greco, tanto meno valgono» (nostros homines similes esse Syrorum venalium: ut quisque optime Graece sciret, ita esse nequissimum). Sempre sugli schiavi è ricordata in precedenza anche una battuta ironica riferita a un ladro, ma detta apparentemente in sua lode: «è il solo per il quale in casa non c’è niente di sigillato o chiuso a chiave!» (de orat. 2, 248 solum esse cui domi nihil sit nec obsignatum nec obclusum).
Battute immediate, comiche e divertenti sono poi quelle basate su immagini paradossali per eccesso o per difetto (de orat. 2, 267 illa quae minuendi aut augendi causa ad incredibilem admirationem afferuntur), come il motteggio di Memmio, che credeva di essere molto alto e si abbassava senza motivo sotto l’arco trionfale di Fabio quando entrava nel Foro; o la frase rivolta da Scipione, mosso dall’ira, a Metello (nel 134-133 a.C.): si quintum pareret mater tua, asinum fuisse parituram («se tua madre avesse partorito un quinto figlio, avrebbe dato alla luce un asino!»). Più sottili sono invece le facezie pervase di ironia, un concetto che Cicerone esprime in due forme, latina e greca: in latino ricorre ad una perifrasi (de orat. 2, 269 urbana dissimulatio, cum alia dicuntur ac sentias), in greco al termine specifico (che appare intraducibile) citato in riferimento a Socrate, che viene apertamente lodato come «insuperabile per piacevolezza e garbo in questa ironia e dissimulazione» (de orat. 2, 270Socraten opinor in hac εἰρωνείᾳ dissimulantiaque longe lepore et humanitate omnibus praestitisse). L’ironia risulta dunque essere un mezzo particolarmente apprezzato per la sua gradevolezza e finezza psicologica (humanitas), adatto sia ai discorsi degli oratori che alle conversazioni colte e ad ogni occasione: un esempio è tratto dal dialogo tra due comandanti, Livio Salinatore, che aveva perso la città di Taranto resistendo però a lungo nella torre, e Fabio Massimo, incaricato di riprendere la città, il quale, alla richiesta del collega di ricordare comunque i propri meriti precedenti, rispose ironicamente «come potrei non ricordarmene? […] Non l’avrei mai riconquistata, se tu non l’avessi persa!» (quidni – inquit – meminerim? Numquam enim recepissem, nisi tu perdidisses).
Restano da esaminare le battute stravaganti, nascoste e inaspettate. Tra le prime, buffe già nel nome (subabsurda), forse un po’ superficiali ma ritenute «adattissime ai mimi, ma anche in certa misura, a noi [oratori]» (de orat. 2, 274 sunt enim illa subasurda, sed eo ipso nomine sape ridicula, non solum mimis perapposita, sed etiam quodam modo nobis), si cita ad es. l’esclamazione sarcastica «che sciocco, quando cominciava ad avere soldi è morto!» (homo fatuus,/ postquam rem habere coepit, est emortuus). Riguardo alle facezie nascoste vi è ad es. l’aneddoto di un siculo che, a un amico che piangeva perché sua moglie si era impiccata a un fico, disse: “Dammi una talea di questo albero da piantare”» (de orat. 2, 278). Per le battute inaspettate (su cui vd. PETRONE 1971) vi è poi la storiella di un altro siculo (rappresentante dunque di una comunità particolarmente mordace) che declinò l’offerta di Scipione (forse il fratello dell’Africano Maggiore) di dargli come avvocato un suo conoscente perbene ma inetto (nel testo stultus), pregandolo di assegnare piuttosto quel difensore al suo avversario e di non darne a lui nessuno (de orat. 2, 280).
Ne risulta una grande attitudine al riso da parte di molti oratori romani così come della popolazione latina in generale, la capacità sia di invenzione che di riuso di arguzie di ogni provenienza, e ne risulta indirettamente l’umorismo di Cicerone stesso, che attraverso questa trattazione del ridicolo manifesta una personalità solare, scherzosa in sé e piacevole per gli altri, spontanea benché anche astuta e talvolta irriverente e impietosa nel dileggio altrui. La sua innata ilarità emerge in affermazioni (attribuite ai personaggi) quali «queste battute fanno ridere molto» (valde haec ridentur) o «personalmente, mi fanno ridere di cuore anche le battute irose, quasi dettate dal fastidio» (de orat. 2, 279 me tamen hercle etiam valde movent stomachosa et quasi submorosa ridicula), che suscitano curiosità e simpatia, trasmettendo un buonumore quasi contagioso nella lettura. Esempi e consigli oltrepassano spesso i limiti forensi, come del resto dichiara apertamente Cesare Strabone, che offre spunti per qualunque conversazione, ovvero dei condimenta utili per tutti i discorsi (de orat. 2, 271 et hercle omnia haec, quae a me de facetiis disputantur, non maiora forensium actionum quam omnium sermonum condimenta sunt).
