logo fillide

il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 16

 aprile 2018

Saggi e rassegne

Francesca Golia

Il «fantasma» di Pirandello nella casa ispirata di Alberto Savinio

La casa! La casa! Amici;
chi fra di noi saprà mai sciogliere
l’enigmatico nodo di pietra?…
(Alberto Savinio, Hermaphrodito)

Nel 2017, in occasione dei 150 anni dalla nascita di Pirandello, la riapertura della sua casa romana è inaugurata con un evento dal titolo La Casa Ispirata: i ricordi dello scrittore rivivono in forma di ombre e di fantasmi, attraverso le voci di alcuni attori e le immagini proiettate sui muri della casa. Nelle novelle e nel teatro di Luigi Pirandello le case ispirate non mancano, che siano abitate da fantasmi (La Casa del Granella), ombre e personaggi (Colloquii coi personaggi) o da mobili che sembrano vivere di vita propria (Un Ritratto), eppure nessuna opera con questo titolo figura nella sua produzione.

La Casa Ispirata è, sì, il titolo di un’opera, ma di Alberto Savinio, pubblicata a puntate sulla rivista «Il Convegno» nel 1920 e poi in volume nel 1925. Coincidenza vuole che proprio nella casa di via Bosio, nella biblioteca di Pirandello, si trovi una copia «fresca di stampa», con una dedica dell’autore datata maggio 1925: «A Luigi Pirandello come figlio e discepolo al padre e maestro» (SAVINIO 1989, p. 135).

Si potrebbe pensare che l’ispirazione di una casa abitata dai fantasmi sia venuta al giovane scrittore in seguito alla lettura di Pirandello – altrimenti perché avrebbe regalato al «padre e maestro» questo libro che lui stesso considerava acerbo, lontano, adolescente? (SAVINIO 1995, p. 933). Ma – e questo complica le cose – Savinio era convinto che nulla fosse più lontano dalla poetica e dal genio di Pirandello quanto il considerarlo un collezionista di fantasmi.

Abbiamo perciò ragione di credere che se Alberto Savinio, assiduo frequentatore di spettacoli e soirées romane, avesse partecipato all’inaugurazione che dalla sua opera prendeva il nome, si sarebbe non poco dispiaciuto nel vedere i ricordi dell’autore prendere la forma di spettri e vagare liberi nella sua casa. «Nei paesi civili gli spettri vanno tenuti al guinzaglio» scriveva quando lo stesso Pirandello cedeva a questo genere di «debolezze»: considerava infatti «la personificazione dei ricordi» nulla più che un «trucco», così come «trucchi» e «pretesti» erano per lui le riflessioni pirandelliane sull’«equivoco tra apparenza e realtà», che non andavano prese alla lettera. Questi temi e pretesti alimentavano soltanto il vero dramma di Luigi Pirandello: «il “dramma del passaggio”, l’affannosa, allucinata ricerca di una evasione da “questo mondo”, lo sbocco in un mondo “superiore”» (SAVINIO 1982, p. 65).

L’arte di Pirandello era un’«arte superiore», perché tesa verso il «passaggio a un mondo superiore», ed era il tentativo disperato di Pirandello di trovare l’uscita del labirinto di questo mondo a fare di lui un «poeta» (uno scrittore «poetico») agli occhi di Savinio. Se in molti non hanno saputo cogliere i suoi voli poetici – ci dice Savinio – è soltanto perché Pirandello era un aviatore «anomalo»: il suo volo non era dal basso verso l’alto come quello degli altri poeti, ma era un «volo di pernice», simile a quello di un gas in espansione (SAVINIO 1982, p. 371).

