L’attività drammaturgica di Alberto Savinio – autore che pure è guidato, come è stato sottolineato, da un’autentica vocazione teatrale – è stata segnata da una lunga interruzione, dovuta al fallimento della sua prima prova, Capitano Ulisse, nel 1925. Solo vent’anni più tardi egli riprende la scrittura per le scene, con Il suo nome (1945). Fra questi due testi, di impianto assai diverso, sussistono però elementi di continuità, che mostrano come le sue riflessioni sul ruolo del teatro non si fossero mai interrotte. In particolare Savinio dimostra in entrambe un’inclinazione per il meccanismo del metateatro, sul quale proprio negli anni Venti iniziava a vertere la sperimentazione di Pirandello – autore del quale Savinio si considera discepolo, e con cui collabora proprio negli stessi anni (nel 1925 la compagnia del Teatro d’Arte rappresenta per la prima e unica volta la «tragedia mimica» saviniana La morte di Niobe; e proprio per il teatro Odescalchi, sede della compagnia pirandelliana, Savinio concepisce Capitano Ulisse).
Senza togliere valore alla lezione pirandelliana, va però notato che nei due drammi in questione essa prende una direzione del tutto indipendente. Innanzitutto, da un punto di vista operativo: oltre a non utilizzare mai (a quanto mi risulta) la definizione di ‘metateatro’, Savinio non raggiunge la complessità di Pirandello nell’estensione dello spazio scenico (coinvolgendo soltanto l’iposcenio, i palchi di proscenio e la prima fila della platea), come pure nell’impiego di personaggi metateatrali (non compaiono attori, regista e operatori di scena, ma solamente spettatori – Capitano Ulisse – e maschere – Il suo nome). Ma soprattutto si ha una divergenza nelle intenzioni. Se in Pirandello il metateatro è anche un’azione di contenimento delle derive avanguardistiche (in questo la presenza di autore e regista sulla scena equivale a un’affermazione di controllo), la posizione di Savinio si può invece raffrontare più da vicino al proto-metateatro delle avanguardie futuriste e dada. La presenza di finti spettatori, che giungevano a inscenare finti tumulti, era infatti spesso prevista da copione nelle soirées e sketch degli avanguardisti (si pensi a Sintesi futurista di Marinetti, 1916, o, sulle scene francesi, a S’il vous plaît di Breton): pur senza giungere a tali utilizzi estremi (e la sua posizione ufficiale rispetto alle avanguardie è volutamente camuffata), Savinio sfrutta il metateatro per obiettivi confrontabili, ossia l’eversione, la demolizione del dogma e delle convenzioni acquisite.
Il risultato è uno straniamento realizzato senza rigore, ma anzi dominato dalla vertigine, dello stravolgimento euforico. Prima ancora che costituire una riflessione sulle possibilità del teatro o un qualunque programma innovativo, si tratta di un’operazione che va compresa nella poetica dell’‘allegria’ con cui Savinio – in tutta la sua produzione – reagisce al quesito esistenziale.
Quest’ottica di ribaltamento presiede già alla prefazione a Capitano Ulisse, in cui è contenuta una dichiarazione (in realtà pseudo-programmatica, e dai toni iperbolici) nella quale si rivendica la necessità di attuare il valore catartico del teatro. La catarsi si realizza, scrive Savinio, proprio laddove si abbia un incontro fra realtà e finzione, che rende possibile la sublimazione della prima nella seconda (e proprio il metateatro è argomento implicito del discorso, perché si tratta del meccanismo che per eccellenza permette tale incontro):
Il teatro è un progetto di vita, il modello in piccolo di un mondo pulito e senza malattie. […] La Storia dice la cosa com’è, il Teatro come dovrebbe essere. […] Il processo catartico comincia alla prima battuta e non si arresta […].
Nell’Avventura Colorata, l’uomo attore sale a una biologia superiore. Acquista il senso totale, assume il comando supremo di se stesso. Si conosce, si sente come nessuno mai quaggiù è riuscito a conoscersi, a sentirsi. Arresta il proprio cuore a volontà. Riesce a mutare con lievissima contrazione dei muscoli il colore della pelle. […] Inutile aggiungere che in un mondo così straordinariamente risolto, Necessità e Desiderio, tesi tutt’e due in un’attesa piena d’ansia, […] sono ridotti entrambi a far la parte della fotografia del povero defunto.
