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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 01

 settembre 2010

Saggi e rassegne

Gian Paolo Giudicetti

Fillide e seni nudi: lo sguardo spregiudicato di Calvino

Il rischio dello sguardo sbiadito

Lo sguardo di Marcovaldo scrutava intorno cercando l’affiorare d’una città diversa, una città di cortecce e squame e grumi e nervature sotto la città di vernice e catrame e vetro e intonaco. Ed ecco che il caseggiato davanti al quale passava tutti i giorni gli si rivelava essere in realtà una pietraia di grigia arenaria porosa: la staccionata d’un cantiere era d’assi di pino ancora fresco con nodi che parevano gemme; sull’insegna del grande negozio di tessuti riposava una schiera di farfalline, di tarme addormentate1.

Fillide è la trentaduesima tra le Città invisibili di Italo Calvino, libro pubblicato nel 1972, che racchiude la descrizione di cinquantacinque città fantastiche, simboliche, poetiche evocate da Marco Polo all’imperatore Kublai Kan, che l’ha inviato a esplorare il suo vasto impero. Ognuna delle città ha un nome di donna, tratto sovente dalla sfera mitologica o letteraria. Le cinquantacinque città sono divise in undici serie di cinque città. Fillide è la quarta della serie Le città e gli occhi e si trova poco dopo la metà del libro.

Il testo si divide in tre parti: nella prima Marco ritrae la multiformità di una città dalla prospettiva del viaggiatore che vi entra, fascinato dalla varietà delle forme dei ponti, delle finestre, dalle “sorprese” che “in ogni suo punto” la città offre “alla vista”. Nella seconda parte, Marco descrive le conseguenze per il viaggiatore a cui “accade […] di fermarsi a Fillide e passarvi il resto dei suoi giorni”:

Presto la città sbiadisce ai tuoi occhi, si cancellano i rosoni, le statue sulle mensole, le cupole. Come tutti gli abitanti di Fillide, segui linee a zigzag da una via all’altra, distingui zone di sole e zone d’ombra, qua una porta, là una scala, una panca dove puoi posare il cesto, una cunetta dove il piede inciampa se non ci badi. Tutto il resto della città è invisibile.2

La lettura di questo paragrafo porta a due riflessioni. Nel capitolo in cui si trova il testo su Fillide, il sesto del libro,3 la parola zigzag, di sapore ariostesco – nel senso che è stata usata anche da Calvino per definire la struttura narrativa della prima parte del Furioso4 –, appare tre volte, in contesti sia positivi che negativi: positivo, a testimonianza di un percorso che procede fruttuosamente per vie inedite e variabili, nella descrizione di Smeraldina, la città precedente: “la linea più breve tra due punti a Smeraldina non è una retta ma uno zigzag che si ramifica in tortuose varianti, le vie che s’aprono a ogni passante non sono soltanto due ma molte”5. Similmente, in Palomar (1983) si narrerà che il pensiero del protagonista “non procede in linea retta ma a zigzag, attraverso oscillazioni, smentite, correzioni”6. Negativo, a Eudossia, dove si postula una città come “una macchia che dilaga senza forma, con vie tutte a zigzag, case che franano una sull’altra nel polverone, incendi, urla nel buio”7, e a Fillide, dove la dimensione delle “linee a zigzag da una via all’altra” è una dimensione riduttiva rispetto a tutto ciò che il viaggiatore non scorge più, assuefatto alla vita cittadina8: come a dire che anche lo zigzagare è un modo di procedere relativo, positivo rispetto a linee tracciate troppo prevedibilmente, ma esso stesso tendente all’assuefazione.