L’«altro mondo» per Pirandello, come per Savinio, non assomigliava a «un ospizio per anime redente» e non era altro da questo mondo, ma l’altro del mondo: un luogo, o tanti, dove «tutte le possibilità d’essere che sono in noi» (PIRANDELLO 1993, p. 701) si realizzano come ombre vive. Tuttavia, secondo Savinio, non basta essere capaci di vedere il passaggio a un mondo superiore: bisogna imparare a obbedire «alle leggi, all’etica» di questo mondo, cercare una «soluzione», per poterla indicare agli altri uomini: è questo il dovere di un poeta. Pirandello, che si è avvicinato alla soluzione più di ogni altro drammaturgo, è morto prima di riuscire a compiere l’ultimo viaggio, che per Savinio non è la morte, ma un passaggio che può avvenire soltanto in un atto di poesia. Pirandello, in questo ultimo viaggio, è stato un orgoglioso traghettatore.

Che l’opera di Luigi Pirandello sia «chiusa» nel dramma del passaggio, che la soluzione sia appena intravista, ce lo dice l’angoscia continua, la volontà di speranza, la nostalgia inestinguibile, la tristezza, il «nero» che come una gran sete la divora. (SAVINIO 1982, p. 65)

Allo stesso modo la Casa Ispirata di Alberto Savinio non vuole essere soltanto una storia di fantasmi o un album di ricordi parigini: è un dramma chiuso nel passaggio, che non trova sbocco verso un altro mondo – superiore o inferiore. In chiusura del romanzo, la parola Fine sorprende il protagonista, lo stesso Savinio, bloccato nel passaggio tra la vita e la morte, e la catastrofe annunciata si rivela un’apocalisse mancata e parodica. Ben più che qualche fantasma accomunerebbe allora i due scrittori, e a confermare questa ipotesi interviene addirittura un’apparizione divina: è infatti il «Dio umanizzato» (SAVINIO, 1986, p. 177), il Gesù che nella Casa Ispirata si aggira per le strade di Parigi, a svelarci la presenza reale nel romanzo di Luigi Pirandello, una presenza finora rimasta invisibile.

Quanto il Gesù flâneur di Savinio, che volando «come un razzo» si apre un varco nella cupola del Sacro Cuore, debba ad Apollinaire e a Max Jacob è stato detto, ma forse il debito è stato un po’ esagerato. Vero è che il Cristo era in quegli anni un habitué delle “Soirées de Paris”, la rivista diretta da Apollinaire che vedeva Savinio (e Jacob) tra i suoi più assidui collaboratori: non c’era numero della rivista che non contenesse almeno una poesia o un riferimento, più o meno velato, al Cristo, che a tutti gli effetti era diventato un abitante di Parigi, anzi di Montmartre.

L’ iniziatore di questo gioco poetico – ben prima di diventare un poeta – era stato Max Jacob: a lui, «mammifero di Montmartre» (SAVINIO 1989, p. 26), Gesù era apparso ben due volte – sul muro di casa sua in Rue Ravignan e sullo schermo di un cinematografo – e non si trattava certo di un gioco se è vero che questi divini incontri spinsero Jacob a diventare un assiduo frequentatore della Chiesa del Sacro Cuore e a intraprendere un lungo cammino di conversione al Cristianesimo. L’istrionico Jacob, con quella sincerità esibita che secondo Savinio finiva per coincidere con la sua maschera, aveva l’abitudine di parlare delle sue visioni agli avventori dei caffè del quartiere, tanto che l’idea che Gesù non disdegnasse apparire nei cinema e nelle piazze era entrata nell’ immaginario dei suoi amici poeti. Non seppe resistere neppure Apollinaire, che nella poesia Zone faceva alzare Cristo in volo da Montmartre «più veloce di un aviatore», poesia che Savinio conosceva a memoria, come racconta in Figlia d’imperatore (SAVINIO 1999, pp. 208-239).

