In una catalogazione che sarei tentato di definire senz’altro come “approssimativa”, Mozziconi (libro uscito nel 1985 per Einaudi e ristampato di recente dall’editore Quodlibet) figura tra le opere di Luigi Malerba dedicate ad un pubblico di “ragazzi”. Cronologicamente, quindi in modo più neutrale, si colloca invece tra Le rose imperiali (Bompiani, 1974) e Le parole abbandonate (Bompiani, 1977), che sono libri diversissimi tra loro (una collezione di racconti il primo, una raccolta di parole dialettali il secondo: Luigi Bonardi, questo il vero nome dello scrittore, era originario della provincia di Parma) e a loro volta incomparabili rispetto al volumetto del quale qui s’illustrano brevemente i pregi.
Lo confesso, non sono un esperto di Malerba. Un paio di estati fa misi in valigia Itaca per sempre (Mondadori, 1997) perché mi sembrava opportuno, visto che mi sarei trovato a passare una decina di giorni nella Magna Grecia, riascoltare qualche nota di cetra ellenica. La sua scrittura mi piacque molto, ritmava a meraviglia il trascorrere pigro dei giorni marini. Mi riproposi così di approfondire altre sue cose. La lettura di Mozziconi la devo però al suggerimento indiretto di Nadia Terranova, la quale ne ha scritto così su “Il Foglio”: «Mozziconi è un libro anfibio, secondo la definizione che Malerba stesso diede della propria letteratura: un libro per adulti e ragazzi, un libro per esseri umani. Contiene incisive ed eterne descrizioni di Roma, ne ha respirato l’aria fino in fondo e l’ha restituita sulla pagina con ironia cispadana: l’aria, la terra e l’acqua sono i tre elementi che si impastano sulle sponde del fiume, dove Mozziconi sceglie di vivere, riparandosi sotto i ponti e nutrendosi di pesci e lattughe». Non so bene perché, ma queste parole mi avevano fatto subito pensare ad un altro libro “anfibio”, che ho molto amato, cioè al romanzetto Il Delta di Kurt Lanthaler (Edizioni alphabeta Verlag, 2015), e alle vicende del “Conte” Fedele Mamai, trovatello abilissimo nel mimetizzarsi tra il dolce e il salato della foce del Po, anche lui quindi a suo agio con ambienti fatti d’acqua e delle mille cose che in quell’elemento possono viverci sopra e attraverso. Una certa somiglianza di stile (ilare e lunatico, liquefatto in riflessi mobili e sfuggenti) avrebbe poi confermato la mia intuizione.
Di Mozziconi (il personaggio) ci si innamora subito, appena sfogliate le prime pagine. La sua è una storia d’eroismo al contrario, aperta da un netto rifiuto del valore della stabilità (Mozziconi non abbandona semplicemente la sua provvisoria dimora, la fa letteralmente a pezzi) e dalla scelta di trascorrere l’esistenza nel modo più libero, sulle sponde sporche ma a loro modo generose del Tevere. Là accadono molte irritazioni e non poche illuminazioni, epifanie scaturite da incontri con esseri umani marginali, al pari del nostro protagonista, e con animali di passaggio, uccelli e pesci parlanti. Mozziconi si difende come può dal caldo e dalla noia, ricorda o tenta di inventare proverbi, s’improvvisa scienziato (a un certo punto gli viene in mente di misurare la velocità del buio, scoprendo che è uguale a quella della luce) e incalza con la sua moralità immacolata quanti magari potrebbero giudicarlo un fallito, rovesciandogli addosso spazzatura e disprezzo.
È invece chiaramente un filosofo, un poeta. Un filosofo-poeta cinico al quale si attaglia benissimo la definizione datane dall’attore Jeff Bridges (che fra l’altro potrebbe prestargli il volto perfetto in una ipotetica fiction post-pasoliniana): «La maggior parte dei cinici sono dei veri romantici: sono stati feriti, sono sensibili, e il loro cinismo è un guscio che sta proteggendo la piccola parte a loro cara che hanno dentro e che è ancora viva». I suoi ragionamenti vengono affidati all’acqua, cioè scritti su piccoli cartigli e introdotti in bottiglie di vetro. Gli venisse voglia di scrivere un volume più ampio, «con tutti i suoi pensieri messi in fila uno dietro l’altro come una bella collana di salsicce», allora sceglierebbe una damigiana e il libro si chiamerebbe “I pensieroni di Mozziconi”. Strampalato e leggero, irascibile e tenero, alla fine non ridiamo mai di lui, ridiamo con lui del mondo e dei suoi tristi impresari, ladroni furboni e speculoni. La prossima volta che passate per Roma affacciatevi dal ponte Sublicio, dal Ponte Milvio, dal Ponte Flaminio. Magari lo vedrete intento a grattarsi la pancia o a seminare ridacchiando parole con dei cespugli di ciliegio marino. E non lo dimenticherete più.