La minaccia dell’abitudine è uno dei temi principali delle Città invisibili, anche dal profilo metanarrativo e semiotico, fin dalla cornice (luogo testuale situato a un livello narrativo superiore rispetto a quello delle descrizioni delle città, nel quale Marco e Kublai discutono piacevolmente e che si suddivide in diciotto parti, una all’inizio e una alla fine di ogni capitolo). Uno dei due testi-cornice del secondo capitolo approfondisce esplicitamente questo argomento.9 Si tratta di un testo suddivisibile in due parti (A e B), che a loro volta si bipartiscono simmetricamente. Nella fase A1 Marco Polo è ancora “ignaro delle lingue del Levante” e si esprime con oggetti e gesti, “imitando il latrato dello sciacallo e il chiurlìo del barbagianni”. È un linguaggio difficile da capire e l’imperatore è spesso dubbioso sul significato da attribuire agli oggetti e ai gesti; nel contempo è un linguaggio ricco perché polisemantico, non ancora ben definito e codificato, perché intorno alle notizie riferite restano le potenzialità di “un vuoto non riempito di parole”. Nella fase A2, Marco ha imparato la lingua, la domina tanto da usare “discorsi ramificati e frondosi, metafore e traslati”. La comunicazione risulta però “meno felice d’una volta”, le parole sembrano insufficienti a esprimere la varietà dei luoghi visitati. Marco è costretto a ritornare al codice dei gesti: “a poco a poco tornava a ricorrere a gesti, a smorfie, a occhiate”.

Nella fase B1 i due fantasiosi personaggi hanno riscoperto il valore dei gesti e il linguaggio più stabile e codificato delle parole è ampliato dalla ricchezza e dalla polisemanticità di quello gestuale: “una nuova specie di dialogo si stabilì tra loro: le bianche mani del Gran Kan, cariche d’anelli, rispondevano con movimenti composti a quelle agili e nodose del mercante”. Tuttavia, nella quarta fase (B2), anche il linguaggio gestuale, sebbene più ricco, col tempo si fossilizza, diventa stantio, ripetitivo, noiosamente univoco e vuoto. I due personaggi sono a malincuore ridotti al silenzio: “anche il piacere a ricorrervi diminuiva in entrambi; nelle loro conversazioni restavano il più del tempo zitti e immobili”10.

La seconda riflessione che prende spunto dal brano di Fillide citato in precedenza ha a che fare con il titolo del libro. A Smeraldina si trovavano, a poco spazio di distanza, le due parole, invisibili e città (la seconda parola concludeva il testo), in un brano che descriveva, opponendole a quelle degli uomini, dei gatti o dei topi, le “vie delle rondini, che tagliano l’aria sopra i tetti, calano lungo parabole invisibili ad ali ferme, scartano per inghiottire una zanzara, risalgono a spirale rasente un pinnacolo […]”. In tal modo, s’intuiva che le città di Calvino sono invisibili, nel senso che il destinatario del racconto, Kublai, ne apprende solo attraverso il racconto di Marco Polo, ma anche perché inconoscibili, fantasiose, aeree e leggere come il volo delle rondini. Ora a Fillide, dove, con le consuetudini rigide dettate dal tempo, a parte la strada che si percorre per motivi pratici, “tutto il resto della città è invisibile”, si entra in contatto con un’invisibilità negativa, che dipende dal cattivo sguardo del viaggiatore e del lettore, forse anche da cattive abitudini di lettura.

Infatti, nella terza parte del testo su Fillide, la conclusione generale proposta da Marco sembra invitare, anche se per negazione, alla stupefazione: “Molte sono le città come Fillide che si sottraggono agli sguardi tranne che se le cogli di sorpresa”11.

Invito, oppure constatazione. Nelle Città e i segni, un’altra tra le undici serie che compongono il libro, si traccia, dalla prima alla quinta città, una presa di coscienza progressiva dei limiti del segno: da Tamara (nella quale si mostra che ogni elemento naturale, albero, nuvola, orma, all’uomo appare solo come segno, per cui la realtà è inconoscibile direttamente), a Zirma (dove si sottolinea il divario tra la realtà iscritta nella memoria e il passato storico), a Zoe (città nella quale ogni insegna, simbolo, luogo può significare tutto, per cui finisce con non significare nulla), a Ipazia (il cui explicit è: “non c’è linguaggio senza inganno”), fino a Olivia (in cui si rivela che il linguaggio è spesso, forse sempre, ingannevole, non per pecche proprie, ma perché la realtà stessa è inconoscibile in quanto contraddittoria, in quanto ogni cosa nasconde il contrario di sé stessa). Se la realtà è paradossale, vana sembra la speranza del segno di comprenderla, e neppure i linguaggi rivoluzionari tematizzati qua e là nel libro, come quello dei gesti o quello swiftiano dell’ostentazione di oggetti (nella cornice del secondo capitolo), possono essere utili.

