In questo articolo si cercherà di definire il rapporto, nel mito greco, tra la figura dell’indovino-purificatore, il mantis, e quella del trickster, termine usato a partire da Goethe a proposito della volpe Renard per indicare la figura letteraria del «Briccone», che spesso vi si contrappone o sembra costituirne la versione parodiata e tragicomica. In particolare, si tenterà di evincere l’originalità di questo rapporto attraverso la suggestione di analoghe teorie sviluppate nell’alveo delle mitologie del trickster dell’America settentrionale, allo scopo di sottolineare alcune dinamiche culturali che possano valere anche per il mondo greco.
Il problema principale di questo accostamento consiste non solo nella sostanziale diversità delle mitologie in questione ma anche, soprattutto, nella differenza che intercorre tra la figura dell’indovino greco e quella dello sciamano, o medicine man, nelle religioni dei nativi americani. Tenendo conto quindi di queste differenze e del significato specifico che un mito o un racconto assume in relazione alla cultura di appartenenza, si inizierà a trattare della possibile somiglianza dello sciamano con l’indovino greco, che si concretizza proprio nel riconoscimento di figure para-sciamaniche nella tradizione ellenica, per poi proseguire nell’analisi del loro rapporto con il trickster.
La discussione sullo sciamanesimo greco, cominciata almeno a partire dagli anni Trenta e, rilanciata soprattutto dall’opera di Eric Dodds (1951), ha progressivamente acquisito importanza nel panorama degli studi sulla religione classica, tanto che oggi parlare di sciamani greci non desta più lo stesso scalpore del secolo scorso. La generalizzazione e la concettualizzazione del fenomeno sciamanico operata da Mircea Eliade (1951) hanno contribuito a diffondere parametri identificativi più circostanziati per individuare la figura e la funzione dello sciamano anche in religioni diverse da quelle più propriamente sciamanistiche. Egli definisce lo sciamano un operatore socialmente riconosciuto dalla comunità, differenziato per vocazione, che, in seguito a un lungo periodo di apprendistato ascetico, ha la facoltà positiva di interagire con il mondo degli spiriti e compiere viaggi con la propria anima al fine di risolvere una crisi, di debellare una malattia, di scacciare uno spirito e via dicendo. Lo sciamanesimo è così una tecnica dell’estasi prima che una religione, e rientra anche nel campo della mistica e della magia. Eliade individua alcuni tratti sciamanici fondamentali che possono essere condivisi anche solo in parte dalle diverse culture religiose; tutto ciò permette allo studioso di poter parlare del fenomeno sciamanico anche al di fuori della concezione di sciamanesimo stricto sensu.
In base a questa operazione sono stati a più riprese riconosciuti dei tratti sciamanici all’interno della pratica mantica greca, anche se l’ampia categorizzazione dello sciamanesimo di Eliade è stata notevolmente ridimensionata dagli studiosi successivi. In particolare, il suo allievo Ioan Petru Culianu rifiuta la possibilità di una derivazione allogena diretta del fenomeno, data la sostanziale «solidarietà» tra tutte le credenze che presentano tratti sciamanistici nel mondo greco (CULIANU 1980, p. 303): essi presentano infatti una «estrinseca coesione che non potrebbe spiegarsi con la teoria dei contatti culturali del VII secolo [sostenuta da Dodds, N.d.R.]». Si tratta dunque di un fenomeno autoctono del mondo greco. Culianu analizza in particolare quelle figure raggruppate generalmente sotto il nome di iatrománteis – termine attestato per la prima volta in Suppl. 236 in relazione ad Apollo, ma poi utilizzato per designare un gruppo non troppo omogeneo di estatici apollinei (in particolare Clem. Aless. Strom. I 21) – tra i quali spiccano per importanza Epimenide di Creta, Ermotimo di Clazomene, Aristea di Proconneso e Abaris, sacerdote apollineo arrivato dalle terre iperboree recando la freccia ottenuta in dono dal suo dio. Alcuni tramandano che questa freccia non fosse solamente un sýmbolon toû Apóllonos, ma un vero e proprio strumento magico a cavallo del quale Abaris poteva viaggiare attraverso l’aria. Aristea aveva invece compiuto un viaggio magico fino alla terra degli Iperborei in uno stato di alterazione psichica guidato dallo stesso Apollo. Epimenide aveva trascorso cinquantasette anni in una caverna – periodo che ben si associa all’incubazione mistica che caratterizza l’iniziazione sciamanica – per ottenere i suoi poteri taumaturgici e divinatori. Ermotimo era addirittura in grado di scindere deliberatamente la propria anima dal corpo per compiere viaggi estatici e ottenere conoscenze altrimenti inaccessibili a un comune mortale. Gran parte delle prodezze attribuite a vari sciamani greci venne attratta all’interno della biografia leggendaria di Pitagora, che costituirà un vero collettore delle tradizioni paradossografiche degli iatrománteis, garantendo al filosofo di Samo una straordinaria nomea di veggente e taumaturgo. Si ritornerà in seguito su un episodio particolare della tradizione greca su Abaris che riguarda strettamente il tema dell’incontro del sapiente indovino con un personaggio, proprio nell’inaspettato ruolo di trickster.