Queste riflessioni sulla dialettica uomo-personaggio («uomo attore») sembrerebbero intercettare sia la poetica pirandelliana (le novelle Personaggi e Tragedia di un personaggio risalgono agli anni 1906-1911) sia la tradizionale prospettiva aristotelica. Tutto il discorso è però tramato di ironia, in quanto nel significato attribuitole da Savinio la ‘catarsi’, lungi dall’appianare conflitti di portata universale, si appunta su «imperfetti personaggi della vita» e ha come oggetto proprio la discesa dall’universale al quotidiano individuale.
Il metateatro inteso nella sua valenza liberatoria (come massima possibilità della finzione artistica) getta infatti un’ombra di ambiguità beffarda sul modo di intendere il rapporto realtà-finzione: la scena può porsi come riscatto dell’esistenza, ma a patto che in essa si inneschi un processo di smantellamento di ogni dimensione eroica che per tradizione le appartiene. Si crea così un cortocircuito paradossale, per cui la logica scenica, pur strutturandosi come «biologia superiore» rispetto all’everyday life, e pur sfruttando tutte le possibilità negate a quest’ultima (Avventura Colorata), in realtà aspira al quotidiano come a una meta, e così fanno i ‘personaggi(-uomini)’ protagonisti di questa parabola che ha il suo termine al di fuori dello spazio scenico.
In entrambe le opere, dunque, il metateatro agisce nel senso di una decostruzione – e anzi una desacralizzazione – fortemente ironica di alcune categorie tradizionali del teatro, rispettivamente il mito classico e un altro nascente mito, quello del pirandellismo.
Capitano Ulisse
La proposta desacralizzante di Capitano Ulisse l’aveva ben compresa Pirandello, definendo questo dramma in tre atti (1926) «opera di ironia lirica sull’eterno mito dell’inquietudine di Ulisse». L’idolo infranto è qui (come da consuetudine saviniana) il mito – a calcare la scena non è infatti un Ulisse omerico o comunque filologico, ma piuttosto quel personaggio che è frutto di una sedimentazione progressiva di stereotipi. Egli viene presentato come vittima di una secolare incomprensione, che gli fa patire lo sgradito statuto di ‘eroe’ e lo sballotta fra avventure non cercate, ma anzi assunte nella più totale impotenza. Le varie tappe del percorso non scandiscono alcuna progressione; viceversa si assiste al ritorno ossessivo delle stesse situazioni (le indicazioni sceniche, ad esempio, prescrivono che Calipso, Circe e Penelope siano l’esatta replica l’una dell’altra), in un’incompiutezza rappresentata (nella prefazione dell’opera) dall’immagine del ‘fantasma’.
Ulisse via via è stato patetico e sciatto, eloquente e àlalo, magnanimo e pidocchioso, spietato e tenerissimo, severo e pagliaccione. […] Ha comandato in guerra e in pace. Ha fatto il re. Ha fatto lo schiavo. Il padre affettuoso e il marito devoto. Ha vendicato l’onore offeso. Ha riverito la divinità. Ha coperto il suo pugno di ferro con un guanto di velluto. Le ha fatte tutte, le ha combinate tutte. Ha seguito le regole, le norme, lo stile. Eppure non è a posto. Perché? Ha vissuto la vita di tutti – meno che la sua propria. Diamo a Ulisse il necessario riposo.
Nella distorsione ironica operata da Savinio, l’intera Odissea si riconfigura come un semplice preambolo, come avventura scenica che si conclude necessariamente nello spazio extrascenico, dove finalmente il protagonista può espletare la sua vocazione antieroica e guadagnare lo statuto dell’uomo comune. Alla fine dello spettacolo, Ulisse raggiungerà infatti la platea, accompagnato da uno Spettatore.