Vorrei però suggerire che il modello di questa apparizione è in realtà la novella Sogno di Natale, scritta da Pirandello nel 1896, e che il Gesù della Casa Ispirata debba molto più allo scrittore siciliano che ai due poeti francesi. Nella novella Pirandello racconta di un incontro con Gesù avvenuto in sogno: è la notte di Natale e, ritornato nei luoghi della sua infanzia, gli sembra di scorgere la presenza divina e quasi senza corpo di Gesù, «come un fantasma bianco splendente d’una luce interiore». Attirato dalla sua forza misteriosa, lo scrittore lo segue per le strade della città, in una sterminata pianura, e persino sulle acque del mare, finché i due entrano, uniti in una sola anima, in una sontuosa basilica. A questo punto, quando Gesù si accorge che il Natale non viene festeggiato per sincera devozione ma per abitudine, la sua luce interiore si spegne ed esprime il desiderio di nascere realmente, ma per farlo ha bisogno di qualcuno che gli faccia spazio dentro di sé. Chiede allora a Pirandello di rinunciare a tutto ciò che ingombra la sua anima, i sogni, gli amici, la città, promettendogli cento volte tanto e una vera consolazione al suo stolto soffrire, ma lo scrittore non può accettare lo scambio.

– Ah! io non posso, Gesù… – feci, dopo un momento di perplessità, vergognoso e avvilito, lasciandomi cader le braccia sulla persona.
Come se la mano, di cui sentivo in principio del sogno l’impressione sul mio capo inchinato, m’avesse dato una forte spinta contro il duro legno del tavolino, mi destai in quella di balzo, stropicciandomi la fronte indolenzita. È qui, è qui, Gesù, il mio tormento! Qui, senza requie e senza posa, debbo da mane a sera rompermi la testa. (PIRANDELLO1990, pp. 1002-1003)

Il tocco lieve della mano che conduce Pirandello nel mondo del sogno e della visione, alla fine diventa una spinta che, svegliandolo bruscamente, lo restituisce al tormento dell’al di qua: il passaggio non si compie.

La struttura della novella è ripresa da Savinio con riferimenti puntuali – e con alcune divertenti modifiche: le strade affollate di Parigi subentrano a quelle, deserte, di Agrigento, la sconfinata pianura diventa il bosco di Boulogne, la Senna prende il posto del mare e la Basilica del Sacro Cuore della sontuosa basilica siciliana. Anche nel racconto di Savinio, a un tratto, la luce interiore di Gesù si spegne, ma i toni patetici della descrizione pirandelliana sono smorzati e dell’immensa tristezza di Gesù non rimane che un’ombra. Savinio esagera alcuni aspetti rendendoli comici e così l’inseguimento tra i due, appena accennato in Pirandello, diventa una vera e propria fuga (di Gesù), ma la distanza non resta incolmabile: il giovane Marcello/Savinio accoglie infatti l’invito di Gesù e, determinato a seguire il suo divino amico, sarà premiato, alla fine, con una luminosissima rivelazione.

Pur tenendo conto di queste differenze, possiamo pensare che Savinio, nel pubblicare il romanzo sulla rivista del “Convegno” – che vantava la presenza tra i suoi collaboratori dell’ormai famoso Pirandello – abbia sperato che il «maestro» potesse cogliere il suo omaggio. A quanto ne sappiamo, i due s’incontrarono soltanto quattro anni dopo, come racconta Savinio: «Ero un giorno del 1924 al Teatro Odescalchi, che allora si stava costruendo a Roma. Entra un piccolo giornalista e grida: “Ciao, Luigi!” Mi volto: “Luigi” era Luigi Pirandello» (SAVINIO 1984, p. 32).

Il direttore del Teatro Odescalchi o Teatro del «Covegno» è lo stesso Enzo Ferrieri, direttore dell’omonima rivista, che quattro anni prima aveva pubblicato a puntate la Casa Ispirata. Nel 1924, Ferrieri commissionò per il suo teatro una regia a Luigi Pirandello, che gli propose l’adattamento teatrale della sua novella Sagra del Signore della nave. Il progetto però, è il caso di dirlo, non andò in porto: il teatro infatti era troppo piccolo per contenere le moltissime comparse previste da Pirandello e a cui l’autore non aveva alcuna intenzione di rinunciare. Con la regia di Sagra, s’inaugurò la prima stagione di un nuovo teatro indipendente, il Teatro d’arte, che vide Pirandello e Savinio finalmente compagni di viaggio, mentre una seconda apparizione di Cristo salutava una nuova fase nel loro rapporto, quella del Signore della Nave dipinto sul cielo di carta della scenografia del Teatro d’Arte.