Sciamanesimo e mitologia del trickster: la teoria di Mac Linscott Ricketts
All’interno di questa discussione rimane tutt’ora sottovalutato, nell’ambito della grecità, il tema del rapporto della figura dell’indovino-sciamano con quella del trickster – due personaggi che nelle mitologie propriamente sciamaniche interagiscono, per lo più conflittualmente, in numerosi racconti. Questo elemento, a prima vista secondario in relazione al dibattito sullo sciamanesimo greco, acquisisce importanza alla luce della stretta connessione che si instaura tra società e religioni sciamanistiche e una sviluppata mitologia del trickster. Le vaste regioni in cui miticamente operano i trickster Coyote e Corvo coincidono infatti, in larga misura, con la reale presenza di pratiche sciamaniche. Il loro rapporto assume di conseguenza una connotazione di carattere culturale, un elemento latore di una credenza precisa e significativa.
Secondo M. L. Ricketts – che si occupa di questo tema nella tesi di dottorato (nel 1964) proprio sotto la supervisione di Eliade – lo sciamano e il trickster rappresentano nella religiosità nordamericana due modelli opposti di spiritualità in virtù del loro diverso approccio al mondo soprannaturale: se da una parte lo sciamano opera in simbiosi con i suoi spiriti adiutori, dunque conosce e partecipa del mondo spiritico, dall’altra il trickster vi si contrappone nettamente, assumendo un atteggiamento sostanzialmente egoistico e refrattario a qualsiasi forma di potere all’infuori di sé (RICKETTS 1993 passim). A partire dal fondamentale studio di Paul Radin sul ciclo mitico del Briccone tra i Winnebago – il cui nome, Wakdjũnkaga, significa propriamente «colui che gioca dei tiri» (RADIN 2006, p. 109) – il trickster appare infatti come un essere che prevarica ogni limite imposto dalla tradizione, dalla civiltà, dalla morale, che infrange sempre il confine posto dalla liceità.
In aggiunta a quanto sostenuto da Radin è ormai però assodato nella critica che il trickster assume anche la connotazione di héros culturel, dunque favorisce l’umanità attraverso le sue azioni bricconesche. Oltre al celebre caso di Prometeo nella mitologia greca – ruolo che condivide in realtà con il suo doppio “rovesciato” Epimeteo – si ricorderanno vari miti in cui Corvo è appositamente scelto dall’Essere Supremo per debellare gli esseri potenzialmente pericolosi per il genere umano (cfr. RICKETTS 1993, p. 88). La sua opposizione netta al mondo circostante è dunque giustificata dallo scopo di salvaguardare l’umanità dagli esseri che potrebbero esserle nocivi. Questo significativo tratto del trickster è parte fondamentale della teoria di Ricketts, che definisce il Briccone un «primitivo umanista», in quanto ritaglia un ruolo all’umanità nel tempo sacro delle origini. Egli è un «simbolo della mente autotrascendente dell’umanità» ( ibidem), al contrario dello sciamano, che realizza invece in pieno il connubio tra tremendum e fascinans (ovvero i due poli della celebre definizione del sacro di Otto) costituendo in sé la trascendenza dell’umano e assimilandosi a uno spirito. Ricketts conclude che queste figure incarnano due esperienze diverse della realtà: mentre lo sciamano, precursore del sacerdote, è promotore di una apertura verso un mondo ulteriore, il trickster, figura del mito, consente agli uomini di sopportare l’assurdità dell’esperienza umana. Per dimostrare la sua tesi, lo studioso analizza una serie di miti in cui gli imbroglioni svolgono una vera e propria parodia dello sciamano, degradando in maniera tragicomica le sue operazioni spirituali e salvifiche.
La contrapposizione netta tra due modelli individuati da Ricketts sembra potersi riscontrare anche in una delle antinomie più prolifiche degli studi sul mito greco: il confronto mitico tra i fratelli divini Apollo e Ermes nell’Inno omerico a quest’ultimo dedicato. In questo mito Ermes non è ancora inserito nel pantheon divino, ma vive insieme alla madre in una grotta. Ancora neonato il dio esce dalla sua spelonca con il proposito di conquistarsi quella divinità, a lui negata, attraverso le arti ingannevoli e scorrette che diverranno poi suoi attributi. L’atto centrale dell’abigeato delle vacche di Apollo corrisponde così all’unica modalità in cui il trickster è capace di conquistare qualcosa per se stesso, il furto. Egli comincia la sua giornata all’insegna della voracità, del desiderio di cibarsi della dolce carne degli armenti del fratello ( kreiòn eratízein), ma nel corso delle sue bricconerie l’oggetto del suo desiderio si sposterà su un piano più alto, una fame ben maggiore, come sostiene Lewis Hyde (2001, pp. 80-1), ovvero la volontà di ottenere il posto che gli spetta insieme agli altri dei. Non appena incontra vicino a Onchesto un uomo che lo vede passare con i buoi rubati, subito gli impartisce una massima di bricconesca omertà (vv. 92-4). Apollo, investigatore di parte in questa vera e propria detective story ante litteram (ROMANI 2008), fallirà nell’esercizio della interpretazione razionale e semeiotica e dovrà fare ricorso alla sua superiore arte profetica per rintracciare il fratello. Alla sfuriata di Apollo, che si presenta furioso nella spelonca, Ermes risponde attraverso le modalità a lui più consone: in risposta all’accusa del fratello, mente giurando addirittura sulla testa del padre; quando viene afferrato di forza e portato via, il trickster si libera dai vincoli emettendo «un presagio, sfacciato complice del ventre» ( oionòn tlémona gastròs érithon vv. 295-6). Già ecco un rovesciamento scatologico della pratica divinatoria del mantis: il presagio ornitologico (oionòs v. 213) che Apollo aveva utilizzato per rintracciare il ladro, ora viene rivolto contro lo sciamano dall’impudente ventre del trickster, sotto forma di un fragoroso peto. Solo la successione di due risate, quella beffarda di Apollo e quella complice di Zeus, porranno fine alla disputa tra i fratelli, i quali si scambieranno doni da pari a pari.
