Venezia che muore, Venezia appoggiata sul mare,
la dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi, Venezia, la vende ai turisti
Con queste parole si apre la Venezia di Guccini, solenne mescolanza di ironico e amaro, in una sola parola: umorismo.
Quanto tempo siamo stati a Venezia? Le scolaresche d’Italia ormai la visitano in mezza giornata; dopotutto cosa bisogna vedere? San Marco, Rialto, l’Accademia, alcuni volenterosi Tiziano, poco altro. Questo è ciò che resta nella memoria dello studente, una cartolina non comprata e non compresa, spazio occupato nella memoria del cellulare e non nella propria.
Turisti di tutto il mondo accorrono dopo la caduta del muro, per vedere se esiste davvero; ci tornano per controllare se è rimasta ancora in piedi…
Perché forse è questa l’unica immagine, l’unica cartolina che possiamo comprendere, tanto è stata venduta negli ultimi secoli: Venezia è una città che muore.
Quasi ogni grande scrittore o artista che ci è passato, ha visto la sua decadenza. Marinetti ha addirittura teorizzato e aspirato la sua distruzione:
Noi ripudiamo l’antica Venezia estenuata e sfatta da voluttà secolari, che noi pure amammo e possedemmo in un gran sogno nostalgico. […] Noi vogliamo guarire e cicatrizzare questa città putrescente, piaga magnifica del passato. […] Noi vogliamo preparare la nascita di una Venezia industriale e militare che possa dominare il mare Adriatico, gran lago Italiano. Affrettiamoci a colmare i piccoli canali puzzolenti con le macerie dei vecchi palazzi crollanti e lebbrosi. Bruciamo le gondole, poltrone a dondolo per cretini, e innalziamo fino al cielo l’imponente geometria dei ponti metallici e degli opifici chiomati di fumo, per abolire le curve cascanti delle vecchie architetture.
La decadenza di Venezia, «cloaca massima del passatismo», diventa oggetto del rifiuto futurista del passato, che deve essere sostituito all’insegna della nascente società del futuro. La giovinezza metallica trionfa sulla vecchia pietra d’Istria bagnata dalla laguna.
La mostra di Gianni Berengo Gardin, a cura di Alessandra Mauro, organizzata dal Fondo Ambiente Italiano, dalla Fondazione Forma per la Fotografia e da Contrasto, allestita al Negozio Olivetti in Piazza San Marco e conclusasi il 6 gennaio, ci mostra una prospettiva diversa.
Lo sguardo del fotografo coglie davvero la contrapposizione tra nuovo e vecchio, tra rinascita e decadenza. Una immagine folgorante, quella di Berengo Gardin, che per molti versi rievoca il profondo sentimento di deriva che prova William Turner quando dipinge La valorosa Téméraire, un relitto d’altri tempi che viene dolcemente trascinato verso lo smantellamento.
Questa mostra ha rischiato di non aprire, o di farlo completamente snaturata, date le preoccupazioni del sindaco Luigi Brugnolo, che avrebbe voluto affiancare Gardin le fotografie del nuovo e controverso progetto “Tresse est”, ennesimo tentativo dell’amministrazione serenissima per nascondere il problema e salvarsi la faccia. Tentativo, questo, che ha forse lo stesso sapore del testo di Marinetti, anche se, forse, meno distruttivo: affiancare o sostituire il vecchio che decade e imbarazza con il nuovo che avanza e che dovrebbe trainare il vecchio verso il futuro.
Ma quale è la vera decadenza in questo caso? Berengo Gardin non ha dubbi. In questa fotografia, come nelle altre che compongono la mostra, la figura in bilico non è fatta di pietra ma di metallo. Quelle navi che incombono minacciose sulla città raccontano molto di ciò che siamo, giovinezza in bilico ormai già vecchia. La cartolina che ci portiamo ora da Venezia è cambiata molto rispetto alla brama rinnovatrice futurista: la vecchia pietra d’Istria resiste mentre il metallo arrugginisce nella laguna.