La constatazione sui limiti del segno è al centro di altre opere di Calvino, delle quali è stata notata la continuità sotto la superficie delle differenze formali:

Non solo le idee di Calvino sulla letteratura rimangono negli anni fedeli a se stesse, saldamente articolate attorno ad alcuni principi chiave: anche la sua concreta prassi di scrittura, pur valendosi delle risorse di una non comune inventiva, si attiene ad alcuni procedimenti essenziali, che acquistano maggiore o minore rilievo nei diversi contesti ma tendono a ricorrere lungo l’intero arco della sua opera.12

Già La giornata d’uno scrutatore, venti anni prima, si concludeva (quasi: si tratta del penultimo paragrafo) con le parole seguenti, a indicare il beneficio di alcuni istanti in cui si può cogliere una città invisibile di là della nebbia delle convenzioni consuete: “S’avvicinò alla finestra. Un poco di tramonto rosseggiava tra gli edifici tristi. Il sole era già andato ma restava un bagliore dietro il profilo dei tetti e degli spigoli, e apriva nei cortili le prospettive di una città mai vista”13.

Una delle opere di Calvino in cui il tema è rappresentato più intensamente è Palomar, interpretabile come meditazione ossessiva sullo sguardo,14 sulle sue modalità, sulle virtù di un’osservazione fresca e spregiudicata del mondo, sebbene la via meno erronea, più precisamente, sia quella dell’equilibrio tra i due errori speculari dell’istintività irrazionale e dell’astrazione sofista. Fin dai primi tra i ventisette testi che lo formano, Palomar mette a prova la propria capacità di contemplare il mondo. In Il seno nudo, il secondo testo, Palomar si pone il problema, affrontato anche in Fillide, di come conciliare l’innocenza dello sguardo e l’interpretazione, necessaria, di ciò che viene osservato. La riflessione scaturisce dalla presenza di una donna in topless sulla spiaggia. La prima reazione di Palomar è quella, per rispettare le convenzioni pudiche, di fingere d’ignorare il seno nudo. Il secondo proposito del personaggio, che segue il tipico movimento calviniano – una sorta di spirale dialettica, talvolta antinomica – di partire da A, passare a NON-A, ritornare verso A ecc., via via precisando il proprio pensiero, è quello, tornando sui propri passi, di non ignorare palesemente il busto femmineo – proprio l’ostentazione dell’indifferenza mostrerebbe che sta pensando al seno –, bensì d’includerlo in uno sguardo complessivo, che

sfiori con equanime uniformità la schiuma delle onde che si ritraggono, gli scafi delle barche tirate in secco, il lenzuolo di spugna steso sull’arena, la ricolma luna di pelle più chiara con l’alone bruno del capezzolo, il profilo della costa nella foschia, grigia contro il cielo.15

Lo sguardo universale si confonde però con una riproduzione meccanica e non-pensata. In questo caso l’uomo non si distinguerebbe dalla natura. Palomar, facendo ancora dietro-front e prima di far fuggire la donna che immagina sia un molestatore, capisce che il pensiero deve intervenire, per discernere nella massa d’informazioni registrabili quelle di cui curarsi: “ora, nel far scorrere il suo sguardo sulla spiaggia con oggettività imparziale, fa in modo che, appena il petto della donna entra nel suo campo visivo, si noti una discontinuità, uno scarto, quasi un guizzo”16.

Impersonalità, dimezzamenti e sguardo

[…] mais dit en substance qu’il s’est conduit comme s’il était mort, et comme s’il imaginait le monde après sa mort… en écrivant, bien entendu. […] – Pour moi, l’écriture, le fait d’écrire, à un certain niveau, est un équivalent positif du suicide, c’est à dire qu’il y a une relation étroite entre la mort et l’inspiration (Georges Charbonnier, Entretiens avec Michel Butor, Gallimard, Paris, 1967, p. 37).