ULISSE. Dieci anni interi ho corso cecamente [sic] dietro un mio destino terrestre. Fidavo in una donna, in una casa, in quelle calde, confortevoli speranze che mascherano sotto un velo di dubbia santità, l’oscura fame delle generazioni… Ha veduto anche lei in che modo sono stato ripagato! Fallito il mio primo destino, un altro subito mi venne offerto, più alto e promettente: la morte memorabile!… E con ciò?… Siamo troppo astuti ormai, perché simili soluzioni ci possano contentare […]. Vuole uscire con me? Ceneremo assieme, poi ognuno di noi tirerà per la sua strada e non ci penseremo più.
Proprio lo Spettatore (e un Secondo spettatore, entrambi seduti nella prima fila di sedie) è coadiutore fondamentale in questo processo di smitizzazione. In quanto rappresentante della vita reale, il suo ruolo è quello di dissolvere ogni parvenza di epicità nell’azione. Al momento opportuno egli invade lo spazio scenico (salendo sul palco, interagendo con i personaggi, aprendo e chiudendo il sipario, e così via) e interviene con luoghi comuni o frasi di buonsenso; ad esempio in aiuto di Circe e Calipso abbandonate, o (all’inizio dello spettacolo) per placare Euriloco:
SPETTATORE (leva gli occhi, vede Circe sul parapetto del palco). E quella povera signora lassù! (Impietosito, scende in platea, l’attraversa, esce. Poco dopo lo si vede entrare nel palco di Circe) . Su!… Coraggio! Finalmente, riapre gli occhi!… Povera signora!… Peggio di una bambina! Ridursi in questo stato per un uomo – e che uomo! un avventuriero, uno schiumatore di mari… Vergogna! Un uomo! Pfuh, perduto uno, dieci ritrovati. Su, bella signora, non ci pensi!
Le funzioni dello Spettatore in realtà non si fermano qui, e portano con sé un residuo della ‘radice avanguardistica’ che informa Capitano Ulisse. Egli costituisce una caricatura della mediocrità del pubblico borghese dei teatri, e allo stesso tempo illustra la reazione che in realtà l’autore si attende – e che conferma dunque il valore di rottura della propria opera (la «voluttà d’esser fischiati», per riprendere il titolo di un manifesto marinettiano del 1915). Anche nel teatro futurista, la posizione dell’autore rispetto allo Spettatore è ambivalente: ne schernisce l’ottusità, ma al tempo stesso ne approva, in quanto corrisponde ai suoi intenti, lo scalpore, al punto di includere nel copione le reazioni scandalizzate del pubblico. E anche Savinio, che aveva conosciuto un analogo stroncamento di pubblico (si trattava appunto della pantomima La morte di Niobe), con la figura dello Spettatore si permette forse un’ultima parola sulla passata esperienza.
I gusti conservatori dello Spettatore si comprendono dalla sorpresa che egli dimostra di fronte alle ‘stranezze’ dell’azione teatrale, ad esempio (al secondo atto) l’apertura solo parziale del sipario, o l’abbandono della scena da parte di tutti gli attori:
SPETTATORE. Farò silenzio quando l’atto sarà cominciato. Non vedono che nemmeno il teatro è ancora aperto completamente?
SECONDO SPETTATORE. Quanto al sipario, sa, credo che più di così non l’aprono. […]
SPETTATORE. Ma è una mistificazione!… una truffa!… Ci privano di metà spettacolo!…
Da notare anche le sue lamentele per gli ostacoli che impediscono uno sviluppo lineare dello spettacolo; in particolare l’accenno al pagamento del biglietto all’inizio del secondo atto, tema che tornerà poi anche in Il suo nome.
SPETTATORE. Oh, ecco: ricominciano. Bene! Bene! (Siede, fregandosi le mani dalla contentezza) Purché non mi tocchi ancora la parte dell’infermiere! […] Io – si figuri un po’! – arrivo a teatro, mi compro il mio bravo biglietto, vengo qui a godermi lo spettacolo, e… e… ha visto anche lei quello che mi è capitato!
Viceversa, lo Spettatore è a suo agio negli interni ‘borghesi’ che un Savinio al massimo dell’irriverenza attribuisce alla dimora di Itaca – con il giovinetto Telemaco istruito nell’algebra e impegnato nello studio al pianoforte di una sonata di Clementi, e Minerva, camuffata da Mentore, nel ruolo di precettore.