Si tratta probabilmente del mito più importante dedicato alla figura del trickster nel mondo greco, in cui Ermes non solo ricalca strettamente molteplici tratti bricconeschi – l’uso egocentrico e strumentale del mondo circostante nel caso dell’invenzione della lira, l’infrazione netta delle norme, la scatologia, la riscrittura del proprio mondo attraverso la menzogna e lo spergiuro – ma si contrappone soprattutto alla divinità “sciamanica” per eccellenza, Apollo, mettendolo addirittura in difficoltà nel campo dell’ermeneutica che gli apparterrebbe: Apollo non riesce a decifrare le impronte ingannevoli che Ermes si è lasciato alle spalle e la sua pratica ornitomantica viene rovesciata comicamente dal ventre del trickster.
Un caso in particolare, in verità solamente alluso nell’Inno a Ermes, riguarda la contesa relativa alla mantica sempre viva tra lo sciamano e il trickster: Apollo infatti nega al fratello la conoscenza della pratica divinatoria, rappresentata principalmente dall’oracolo delfico, concedendo soltanto il famoso oracolo delle alate dee venerande, delle api, che diranno la verità solo se la loro fame sarà appagata e invece mentiranno se il loro ventre (sic!) non dovesse essere saziato. Niente di più lontano insomma dalla mantica sciamanica degli iatrománteis, dei quali è spesso sottolineata l’inumana pratica ascetica del digiuno: di Abaris si diceva che non mangiasse nulla, mentre Epimenide aveva trascorso il suo lunghissimo periodo iniziatico nutrendosi solamente di una pianta chiamata appunto álimos (lett. «senza fame») usata anche da Eracle per compiere il viaggio verso le Esperidi ( FGrHist 31 F1). Il ventre mai sazio della mantica inveritiera e ingannevole è la cifra caratteristica della impossibilità del trickster di aspirare alla verità ulteriore dello sciamano greco, allo stesso modo in cui i cantori erranti «solo ventre» della celebre invocazione esiodea non potranno aspirare alla verità poetica delle Muse che abitano sull’Elicona. Come conclude Lewis Hyde, riprendendo queste considerazioni di Gregory Nagy e applicandole all’Inno omerico, «la profezia pura appartiene ad Apollo, mentre a Ermes appartiene una sorta di profezia impura o falsa, che oltretutto non è libera dall’appetito» (HYDE 2001, p. 324).
Questa polarità che si istituisce tra sciamano greco e trickster sembra ricalcare strettamente la distinzione di Ricketts che si è presa in esame: lo sciamano rappresenta il raggiungimento della libertà desiderata dai mortali (considerazione già di Eliade), che nel mondo greco si concretizza, tra le altre cose, come libertà dalla tirannia del ventre, dalla mondanità, e dunque può aspirare a un contatto diretto con il soprannaturale; mentre invece il trickster può aspirare solo a un modello profetico degenere e spesso tacciato di menzogna. Contaminato dall’arte ingannevole dell’imbroglione, il mantis degenera agli occhi della civiltà greca nella figura dell’agýrtes, che opera per tornaconto personale e non per il bene comune, come sarebbe proprio dell’indovino ( cfr. GIAMMELLARO 2012, p. 280). Come chiariscono gli studi di Walter Burkert – che si occupò del problema dello sciamanesimo greco con un saggio (1962) ancora oggi originale e suggestivo – il mantis si mosse sempre sul crinale tra fiducia e diffidenza da parte della città, soprattutto a partire dall’epoca classica in cui l’immagine dell’arcaico maestro di verità (definizione resa celebre da Detienne) decadde agli occhi delle istituzioni cittadine. Tuttavia è un processo le cui origini affondano nel rapporto tra indovino itinerante e sovrano della città in epoca arcaica. In un fondamentale contributo sulle figure di healers and saviours itineranti, Cristiano Grottanelli (1982) ha infatti ricostruito la tipologia arcaica della figura del mantis come alternativa al potere regale del sovrano, con il quale l’indovino condivideva il carisma, ma al quale si contrapponeva come salvatore della città nei momenti di crisi: basti come esempio il conflitto tra Edipo e Tiresia – identificabile come un prototipo mitico dello sciamano greco (cfr. GINZBURG 2017, pp. 109-114).