La ricerca di uno sguardo spregiudicato porta Palomar alla tentazione dell’impersonalità e a Calvino l’ambizione di uno stile impersonale. Calvino è “l’un des écrivains les plus antinarcissiques de la littérature italienne”17, ha scritto Belpoliti. Quella di Calvino è una lingua che si vuole cristallina e precisa per fini etici: “il diavolo oggi è l’approssimativo”18. Anche come responsabile editoriale Calvino esigeva “durezza, rigore, pignoleria”, pochi aggettivi, e tra questi non aggettivi come struggente, da cui stava lontano come dalla peste, ricorda Guido Davico Bonino, suo collaboratore all’Einaudi, in un’intervista.19

“Ma come si fa a guardare qualcosa lasciando da parte l’io?”, si domanda Palomar in Il mondo guarda il mondo20. Per cominciare, conquistando la distanza dell’imperturbabilità. A Arpino, che ne aveva commentato alcuni racconti, in una lettera del maggio 1958 Calvino rispose: “Freddezza di ghiaccio? Sarebbe il più bel complimento che mi sia stato mai rivolto: purtroppo ne sono ben lontano”21. In una lettera del 1971 a Fortini ribadiva che «un mondo senza esseri umani ma in cui l’uomo sia realizzato e risolto, un mondo di calcolatori elettronici e farfalle», non solo non lo spaventava, «anzi mi rassicura. Ma naturalmente non dimetto l’interesse diciamo campanilistico per la provincia spazio-temporale abitata dall’uomo, purché non si perda di vista tutto il resto, quello che per me dovrebb’essere la totalità, anzi è nell’uomo come società e come uomo singolo che si gioca tutto il resto»22.

Infine, a testimonianza che l’impersonalità è un ideale, utopico, che ha costituito l’orizzonte letterario di Calvino durante tutta la sua carriera letteraria, nelle Lezioni americane (1985) citava Gadda: “l’io, io!… il più lurido di tutti i pronomi!”23.

Siccome la morte conseguita grazie all’impersonalità non è, per certi versi, un obiettivo augurabile, chissà che non sia una soluzione il dimezzamento, via meno drastica alla liberazione di uno sguardo vitale. È il motivo alla radice del Visconte dimezzato: “Così si potesse dimezzare ogni cosa intera, – disse mio zio coricato bocconi sullo scoglio, carezzando quelle convulse metà di polpo, – così ognuno potesse uscire dalla sua ottusa e ignorante interezza. Ero intero e tutte le cose erano per me naturali e confuse, stupide come l’aria; credevo di veder tutto e non era che la scorza. Se mai tu diventerai metà di te stesso, e te l’auguro, ragazzo, capirai cose al di là della comune intelligenza dei cervelli interi”24.

L’interezza, la nettezza sono legati alla proiezione di una luce troppo forte sull’osservato, con il rischio dell’abbaglio. Se ne rendono conto anche i cineasti. Così Von Trier, in un manifesto artistico del 2000:

le sujet que nous cherchons se trouve dans la même réalité que celle qui inspire les faiseurs de fiction. C’est la réalité que les journalistes pensent décrire. Mais ils ne parviennent pas à trouver ce sujet peu commun, car leurs techniques les aveuglent. En fait, ils ne veulent pas le trouver, car ces techniques sont devenues le but en soi […] L’histoire, l’argument, la révélation et la sensation nous ont dérobé ce sujet: le reste du monde, qu’il n’est pas si aisé de transmettre, mais sans lequel nous ne pouvons vivre!
L’ennemi, c’est l’histoire. Le thème, présenté en dépit de toute décence. Mais c’est aussi le fait que l’importance d’un argument soit prétendument soumise à l’évaluation du spectateur, à grands renforts de points de vue et de faits, contrebalancés par leurs antithèses. C’est la vénération du contour, tout-puissant, au détriment du sujet dont il provient. Ce sujet, qui est peut-être le vrai trésor de la vie, s’est volatilisé devant nos yeux. Comment le redécouvrir? Comment le transmettre, le décrire? Le défi ultime du futur est de voir sans regarder: défocaliser! Dans un monde où les médias se prosternent devant l’autel de la netteté, et ce faisant vident la vie de toute vie, le DEFOCALISATEUR sera le communicateur de notre époque – ni plus, ni moins!25