Certo, a differenza dei suoi equivalenti – spesso ‘aggressivi’ – dei copioni avanguardistici, abbiamo qui uno Spettatore comprensivo ed empatico nei confronti dei personaggi. Ma che con lui si assottigli la carica eversiva, non significa che venga meno l’operazione di caustica demolizione di quanto è tradizione: essa è anzi più forte in quanto non resa plateale, ma affidata alle armi bonarie della caricatura.
Il suo nome: Lodovico «uomo» e «personaggio»
Nei vent’anni che seguono Capitano Ulisse, Savinio porta avanti l’attività di critico teatrale e continua a seguire l’opera di Pirandello – e nella sua seconda prova drammatica, Il suo nome, la lezione pirandelliana viene in apparenza assorbita più pervasivamente, con tanto di richiami lessicali e situazionali. Si tratta in realtà di un’assimilazione mediata anche in questo caso dall’ironia, che sconfina facilmente nello sberleffo nei confronti delle etichette; fra le quali a quest’altezza cronologica rientra a buon diritto quella del ‘pirandellismo’, che qui si sostituisce al ‘mito’ come oggetto di rivisitazione de-eroicizzante.
Anzi, la conduzione di questo dramma fa pensare che egli abbia ricominciato, si può dire, dal punto lasciato in sospeso con Capitano Ulisse, e con lo stesso atteggiamento di fondo. Prosegue ad esempio la polemica contro la mentalità borghese impersonata dallo Spettatore del dramma giovanile. Si veda questo passo, in cui il protagonista Lodovico dichiara l’ipocrisia della ‘morale’ che impone il pagamento del biglietto:
I MASCHERA. (a Lodovico) Le sto dicendo che senza biglietto non si entra.
LODOVICO. Mi permetto di farle notare che lei asserisce cosa non perfettamente giusta. La riprova è che eccomi in teatro e non soltanto io, ma anche lei (indica la I Maschera) e anche questo suo collega (indica la II Maschera) senza contare tutti questi signori (indica la gente seduta in platea) dei quali pochi forse hanno pagato il biglietto.
I MASCHERA. Chi l’autorizza a offendere questi signori?
LODOVICO. Nessuno di questi signori si sentirà offeso, se gli dicessi che non ha pagato il biglietto. Si offenderebbe invece se gli dicessi che lo ha pagato. Gli sembrerebbe di fare la figura dello stupido in mezzo a una brillante compagnia di portoghesi. La morale è lodata solo in teoria.
Il dramma è una riscrittura di una novella dello stesso Savinio (1943), di cui vengono mantenute la trama e l’ambientazione spiccatamente pirandelliana. Lodovico, tornato da un viaggio oltreoceano, giunge nella città di Fàbara, ufficialmente per consegnare gli effetti personali di un suo amico defunto, Enrico, alla fidanzata di lui; in realtà, il piano di Lodovico è quello di rimpiazzare l’amico nella memoria della donna (ricca, e ottimo partito) e sostituirsi a lui come promesso sposo. A questo fine, pur conoscendo i trascorsi dissoluti di Enrico durante la sua lontananza, Lodovico inventa per commuovere la donna una lunga serie di menzogne che ne affermerebbero invece la perfetta virtù e fedeltà. Per coronare il racconto, giunge a dirle che l’ultima parola di Enrico prima di morire fu il nome di lei; però, alla sua richiesta di ripeterglielo, Lodovico – che non conosce il nome proprio dell’interlocutrice – pronuncia inavvedutamente il suo imbarazzante cognome (Chiappadoro) mandando così all’aria tutto il progetto.
Le modifiche che conseguono alla resa drammatica comportano il passaggio dalla terza persona diegetica alla prima persona; la vicenda è infatti narrata da Lodovico stesso, come una rievocazione che ha luogo nella sua memoria. Di conseguenza Lodovico acquisisce il controllo dell’azione drammatica, che prende vita seguendo le sue parole (ad esempio, i cambi di scenario avvengono in corrispondenza degli snodi del suo racconto).