Quasi alla fine della trattazione sul ridicolo viene rivelata, come anticipato, anche una fonte latina di facezie, ovvero la raccolta di detti celebri di Catone il Censore detta Apophthegmata, di cui – dice Cesare Strabone – «mi sono servito per trarre numerosi esempi» (de orat. 2, 271 quod apud Catonem est, qui multa rettulit, ex quibus a me exempli causa complura ponuntur). Cicerone stesso divenne tanto famoso per le sue battute da invogliare molti a raccoglierle, tra cui verosimilmente il suo liberto Tirone che ne ricavò tre libri, come attesta Quintiliano (inst. 6,5 libertus eius Tiro aut alius, quisquis fuit, qui tris hac de re libros edidit), nonché l’amico Trebonio, come risulta dall’epistola ad fam. 15,21 (datata alla fine del 46 a.C.), in cui Cicerone ringrazia l’amico per avergli inviato, assieme alla lettera, anche un piacevolissimoliber (§ 1 et epistulam tuam legi libenter et librum libentissime), che risulta appunto consistere in una collezione delle sue battute (di cui restano frammenti; vd. MANZO 1969), introdotte da Trebonio a sua volta in modo umoristico (§ 2 tibi facetum videtur, quidquid ego dixi […] illa, sive faceta sunt sive secus, fiunt narrante te venustissima).
Tra i contemporanei di Cicerone anche Cesare fu autore di Dicta collectanea (o Apophthegmata), un’operetta giovanile che raccoglieva motti e facezie, tra cui molti dello stesso Cicerone; l’oratore se ne compiace in una sua lettera (Cic. fam. 9,16,4 del 46 a.C.), lodando Cesare anche per la capacità di distinguere le proprie battute autentiche da quelle false (cfr. BOLDRER 2007, 1567 n. 14). Tuttavia Augusto vietò che l’opera del padre adottivo fosse esposta nella biblioteca pubblica sul Palatino, forse per questioni di decorum, come riferisce Svetonio (Caes. 56,7 dove si menziona una lettera inviata in proposito dal princeps al bibliotecario Pompeo Macro). Eppure Augusto stesso divenne popolare a sua volta per alcune battute di spirito di notevole e duraturo successo, come l’espressione «pagheranno alle calende greche», detta a proposito di chi si sottraeva alle promesse (Suet. Aug. 87 cum aliquos numquam soluturos significare vult, “ad Kal. Graecas soluturos” ait, ad Kal. Graecas soluturos) e il saluto finale agli amici, prima di morire, con le parole di commiato di una commedia (Suet. Aug. 99 amicos percontatos ecquid iis videretur mimum vitae commode transegisse, adiecit et clausulam …; vd. BOLDRER 2015).
Nel I secolo d.C. sarà Quintiliano a riprendere il tema dell’uso dell’umorismo in ambito oratorio in un capitolo ad esso dedicato (inst. 6,3 intitolato in alcuni codici De risu), accomunato all’esposizione ciceroniana per la trattazione dell’argomento nell’ambito dell’inventio e per la struttura quasi autonoma di tale sezione rispetto al resto dell’opera (vd. MONACO 1988, pp. 7 ss.). Anche Quintiliano si mostra disponibile al riconoscimento del valore tecnico-retorico delle facezie, pur con cautela (inst. 6,11 non ausim dicere carere omnino arte, «non oserei dichiarare che questa attività delle facezie […] sia del tutto priva di una tecnica»), e può affermare che «esistono sull’argomento trattazioni teoriche composte sia da Greci che da Latini» (suntque ad id pertinentia et a Graecis et a Latinis), grazie soprattutto al contributo – per la parte latina – del De oratore di Cicerone, cui si era aggiunto anche un manuale De urbanitate di Domizio Marso. Proseguiva così una brillante tradizione di facezie che risultano tuttora accessibili e godibili, mostrando come il gusto per l’umorismo si sia mantenuto pressoché inalterato attraverso i secoli dal mondo classico fino a noi.
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