Il secondo elemento tipologico ricostruito da Grottanelli riguarda un altro aspetto della contrapposizione tra mantis e ambiente cittadino, che consiste nell’adozione di uno stile di vita diverso, di un bios antitetico rispetto alla religione tradizionale, opposto ma analogo a quello del trickster. Non solo l’indovino itinerante si esclude materialmente dalla vita cittadina, ma rimarca la sua distanza anche a livello alimentare, astenendosi dalla convivialità civile. È superfluo rimarcare l’importanza riconosciuta dall’uomo greco all’alimentazione come sistema di misura dell’alterità; la religione tradizionale della polis concepisce il banchetto comune come momento fondamentale di ingresso nella società. Dalla parte opposta si pone il trickster, emblema di una voracità estrema, che comunque, allo stesso modo dell’indovino, è causa del proprio allontanamento dalla civiltà. Nella commedia uno dei luoghi comuni della rappresentazione satirica di queste figure è appunto il tema alimentare, la ghiottoneria dell’agýrtes, per esempio nella rappresentazione comica della consultazione dell’oracolo di Trofonio nell’omonima commedia di Cratino. La vicinanza nel mondo greco tra imbroglione e sciamano, tra mantica al servizio dell’alétheia, come direbbe Detienne, e ingordo truffatore, ha provocato spesso una sovrapposizione delle due figure, che condividono entrambe la «ideologia della liminalità» di cui parla Grottanelli (1982 p. 663).
Sebbene la teoria di Ricketts non sembri applicabile di per sé alla società greca, in cui l’unico corrispettivo dello sciamano in realtà condivide con il trickster una posizione liminale rispetto alla città, essa sicuramente individua una dinamica presente anche all’interno della mentalità greca: non nel senso di una netta opposizione, come la intende lo studioso, ma di una dualità specchiata, capace di ribaltare continuamente questi due modelli esistenziali l’uno nell’altro attraverso la potente arma del riso. È proprio attraverso il tema del doppio come degenerazione comica che si riesce a descrivere il rapporto tra queste due figure.
Una vera e propria antropologia della specularità e del doppio nel mondo romano è ricostruita da Maurizio Bettini (2001) a partire dall’ Amphitruo, un capolavoro di Plauto. In questa commedia Giove, coadiuvato da Mercurio proprio in qualità di abile imbroglione, indossa i panni di Anfitrione per potersi unire ad Alcmena, approfittando dell’assenza del sovrano, impegnato in guerra contro i Teleboi. Mercurio vestirà invece i panni di Sosia, fedele aiutante di Anfitrione, per reggere il gioco del re degli dei. La commedia prende appunto le mosse dall’inaspettato ritorno del servo originale, Sosia, a cui Mercurio apre la porta di casa proprio nelle sembianze dello schiavo. La scelta di Mercurio non è ricaduta casualmente su Sosia, «verbero, ovvero lo schiavo piglia-botte della palliata» (BETTINI 2001, p. 16), poiché il suo personaggio, il suo comportamento, è narrativamente adatto a rappresentare il ruolo ribaltato e picaresco tipico del trickster. Mercurio, trickster che ha fatto carriera, si colloca a metà strada tra la bricconeria e la capacità stregonesca di mutare la propria figura, non solo perché nel suo caso tale operazione risulta, così, tanto efficace, ma perché si tratta, in definitiva, di due aspetti specchiati della sua abilità divina.
Come chiarito dall’analisi di Bettini, di fronte al proprio doppio la prima conseguenza tratta da Sosia è la perdita violenta della propria identità. Il doppio rappresenta sempre un potenziale pericolo per l’originale: anche nell’Elena di Euripide, l’esistenza stessa di un doppione della moglie provoca in Menelao il timore che in realtà sia tutto il mondo a sdoppiarsi e che non esista più una sola Sparta e un solo Menelao (Eur. Hel. vv. 490-9), quasi temendo di essere egli stesso soggetto a uno sdoppiamento. L’inquietante e tenebroso alástor nell’ Agamennone (v. 1500-4) – chiamato in causa da Clitennestra come vero autore dell’uccisione del re, compiuta assumendo le sembianze della sposa – non sembra solamente la tradizionale figura del demone persecutore, permanenza mondana della memoria vendicativa del defunto, ma si caratterizza come un tremendo doppio della moglie. Sfumature ancora più terribili acquisisce il doppio nella cultura moderna, sia nel parallelo con il William Wilson di Poe, ben analizzato da Bettini, sia nella pellicola Lo studente di Praga (1913; regia Stellan Rye; attori Paul Wegener, John Gottowt), in cui il protagonista, dopo aver venduto la propria immagine riflessa al Diavolo, entra in contatto più volte con il proprio doppio, fino a quando la sua inquietante presenza non lo condurrà all’assassinio dello stesso, provocando anche la propria morte. Sebbene in questo caso il doppio non si configuri certo come nell’ilare commedia plautina, il personaggio del trickster tentatore – a partire proprio dal nome, Dottor Scapinelli – non sembra proprio calzare bene i panni di una figura paurosa e orrorifica. In questa scena il trickster persuade lo studente Baudolino facendogli dondolare davanti un sacchetto dal quale farà uscire – quasi come un vecchio e bricconesco Mandrake – un’enorme quantità di monete.