Ora, è proprio la diffrazione fra piano del presente e piano del ricordo a instaurare il meccanismo metateatrale. Si crea cioè una situazione per cui il palcoscenico assume il valore di luogo ‘mentale’, nel quale i ricordi di Lodovico si materializzano e si fanno azione; tutta l’opera è organizzata in modo che questa articolazione a due risulti ben netta.
Nella fattispecie, alle parole rievocative di Lodovico, che narra la vicenda sul palcoscenico, corrispondono le azioni di una controfigura (Lodovico II): il parallelismo non è comunque perfetto, perché si verificano delle discrepanze (ad esempio Lodovico, che in questi casi viene chiamato Lodovico I, rettifica le parole menzognere di Lodovico II) e delle relazioni fra i due (Lodovico I interagisce occasionalmente con Lodovico II, ad esempio per spronarlo all’azione, o trattenerlo).
LODOVICO I. […] Mi venne curiosità di tastare quelle insipide carni sotto l’abito a lutto (Lodovico II allunga una mano verso la Fidanzata di Enrico, ma Lodovico I gli si butta addosso e gli ferma la mano) No! A posto le mani!… Non è il momento ancora… […]
Questa costruzione macchinosa (che si ripropone nel caso delle due Maschere: cfr. infra) è già di per sé una frecciatina a Pirandello, e al rischio di pedanteria che può derivare da un controllo eccessivamente rigoroso della trama scenica. E infatti, come si vede, lo svolgimento è imperfetto e soggetto a errori. Un’ulteriore complicazione è generata dal particolare statuto di Lodovico: è un personaggio della vicenda, ma anche soggetto esterno alla vicenda stessa, ed è anzi colui che, tramite la rievocazione, la suscita e la osserva. Anche Lodovico è, dunque, un «uomo attore».
Quest’ambiguità è percepibile sin dalla scena iniziale, in cui Lodovico è accompagnato in sala dalle maschere. Si tratta di una scoperta allusione ai Sei personaggi in cerca d’autore (dove pure l’ingresso dei personaggi è accompagnato da un usciere del teatro); chi dunque si lasci trascinare dalla citazione, potrebbe pensare che anche Lodovico sia un personaggio vero e proprio. Subito dopo però la maschera si rivolge a lui come se fosse uno spettatore. Lodovico risponde negando di esserlo, ma al tempo stesso non riesce a definire concretamente la sua identità, dichiarandosi «uomo semiliquido». Di nuovo Savinio interagisce con il ‘sistema’ pirandelliano dissolvendone il rigore. E se è vero che Lodovico, per la sua inquietudine e nel suo desiderio di uscire dall’irresolutezza, condivide alcuni tratti fondamentali dei personaggi di Pirandello, è altrettanto vero che tutta la costruzione scenica scivola lentamente verso un coronamento nettamente ‘desublimante’, che rivela lo sberleffo che agisce al fondo dell’imitazione del maestro.
Sarà il caso di esaminare proprio la catarsi sui generis che conclude l’atto. Siamo nel momento in cui Lodovico sta per pronunciare il nome; mentre continua a narrare, inizia a essere progressivamente schiacciato dalla rievocazione. La perfetta didascalicità dell’enunciazione del ricordo contiene già di per sé il germe dell’ironia; in aggiunta, Savinio dissemina dettagli pseudo-allucinatori ma in realtà grotteschi, includendo persino «quattro poltrone che si muovono».
Mentre Lodovico parla, le cose che egli dice sono «eseguite» dalla Fidanzata di Enrico, da Lodovico II e dalle Poltrone, le quali si alzano effettivamente e, assieme con la Fidanzata di Enrico, cominciano ad avanzare lentamente ma inesorabilmente verso Lodovico II il quale indietreggia verso la ribalta, camminando a ritroso. Quando Lodovico I dice: «Cominciai come in sogno a indietreggiare, a indietreggiare, a indietreggiare», egli si pone accanto a Lodovico II e comincia egli stesso a indietreggiare, ossia a fare identicamente quello che fa Lodovico II.