Nel finale dell’opera, mentre un’umanità bestiale affolla la scena, un tragico crocifisso viene portato in processione da alcuni fedeli, ma si tratta di un Cristo lontano da quello bianco e luminoso di Sogno di Natale e ripreso da Savinio nella Casa Ispirata: il Cristo crocifisso è qui muto, sanguinante, quasi scolpito con colpi violenti e ricoperto di sangue, ma almeno capace, con la sua presenza, d’interrompere il pasto animalesco che si consuma durante la Sagra, nel quale gli astanti prendono man mano le fattezze dei maiali che stanno mangiando. Come non pensare ai ritratti di Savinio nei quali gli uomini sono rappresentati con teste di animali, perché sia rivelata la loro vera immagine, e alla carne avariata consumata regolarmente dai grotteschi avventori della Casa Ispirata? Eppure in questo caso non si può parlare (ancora) di un’influenza di Savinio su Pirandello: si tratta piuttosto di una consonanza di temi.

Savinio metterà al servizio del Teatro d’Arte il suo multiforme ingegno, collaborando come assistente, regista, musicista, scrittore e traduttore, ma il progetto in cui riporrà le sue più grandi speranze è la realizzazione del Capitano Ulisse, che nel 1925 si apprestava a essere messo in scena. Secondo l’intuizione di Vicentini l’opera, che purtroppo non fu rappresentata se non dieci anni dopo, fu talmente apprezzata da Pirandello da ispirargli il nuovo finale dei Sei Personaggi, nella versione del 1925: usciti di scena i personaggi, infatti, le loro ombre rimangono in scena, così come nell’opera di Savinio l’ombra di Ulisse rimaneva in scena anche in assenza del capitano. Ancora una volta a guardar bene c’è più di un gioco di ombre e di fantasmi dietro queste reciproche influenze: come l’ombra di Ulisse non è l’ombra di un morto, ma la viva incarnazione della sua infelicità, così le ombre dei personaggi – nel finale del 1925 – ci dicono che essi «sono vivi, rappresentano l’umanità vera, per questo ci inquietano, non per una sorta di allucinante ghost-play» (GIGLIUCCI 2017, p. 82).

Nel 1925, durante le prove del Capitano Ulisse, il romanzo La Casa Ispirata esce in volume presso l’editore Carabba e Savinio ne regala subito una copia a Pirandello, ironia della sorte (per un’altra pietrificante coincidenza), proprio quando «il padre e maestro» si è messo alla scuola del suo «figlio e discepolo» Savinio. Ma perché «padre e maestro»? In mancanza di un altro deus ex machina, ci resta da interrogare l’ombra di Ulisse, che, se non potrà darci risposte certe, potrà illuminare la questione con qualche suggestione poetica.

Nel secondo atto di Capitan Ulisse, per la prima volta in assenza di Ulisse, appare la sua ombra: sulla scena ci sono Telemaco (alter ego di Savinio), suo padre (o la sua ombra) e un maestro (Il Mentore):

Mentore: (si approssima alla lavagna […] si accorge che Telemaco non gli è vicino: si volta, lo vede immobile, fisso lo sguardo all’uscio) Telemaco, che fai? (Telemaco si riscuote: si avvicina lentamente alla lavagna). Dicevo dunque: l’algebra è una scienza duttile e spaziosa. Sai che cos’è l’algebra? L’algebra è come le stelle, tra le quali vediamo scorrere e giocare i nostri pensieri; è come il lento trasformarsi delle nubi, nelle quali vediamo affacciarsi e sparire il volto di una persona cara. (Indica la lavagna) Simboli: meno che fantasmi… Meglio ancora: esca ai fantasmi: li chiamano, li suscitano, li radunano… E così ospitali da raccogliere i nostri più segreti pensieri… Vuoi vedere?