Scena con Dottor Scapinelli che tenta di convincere Baudolino. Fermo-immagine da Lo studente di Praga
Nell’Amphitruo «colui che cambia aspetto è dunque un “voltapelle” [versipellis v. 123 N.d.C], uno stregone che ha la magica capacità di mutare la propria apparenza esteriore» (BETTINI 2001, p. 33), una figura che se non fosse impersonata dall’eroe picaresco, porterebbe alle estreme conseguenze la perdita drammatica dell’identità. Quando è il trickster a gestire le dinamiche del doppio, o ad interpretarlo, non può non colorire il suo operato di comicità e umorismo, rappresentando così una alternativa al senso del tremendum, che traspare invece nel doppio inquietante e pericoloso, legato al mondo dei morti e di pertinenza dello sciamano. Non a caso anche Scapinelli, nella scena riportata in figura, si colloca esattamente tra lo studente e lo specchio, in quella dimensione traslucida che presto sarà occupata dal doppio.
Lewis Hyde, nella sua monografia dedicata alla figura del Briccone (1998), analizza il rapporto che si instaura fra trickster e sciamano alla luce della loro opposta attitudine imitativa, paragonando la rigidità della figura dello sciamano alla struttura coloristica di una bandiera, che seleziona solo alcuni dei moltissimi colori del mondo per ottenere significato. «All’opposto di questa struttura c’è il variopinto, il pezzato, il maculato, lo screziato, insomma il reale che si presenta in forma di “brandelli sparsi”» la cui «forza destrutturante attraversa i racconti del trickster» (HYDE 2001, p. 331). Lo studioso lega però questa caratteristica allo statuto liminale ed estraneo del trickster nei confronti della civiltà, seguendo sostanzialmente il modello ermeneutico ereditato da Ricketts.
Servendosi di un altro paragone mitico – la profezia di Odissea XI in cui all’eroe è detto che avrebbe dovuto continuare a camminare sulla terraferma portando un remo fino a quando non avesse incontrato genti che lo scambiassero per un ventilabro – Hyde dimostra come la dualità del significato derivi direttamente dalla facoltà di muoversi da un posto a un altro, dunque di connettere due significati a un solo segno. «L’idea è che la doppiezza del trickster sia una precondizione della significazione» (p. 79). Doppio e liminalità sono dunque due parole-chiave strettamente interdipendenti, che riguardano contemporaneamente indovino e briccone, soprattutto quando essi si rispecchiano e condividono lo stesso margine.
Un altro famosissimo episodio che riguarda l’incontro tra due doppi sulla soglia coinvolge due figure che condividono tratti bricconeschi, una delle quali, in questo caso, è però interpellata come esperto di una pratica notoriamente sciamanica: si tratta della famosa scena iniziale delle Rane di Aristofane, in cui Dioniso si presenta sulla soglia della casa di Eracle indossando in maniera ridicola proprio un travestimento da Eracle. Dopo un primo momento di sbigottimento, l’originale si rende conto del proposito del fratellastro di compiere un viaggio sotto mentite spoglie nell’Ade per riportare in vita Euripide. Trattenendo a stento le risate (v. 42), Eracle consiglia dunque al fratello, e al suo servo Xantia, quale strada seguire per compiere la loro missione. Infatti l’eroe greco ne era esperto, poiché aveva già visitato l’oltretomba in occasione della fatica di Cerbero, impresa in seguito alla quale aveva salvato Teseo dagli Inferi. In aggiunta all’evidente impossibilità di Dioniso di calzare bene i panni di Eracle, dato che sulla scena rimane ancora ben visibile la sua veste giallognola (krokotón), caratteristica, oltre che di Dioniso, anche dei personaggi femminili, non può non destare sospetto la singolare scelta di Eracle come guida per il mondo ultramondano. In altre occasioni era stato proprio lui a risolvere problemi inerenti l’Aldilà: non solo nella sua roboante catabasi infera, ma anche nell’episodio risolutivo dell’ Alcesti, in cui Eracle, palesemente ebbro, riesce a salvare la sposa di Admeto minacciando di stritolare Thanatos, la Morte, tra le proprie braccia, finché questa non acconsente a liberare la fanciulla (vv. 843-54). Questa modalità ricalca l’agguato generalmente teso alle divinità marine polimorfiche – il celebre episodio di Proteo nell’Odissea e la cattura di Teti da parte di Peleo – in cui l’eroe riesce a trionfare sul variopinto e sul metamorfico; ma nel caso di Eracle l’episodio si colorisce immancabilmente di tratti bricconeschi.
Niente è più lontano dal sublime canto sciamanico di Orfeo, capace di riportare in vita i morti, della rocambolesca capacità di Eracle di oltrepassare ogni norma e limite naturalmente imposto ai mortali. In questi momenti Eracle sembra rivestire funzioni che sarebbero propriamente sciamaniche, rovesciandole tuttavia nel ridicolo attraverso la sua figura prorompente che si muove in quel mondo ultraterreno come un elefante in una cristalleria. Nel caso dell’Alcesti emerge anche l’umanesimo del trickster, come lo intende Ricketts, e il suo ribaltamento picaresco dell’esperienza sciamanica; dunque, benché Eracle riesca nelle sue imprese pseudo-sciamaniche, il suo comportamento tradisce una incompatibilità di fondo con le modalità partecipative e conoscitive dello sciamano.