LODOVICO I. …e mentre traversavo a ritroso il salotto, poi il corridoio, poi l’atrio, poi il portone, io capivo, sentivo, «vedevo» lei che scacciava via da sé, ingigantita, come una dea vendicatrice, come la Giustizia, l’orribile, la spaventosa, l’incredibile Verità; […]
Segue il momento in cui Lodovico si libera dal ricordo, chiudendo violentemente il sipario e sancendo il passaggio definitivo allo stato di spettatore. Il dramma si conclude, infine, con la sua uscita dalla sala, in preda a una reazione di risa isteriche e alla ripetizione compulsiva del nome: non una risata di follia, ma un vero e proprio sberleffo, esito estremo della ‘corrosione dall’interno’ a cui il modello pirandelliano è stato sottoposto sin dalle prime battute dell’atto.
Un ultimo elemento su cui vorrei richiamare l’attenzione è la presenza di due personaggi metateatrali: due Maschere che agiscono nello spazio dell’iposcenio e indossano abiti scuri. Anche queste, così come Lodovico, hanno dei doppioni nello spazio scenico: le loro azioni sono ripetute sulla scena da due sosia in abbigliamento bianco (per meglio dire, sono questi ultimi a eseguire nel concreto le azioni, mentre le Maschere in abbigliamento nero si limitano a mimarle nell’iposcenio).
II MASCHERA. Questa volta dobbiamo metterci in due per portare la barella.
Si alzano ambedue, vanno alla porta della sala, tornano fingendo di sollevare una barella gravata dal peso di un uomo, e la collocano nel mezzo dell’iposcenio. […] In perfetta sincronia con le due Maschere Scure, le due Maschere Bianche entrano in scena recando la barella sulla quale è disteso Enrico e la depongono in fondo e nel mezzo della scena.
Inoltre le Maschere hanno differente caratterizzazione: la Prima è pedissequa nell’applicazione dei regolamenti, la Seconda più fantasiosa e dal pensiero più indipendente. La loro interazione, e i loro frequenti interventi, fanno sì che lo spettatore sia continuamente richiamato al carattere fittizio dell’azione che si sta svolgendo. Ad esempio, esse sottolineano le incongruenze a livello scenico dovute alla frammentarietà del ricordo di Lodovico, come il fatto che sia replicata due volte la scena dell’incontro fra Lodovico e la Fidanzata di Enrico, e che analogamente sia ripetuta la scena che prevede Enrico sul letto di morte. Anche qui è evidente l’irrisione nei confronti degli eccessi nell’applicazione dei virtuosismi metateatrali. E non è un caso che, a fronte dello stupore della I Maschera, la II Maschera ribadisca la totale libertà dell’azione scenica, affermandone la complanarità con il ricordo, dunque con una logica di per sé discontinua, che non teme la fantasia o la deviazione dalla norma.
II MASCHERA. Anche le tue reazioni sono effetto della tua oscurità mentale. Qui non si può dire s’incontrano, o si sono incontrati, o s’incontreranno. Le cose qui non seguono l’irreversibile corteo del tempo, ove quello che viene dopo non può andare prima o viceversa. Qui opera la memoria e le cose avvengono per virtù di mente, la quale è libera e consente che il poi preceda il prima e i piedi stiano più alti della testa.
Tutte le possibilità insite nella scrittura drammaturgica sembrano convergere nella caleidoscopica scrittura di Alberto Savinio. L’utilizzo del metateatro è solo una delle vie per intendere da una parte la pluralità dei suoi riferimenti, dall’altra la decostruzione infaticabile e paritaria che egli opera su luoghi ormai cristallizzati, antichi e moderni. A fronte del generale smascheramento del ‘dogma’ rimane pertanto, come via maestra gnoseologica, l’ironia nelle sue varie articolazioni e uno straniamento che però, lungi dal voler incanalare il lettore verso una riflessione univoca, risale sempre in superficie e continuamente supera se stesso, fornendo una pluralità di spunti sulla comprensione del reale.
SAVINIO Alberto (1989), Capitano Ulisse, a cura di A. Tinterri, Adelphi, Milano
SAVINIO Alberto (1991), Alcesti di Samuele e altri atti unici, a cura di A. Tinterri, Adelphi, Milano
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