L’attenzione, contro i piccioni

La patience est tout (Rilke, Lettres à un jeune poète)

Il vocabolo pazienza è invilito e lo adoperiamo per i giuochi di pazienza e simili cose non disoneste ma insignificanti. Viceversa pazienza è l’espressione maggiore della virtù di fortezza, perché la forza che si richiede per resistere è maggiore di quella che si richiede per attaccare. Non senza profondità in Omero si trova kammonía, cioè resistenza, come equivalente di vittoria (Romano Amerio, Zibaldone).

Il finale di Palomar – la morte del personaggio – mostra che l’obiettivo dell’impersonalità può essere raggiunto solo con la sparizione dell’individuo. Nelle Città invisibili, partito da Fillide e dopo esser passato da Pirra, il viaggiatore arriva ad Adelma, la seconda città della serie Le città e i morti, una città di fantasmi: negli abitanti a Marco pare di riconoscere le fisionomie di persone conosciute e morte. Il senso del testo appare insolitamente esplicito e univoco, forse perché sulla morte si può discorrere solo chiaramente, senza giochi letterari. Tuttavia, il significato evidente del microtesto non è l’unico. Anche quando sembra discutere della morte, Marco riflette, in primo luogo, sulle strutture conoscitive. Così al centro del brano:

Pensai: “si arriva a un momento nella vita in cui tra la gente che si è conosciuta i morti sono più dei vivi. E la mente si rifiuta d’accettare altre fisionomie, altre espressioni: su tutte le facce nuove che incontra, imprime i vecchi calchi, per ognuna trova la maschera che s’adatta di più”.26

È una frase che sposta il discorso dal tema di una città in cui effettivamente s’incontrano anime di morti, alla tesi che è la mente, impigrita dall’età, a cessare di riconoscere la novità in ciò in cui s’imbatte, a proiettare la propria memoria e i propri pregiudizi sulla realtà che la circonda, così che l’esistenza diventa simile alla morte, nel senso di una mancanza di rinnovamento individuale, dell’impossibilità di nuovo sapere. Si tratta della tematica appena incontrata a Fillide, trasponibile anche sul piano metaletterario (a indicare che si deve leggere con la mente predisposta al nuovo, senza gettare sulle pagine le proprie categorizzazioni a priori), come accadrà in Se una notte d’inverno un viaggiatore27.

La serie Le città continue è la più pessimista del libro: l’uniformità ha trionfato. La seconda città della serie, Trude, è uguale a tutte le altre. Si è nel penultimo capitolo del libro e il testo dedicato a Trude, forse, non rappresenta solamente un deterioramento le cui cause sono da individuare nella globalizzazione, ma un segnale di allarme che ha a che fare più con l’osservatore che con la realtà osservata. Vicino alla fine del viaggio e prima di un nuovo slancio finale, il viaggiatore è stanco, incapace di attenzione, quindi di riconoscere le differenze tra una città e l’altra. La virtù principale si conferma la pazienza, l’ostinazione di uno sguardo che resiste alla stanchezza e all’inerzia dell’uniformità.

Bisogna tornare a Palomar, personaggio ostinatissimo. L’universo inabitato ha preceduto e seguirà l’umanità, breve momento della sua evoluzione (“Il signor Palomar pensa al mondo senza di lui: quello sterminato di prima della sua nascita, e quello ben più oscuro di dopo la sua morte”28), ma per l’universo l’uomo rappresenta un’occasione di coscienza, di registrazione nella memoria:

La luna di pomeriggio nessuno la guarda, ed è quello il momento in cui avrebbe più bisogno del nostro interessamento, dato che la sua esistenza è ancora in forse.
[…]
Non c’è dubbio che quella che ora comincia è una splendida notte di plenilunio d’inverno. A questo punto, assicuratosi che la luna non ha più bisogno di lui, il signor Palomar torna a casa.29