«Questo è il mio comportamento, non il tuo!», potrebbe rispondergli un indovino, usando le stesse parole che sono tipicamente rivolte al trickster nelle storie dell’«ospite pasticcione» (cfr. HYDE 2001, p. 328) – il cui pattern narrativo consiste nel tentativo da parte del Briccone di imitare il modo in cui un suo amico procaccia il cibo per lui e per la propria famiglia, salvo poi fallire quando è arrivato il suo turno di ricambiare l’ospitalità. Dato che la procedura che il Briccone tenta di imitare si configura sempre come magica e soprannaturale – per esempio la pesca straordinaria della Beccaccia, o il rituale magico usato dal Picchio per far cadere nella tenda un orso e cucinarlo (RADIN 2006, p. 78-82) – si tratta in realtà del tentativo di emulazione di uno sciamano. Queste storie introducono bene una serie di miti greci che vedono confrontarsi prima due indovini poi un indovino e un briccone, che cercherà, a modo suo, di imitarlo.
Un primo episodio riguarda il celebre indovino Calcante al quale, secondo la tradizione, un oracolo pronosticò che avrebbe trovato la propria morte solo se avesse incontrato un indovino più bravo (kreísson mántis) di lui (si rielabora qui l’analisi dell’episodio svolta da NAFISSI 1997 p. 39). Come raccontato dai frammenti della Melampodia pseudo-esiodea (fr. 278 Merchelbach-West), ciò avvenne quando Calcante approdò, di ritorno da Troia, a Colofone (o a Claro) e si scontrò nell’arte profetica con l’indovino Mopso, figlio di Manto e discendente di Tiresia: la sfida lanciata da Calcante consisteva nell’indovinare il numero di frutti appesi a un fico lì vicino. Mopso rispose che il loro numero era tale da poter essere contenuto in un medimno, con l’eccezione di un solo fico. Calcante allora si diede a contare i fichi uno per uno, ma non riuscì a dimostrare l’errore di Mopso proprio per quel fico avanzante; per questo motivo morì di dolore. Questo episodio si configura similmente a molte storie di incontro e di competizione tra indovini o wonder-workers itineranti, tipici soprattutto delle tradizioni sciamaniche. Tuttavia, proprio l’oggetto dell’aspra contesa, un succulento fico, sembra già preannunciare la degenerazione comica: il ventre inizia a reclamare la propria preminenza sulla profezia e sulla sapienza. Manca solo un elemento perché questa storia si armonizzi con tutte le altre di cui si è parlato, il trickster, ma non tarderà ad arrivare.
Secondo una variante riportata da Licofrone (Alex. vv. 978 ss.) e dalla tradizione scoliastica sulla sua opera, in particolare il commento di Tzetzes, Calcante non sarebbe in realtà approdato in terra greca, ma sarebbe giunto, dopo un lungo nóstos, in Italia, in particolare nella Siritide. Qui, secondo la variante, si sarebbe imbattuto addirittura in Eracle, appena ritornato da una delle sue fatiche, e lo avrebbe sfidato con il medesimo enigma. A parti invertite rispetto al mito precedente, ora è Eracle a cercare invano di far entrare l’ultimo fico all’interno dei moggi da lui pronosticati. Calcante sembra aver insomma trovato un avversario la cui vittoria pare impossibile. Ma proprio mentre l’indovino prorompe in una grossa risata irrisoria, Eracle, evidentemente schernito, afferra la sua clava e uccide Calcante picchiandolo sulla testa. In questo modo la profezia fatta a Calcante si disvela nel suo vero significato: egli è stato veramente ucciso da un mantis kreísson («più forte»).
Eracle, in quanto trickster, non poteva aspirare a vincere imitando l’arte dell’indovino, esattamente come il Briccone dei Winnebago non poteva veramente imitare le arti sciamaniche della Beccaccia e del Picchio. Eppure il trickster può prevalere rompendo il limite imposto dalla sfida, forzando il linguaggio a obbedire al suo proposito, trasformandosi non nell’indovino migliore, ma in quello più forzuto. Calcante, la cui capacità mantica è chiaramente in declino, non sembra riuscire a vedere oltre il singolo significato della parola, mentre il riconoscimento della doppiezza del mondo è invece la principale arma del briccone. Si noterà come anche in questo episodio sia a più livelli implicato il tema del doppio: sia la già menzionata doppiezza del linguaggio sfruttata da Eracle, sia la doppiezza implicata dal confronto tra due indovini, per molti versi due figure sdoppiate dello stesso attante mitico. Il quesito principale del loro confronto corrisponde esattamente alla problematica di Sosia quando vede il proprio doppio sulla soglia di casa. Chiedersi chi sia lo schiavo di Anfitrione corrisponde a interrogarsi sulla propria identità, che si percepisce a rischio; allo stesso modo chiedersi chi sia il mantis migliore implica un interrogativo esistenziale e drammatico per Calcante, che subito cerca di sfidare il proprio doppio per riconfermare la propria identità. Come per William Wilson e per lo sfortunato studente di Praga, così per Calcante, la sfida esistenziale con il proprio doppio ha esito drammatico. Il trickster irrompe in questa dialettica sostituendosi comicamente al suo doppio drammatico, e risollevando la tonalità dell’episodio. Ancora si noterà l’ambientazione di questa scena in una zona liminale, quel territorio dell’Italia delle origini che viene plasmato e colorato dal passaggio di Eracle: sia da un punto di vista fisico e tellurico, sia dal punto di vista religioso e culturale.