Inutile dire che si tratta di un cattivo maestro, come sarà evidente quando farà scoppiare Telemaco in un pianto disperato, cercando di costringerlo a risolvere l’incognita. Il maestro conosce ogni teoria sui fantasmi: sa cosa sono e cosa li attira, ma la sua fede nella scienza e nella ragione ne fa un uomo troppo concentrato sull’esca ai fantasmi per vederli effettivamente apparire. Il maestro si accorge che Telemaco guarda l’uscio, ma non segue lo sguardo del giovane al di là della porta-passaggio e non riesce a vedere al di là l’ombra di Ulisse che pure ha appena invocato:

Ulisse, triste, pensieroso, le braccia incrociate sul petto. Si ferma a guardare Telemaco. Questi, come se s’aspettasse quell’apparizione non mostra la più lieve sorpresa. Padre e figlio si fissano, incantati. Poi, Ulisse, lentamente, se ne va dall’altra parte.

Telemaco è uno dei molti alter-ego di Savinio, appassionato di musica e frequentatore dell’oltre, tanto che nessuno stupore suscita in lui l’irruzione dell’ombra di un padre da sempre atteso. Quanto l’ombra di Ulisse assomigli a Pirandello si può comprendere fin dalle pagine con cui Savinio presenta l’opera e il suo protagonista. Ne La verità sull’ultimo viaggio. Giustificazione dell’autore, Savinio lascia intuire anche il motivo dell’ossessivo permanere dell’ombra di Ulisse sulla scena: il capitano non riesce a trovare l’uscita, perché trova chiuse tutte le porte.

Nessuno prima di me aveva scoperto il punto debole di Ulisse, la sua segreta vergogna. Vero è che né lui né io siamo disposti a considerarla tale. Sono il solo che possa capire Ulisse, che lo sappia pigliare per il suo verso. […] E quando c’incontrammo e gli accennai discretamente la porticina del palcoscenico, bisognava vedere che sguardo riconoscente mi ha rivolto Ulisse […] Ha capito subito che gli avevo trovato il solo mezzo che potesse risolvere il suo dramma. Ha capito che […] il suo passaggio […] avrebbe finalmente operato il miracolo […]. E dolce, fidente come un bambino molto bravo, Ulisse, Ulisse detto l’eroe, il commendatore e il capitano, si lasciò condurre per mano nella Avventura Colorata. […]

Il dramma di Ulisse è dunque lo stesso di Pirandello: il dramma di un passaggio che non riesce a compiere e se il riferimento non fosse chiaro, poche righe dopo Savinio fa il suo nome, contrapponendo il nero del teatro di Pirandello all’Avventura colorata, che altro non è se non il teatro poetico sognato da Savinio, nel quale si impara a fare l’ultimo viaggio.

Sul passaggio (mancato) di Pirandello all’Avventura colorata, Savinio tornerà altrove a proposito dei Giganti della montagna:

[…] in quanti eravamo ad accorgerci che l’avventura «nera» di Pirandello era terminata, che cominciava l’avventura «colorata»; ma che sopraffatto da questa grande «apparizione» di felicità, Pirandello s’era seduto, stanco, aveva chinato il capo, e su quei «colori» così nuovi per lui, così promettenti, così confortanti aveva chiuso gli occhi? Mentre pàpere e fringuelli si smarrivano intorno nel labirinto dell’«essere» e del «non essere», un medaglione di luce si aprì nel cielo notturno, la faccia vi s’incastrò di Luigi Pirandello con l’occhio a punta (di là da un certo limite, gli uomini usano un occhio solo) e sorridendo nel barbino accennò che ci eravamo capiti. Quanto poco «autorevole» fosse Luigi Pirandello, quanto poco tagliato per la tribù degli «autorevoli»; quanto poco le contingenze della vita lo avessero staccato dal suo destino di uomo tragico e solitario, ce ne accorgemmo quel giorno che andammo in casa Sua, e Lui stava al piano di sopra: immobile, silenzioso, parato per l’ultimo viaggio. (SAVINIO 1982, p. 66)