Anche di fronte al rischio dell’omogeneizzazione, rappresentato in Palomar dagli “stolidi scacazzanti piccioni cittadini”30, la virtù conoscitiva dell’attenzione è una forma di resistenza, senza l’ambizione di definire il reale, ma almeno di comprendere come non bisogna definirlo, regola che vale anche a livello di poetica. Calvino si era espresso così su Palomar:

Mi si potrà chiedere perché invece di parlare del libro che ho scritto, parlo di quello che non ho scritto e che non questo non ha niente a che fare. Ma forse uno non può parlare del proprio libro (che non dovrebbe richiedere altre parole da parte dell’autore) se non “in negativo”, cioè parlando dei progetti di libri che sono stati scartati per giungere a questo.31

Note

1 Calvino, Marcovaldo, cit. in Mario Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 40.

2 Calvino, Romanzi e racconti, vol. II, Milano, Mondadori, 1992, p. 435.

3 Il libro, oltre che in undici serie, è suddiviso in nove capitoli – nei quali le serie si alternano l’una all’altra secondo un ordine ben determinato –, di cui il primo e l’ultimo contengono dieci città, i sette centrali cinque.

4 Calvino, La struttura dell’“Orlando” [1974], in Perché leggere i classici, Mondadori, Milano, 1991, pp. 78-88, p. 81. Cfr. anche Corrado Bologna, La macchina del Furioso. Lettura dell’Orlando e delle Satire, Einaudi, Torino, 1998, pp. 113-4.

5 Calvino, Romanzi e racconti, cit., p. 433.

6 In Ibidem, p. 961.

7 Ibidem, p. 441.

8 “Ciò che è più esposto è anche ciò che è più nascosto, quello che si guarda distrattamente, e si trascura”, scrive Guido Guglielmi (Spazialità e testo letterario [2002], poi su ‘Saragana’, in rete, ultima lettura gennaio 2010), discorrendo dell’Ulysses di Joyce.

9 Per l’analisi di questo testo-cornice cfr. Gian Paolo Giudicetti e Marinella Lizza Venuti, Le città e i nomi. Un viaggio tra Le città invisibili di Italo Calvino, Nerosubianco, Cuneo, 2010.

10 Calvino, Romanzi e racconti, cit., pp. 386-7.

11 Ibidem, p. 436.

12 Barenghi, Italo Calvino, cit., p. 48.

13 Calvino, Romanzi e racconti, cit., p. 78.

14 Cfr. Gabrielle Jacquet, Palomar di Italo Calvino. Struttura seriale e ricerca di armonia, dattiloscritto in via di pubblicazione.

15 Op. cit., p. 881.

16 Ibidem.

17 Marco Belpoliti, Le clair miroir de l’esprit, ’Europe’, mars 1997, 75, 815, pp. 87-100, p. 95.

18 Niccolò Scaffai, Calvino e la ‘nuova questione della lingua’, ‘Nuova antologia’, 2000, 135, 2216, pp. 216-31, p. 226.

19 Cfr. Personaggi, segreti, cattiverie, pettegolezzi, a cura di Cesare Martinetti, ‘La Stampa’, 28.3.2003, p. 21.

20 In Palomar, op. cit., pp. 968-9.

21 Italo Calvino, Lettere 1940-1985, Mondadori, Milano, 2000, p. 578.

22 Ibidem, p. 589, citato da Silvio Perrella, Calvino [1999], Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 65.

23 Saggi 1945-1985, Mondadori, Milano, 1995, p. 719.

24 In Romanzi e racconti, vol. 1, Mondadori, Milano, 1995, p. 403.

26 Op. cit., p. 438.

27 Su questa tematica in quel romanzo, cfr. Gian Paolo Giudicetti, L’idéologie dans Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) d’Italo Calvino, in Proceedings of International Conference The Value of Literature in and after the Seventies: The Case of Italy and Portugal, Utrecht, Igitur, 2006, pp. 613-20.

28 Op. cit., p. 887.

29 Ibidem, pp. 901-3. Si tratta dell’incipit e dell’explicit di Luna di pomeriggio.

30 Ibidem, p. 929.

31 È un dattiloscritto di Calvino, pubblicato in Romanzi e racconti, vol. II, cit., p. 1403.