Eracle è eroe fondatore eponimo della colonia di Eraclea nella Siritide, dove l’eroe era venerato proprio in qualità di mantis (cfr. NAFISSI 1997, pp. 59-60), dunque si tratta di un mitico briccone, «umanista» ed héros culturel, che è riuscito a superare nella profezia persino Calcante. L’oggetto della loro contesa, l’arte mantica, riconduce questa vicenda al motivo mitico della disputa tra Ermes e Apollo, fra trickster e sciamano, per la capacità profetica, a cui si allude lontanamente nell’Inno a Ermes; si tratta del medesimo topos mitologico della contesa tra Apollo e Eracle per il famoso tripode di Delfi, strumento essenziale per la pratica vaticinatoria della Pizia – la quale, si diceva, non appena si avvicinava ad esso entrava in uno stato di agitazione estatica (Plut. Amat. 759b). Quando Apollonio di Tiana, mistico santone della prima età imperiale, consultò l’oracolo delfico, fu direttamente il tripode a rispondergli dalla sua «bocca», hólmos, ovvero la parte concava sulla quale la Pizia si sedeva nell’antro oracolare. Vero e proprio mezzo di elevazione estatica del mantis, il tripode viene raffigurato come veicolo alato e munito di rotelle, a bordo del quale sta seduto Apollo con ramo di alloro e cetra, per il suo mitico viaggio verso il paese degli Iperborei.
La ragione del furto del tripode delfico risale al tentativo di educazione musicale che Lino aveva cercato di impartire a Eracle, eroe bisontico e «per definizione ribelle a qualsiasi forma di educazione. […] Lino, il maestro di musica per eccellenza, lo imparerà a proprie spese. Su una coppa di Monaco [Antikensammlungen und Glyptothek 2646 N.d.R.] quattro giovani levano le braccia in atteggiamento scandalizzato, Eracle armato di uno sgabello si scaglia sul maestro che tenta con la lira in mano di sottrarsi da lui» (SCHNAPP 2000, p. 29). In seguito all’uccisione di Lino, l’eroe si reca a Delfi per essere purificato dalla sua colpa; Apollo tuttavia si rifiuta, provocando la reazione di Eracle che afferra e sottrae il tripode. Il rapporto tra trickster e istituzione templare o sciamanica anche qui si riconferma non particolarmente buono.
Il mito della contesa per il tripode, sebbene non trovi ampio riscontro nelle fonti letterarie, trova invece un enorme successo nelle raffigurazioni vascolari, in cui si rappresenta il briccone Eracle che fugge tenendo la refurtiva tra le mani. All’interno di questa trasmissione mitica iconografica, si trova anche una curiosa raffigurazione comica di matrice italica, sulla quale pone l’accento Karl Kerényi nei suoi Epilegomeni mitologici, pubblicati in occasione della ricerca di Radin sul ciclo del briccone dei Winnebago (in RADIN 2006, pp. 135-54). In questo saggio, che contiene già numerosi spunti per il riconoscimento di Eracle come autentico briccone greco, Kerényi ricostruisce una vera e propria «mitologia picaresca», che si cela sottotraccia in molteplici episodi della letteratura greca antica, tra i quali anche la prima metà delle Rane di Aristofane, e che trova il suo culmine stilistico nel genere della farsa fliacica. Una raffigurazione della contesa per il tripode si trova sul lato A del cratere apulo a campana della metà del IV sec. (St. Petersburg Hermitage n. 1660), in cui «Eracle, rappresentato realmente in guisa di Briccone, cerca, tendendo un cesto pieno di frutti o di altre ghiottonerie, di indurre il fratello a scendere dal tetto del tempio su cui si è rifugiato. Nell’altra mano del Briccone è ben visibile la mazza» (RADIN 2006, pp. 142-3).
Cratere apulo St. Petersburg n. 1660 (lato A), disegno in Adolf Furtwaengler, Karl Reichhold (edd.)
Griechische Vasenmalerei: Auswahl hervorragender Vasenbilder, II, 110 n. 3a, München 1909
Kerényi si limita a menzionare questa scena come uno dei vari esempi di adattamento fliacico di miti bricconeschi, ma, alla luce delle considerazioni fin ora svolte, salta sicuramente all’occhio il paragone con l’Eracle italico uccisore di Calcante per un fico di troppo. Questi due episodi sono accomunati dall’argomento centrale della disputa tra Briccone e mantis per l’arte profetica, rappresentata nel secondo caso dal tripode, normalmente mezzo di elevazione estatica, che viene desacralizzato e svilito dal trickster come normale supporto per poter offrire il frutto ingannevole ad Apollo. Come la simbologia ingannevole del fico in ambito veterotestamentario, anche nel mondo greco esso viene utilizzato come una esca ingannevole per il ventre del rivale, posto in bella vista a nascondere il venenum in cauda della mazza del Briccone. Il termine greco kráde, usato generalmente per indicare il ramo di fico, oppure la sua estremità, ovvero il frutto, designava anche nelle rappresentazioni comiche il braccio mobile della mechané scenica, al quale spesso l’attore comico faceva direttamente riferimento poiché ci rimaneva impigliato. Ciò avviene in particolare in un frammento dell’ Atalanto di Strattis – come chiarisce Serena Perrone nel suo saggio dedicato ai risvolti comici di questo meccanismo scenico (PERRONE 2008, p. 214) – in cui l’attore si lamenta con il macchinista perché lo faccia scendere il prima possibile (Stratt. fr. 4 K-A). Degenerazione comica del deus ex machina, l’attore rimaneva letteralmente «appeso come un fico» alla macchina – posizione che procurava sovente dei risvolti scatologici – senza riuscire ad intervenire sulla scena come invece sarebbe stato compito della divinità o dello sciamanico wonder-worker. Persino il celebre episodio delle Nuvole, in cui Socrate entra in scena svolazzando in giro per il pensatoio è stato interpretato da Giulio Guidorizzi come la rappresentazione comica di un viaggio sciamanico (GUIDORIZZI 2010 p. 175).