Se la figura del padre e del maestro, inconciliabili nella nostra scena, ben si conciliano in lui, sarà allora perché Pirandello aveva capito che anche la scienza più duttile e spaziosa non può risolvere l’incognita e quando chiedeva alla ragione di farlo non si trattava che di una messinscena allestita per rivelarne i limiti. Pirandello è il maestro che guarda la porta-passaggio e riesce a scorgere le ombre che sono al di là, anzi lui stesso fa parte di quel mondo di ombre – ci dice Savinio:

Lui che si aggirava in un mondo così diverso dal nostro; Lui che aveva l’aria di farsela con gente che per noi è un magma nero e senza voce; Lui che stranamente era implicato tra gli «autorevoli», questi pappagalli scoloriti – nonostante tutto ciò, quale oscura, quale sottile ragione ci faceva stare con l’orecchio teso alla Sua voce, l’occhio pollino volto ai suoi gesti? (SAVINIO 1982, p. 63)

Pirandello non arrivò in tempo all’Avventura colorata e morì, come Mosè, prima di raggiungere la sua terra promessa: i Giganti della Montagna, opera che la sua morte ha lasciato incompiuta, sono la sua terra promessa (SAVINIO 1982, p. 65).

Questo passaggio non potrà farlo neanche il Capitano Ulisse, perché, a causa della difficile situazione finanziaria del Teatro d’arte, le prove dovranno essere interrotte e lo spettacolo non andrà in scena: una delusione che farà allontanare Savinio dal teatro per molti anni.
All’indomani della scomparsa del padre e maestro, Savinio pensa che il mondo sia diminuito di valore, perché Est deus in Pirandello, ma lo pensa segretamente perché nel suo universo gli dei, anche i più cari, devono farsi da parte e assumere una forma nuova se vogliono in qualche modo sopravvivere. Così:

Pirandello non è morto: egli si continua nel suo figlio Stefano, come un fiume si continua in un altro fiume. Mai come in questo esempio il mistero della paternità si rivela nella sua conseguenza più naturale, più ovvia.
Che più? In una commedia di Stefano Landi, Un padre ci vuole, che in noi ha lasciato un lietissimo ricordo, il figlio diventava il padre del proprio padre, giustificando lo scambio di posizioni fisiche con le più suadenti e umane ragioni metafisiche (SAVINIO 1982, p. 351).

Anche Savinio allora – l’altro figlio – quando riuscirà a scoprire l’uscita e sarà capace di indicare il passaggio, potrà diventare padre del proprio padre, Luigi Pirandello.

copertina di Alberto Savinio
(in Vita dei fantasmi, a cura di Vanni Scheiwiller, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1962)

Bibliografia

GIGLIUCCI R. (2017), Pirandello, Milano, “Corriere della Sera”, in GIGLIUCCI R. (2017), Pirandello, Milano, RCS

ITALIA P. (2004), Il pellegrino appassionato: Savinio scrittore. 1915-1925, Palermo, Sellerio

PIRANDELLO L. (1985-1990), Novelle per un anno, a cura di Mario Costanzo e Giovanni Macchia, 3 voll., Milano, Mondadori

PIRANDELLO L. (1993-2004), Maschere nude, a cura di Alessandro d’Amico e Giovanni Macchia, 4 voll., Milano, Mondadori

SAVINIO A. (1982), Palchetti Romani, a cura di Alessandro Tinterri, Milano, Adelphi

SAVINIO A. (1986), La Casa Ispirata, Milano, Adelphi

SAVINIO A. (1989), Capitano Ulisse, a cura di Alessandro Tinterri, Milano, Adelphi

SAVINIO A. (1999), Casa «la vita» e altri racconti, a cura di Alessandro Tinterri e Paola Italia, Milano, Adelphi

SAVINIO A. (2004), Scritti dispersi. 1943-1952, a cura di Paola Italia, Milano, Adelphi

TINTERRI A. (1999), Savinio e l’«altro», Genova, Il nuovo Melangolo