Tutte le trame del discorso che si è tracciato – la liminalità, la voracità, la comicità e la doppiezza nel rapporto tra sciamano e trickster – arrivano a coincidere negli ultimi esempi che si sono analizzati. Ne esiste anche un altro, come era stato preannunciato, che riguarda il sapiente iperboreo Abaris, che predicava di poter volare ovunque con la sua freccia senza mai nutrirsi di nulla (Hdt. 4. 36). Il suo mito è attratto e rielaborato in ambiente pitagorico, con lo scopo di esaltare la figura del leggendario maestro, attraverso incontri con allievi o mentori illustri già noti dalla tradizione. Secondo questa variante Abaris, che aveva lo scopo di riportare la freccia ottenuta in dono da Apollo al suo legittimo proprietario, incontrò un giorno Pitagora e riconobbe in lui proprio Apollo iperboreo. Pitagora dimostrò subito la veridicità dell’inferenza di Abaris, mostrandogli come segno di riconoscimento la sua coscia d’oro; ottenuta la conferma di essere nel giusto, Abaris consegnò la freccia e divenne da quel momento in poi allievo di Pitagora, sapiente che gli avrebbe insegnato la vera dottrina sull’anima.
Di questo mito, raccontato in varie forme all’interno della Vita pitagorica di Giamblico (principalmente VP 90-2), esiste una variante (VP 140-1) nella quale si riscontrano alcuni elementi che rientrano nel discorso fin ora svolto: in questo passo Pitagora non riceve in dono la freccia da Abaris, ma gliela strappa via di mano con forza (apheíleto) e si aggiunge una precisazione sul ruolo della stessa freccia nella peregrinazione di Abaris. Essa non solo gli consentiva di volare, ma lo guidava (kybernáo) in modo simile ad una odierna bussola.
La freccia corrisponde miticamente al tripode delfico in quanto materializzazione simbolica della mantica: secondo il mito Abaris parlava con la sua freccia e questa gli rispondeva, probabilmente vaticinando. Ritornando così alla variante principale del racconto pitagorico, si potrà notare una serie di particolari che attribuisce alla storia una sfumatura differente: Abaris, ormai vecchio, stava tornando nella terra iperborea con una grande quantità d’oro, derivante dalla questua sacra che aveva svolto in terra greca; Pitagora accetta il dono della freccia senza battere ciglio e senza sorprendersi; il segno di riconoscimento, la coscia d’oro, è mostrata da Pitagora privatamente (idía VP 92) allo sciamano; per rimarcare ulteriormente quello che già sembrerebbe chiaro, Pitagora enumera anche esattamente le offerte votive presenti nel tempio iperboreo di Apollo; al termine della vicenda si pone l’accento sul fatto che l’oro di Abaris viene condiviso e spartito tra la cerchia pitagorica, al motto, invero assai conveniente, di koinà tà tôn philôn, «le cose degli amici sono comuni».
Sembra essere implicita una versione della storia in cui Pitagora è messo in cattiva luce come colui che aveva tolto la freccia ad Abaris per costringerlo ad unirsi alla cerchia dei propri allievi e soprattutto per sottrarre al vecchio iperboreo l’oro che aveva raccolto. L’ipotesi che sia sottesa una rielaborazione comica, che viene mitigata da Giamblico o da una sua fonte, è già di Corssen (1912) e viene ulteriormente sviluppata da Lévy (1926), che cerca di dimostrarne la paternità di Ermippo di Smirne, famoso per aver scritto una biografia del filosofo samio ricca di elementi critici e denigratori. In un passo ricco di dispositivi narrativi volti ad assolvere il suo gesto, Pitagora figura qui come un subdolo e astuto doppio di Apollo, che riesce a impersonare così bene da far cadere Abaris, sciamano forse ormai un po’ vecchio, come del resto Calcante, nella sua trappola e ottenere il tanto desiderato bottino. Il più celebre dei mistici greci, sulla cui vita si moltiplicano leggende di ogni genere, quando parodiato, si trasforma in un imbroglione, in un famelico trickster, che si traveste di nuovo da profeta, immagine specchiata di Apollo, per ingannare il ricco avventore. Tutto questo avviene ancora una volta sulla soglia, al limite della civiltà, dove non si sa mai chi si possa incontrare: un profeta, un benefattore, o un suo beffardo e imprevedibile doppio.
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