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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 15

 ottobre 2017

Testi

Giovanni Accardo

Capitolo 7, da La voglia di dormire

Il romanzo La voglia di dormire è ancora in fieri, racconta di Aldo, un quarantenne sposato con Marta e il cui matrimonio è in crisi. I due vivono in una città del Nord di cui non viene fatto il nome e hanno una figlia di cinque anni, Chiara, che probabilmente è l’unica cosa che ancora lega la coppia. Aldo è un insegnante precario che soffre di insonnia. Una notte sente dei lamenti venire dalla camera che confina col suo appartamento, esce sul pianerottolo e bussa alla porta della sua vicina, una studentessa universitaria di vent’anni che ha una crisi di delirio. Poco alla volta diventa l’unico punto di riferimento di questa ragazza chiaramente psicotica, con manie di persecuzione e costantemente imbottita di psicofarmaci; poco alla volta ne viene travolto, complicando la sua già difficile esistenza.

La mattina dopo Giulia aspettò che Marta e Chiara uscissero e mi suonò il campanello, svegliandomi.

I capelli neri facevano risaltare l’estremo pallore del suo viso, gli occhi erano sprofondati in una rassegnazione infinita, più che dalla paura erano attraversati dalla stanchezza. Anche io mi sentivo stanco, con un brutto sapore nella bocca. Però c’era qualcosa di strano nella sua faccia, qualcosa che attirava la mia attenzione e m’impediva di parlare. Erano le sue labbra. Si era truccate le labbra di rosso fuoco, e quel rosso brillava e faceva risaltare ulteriormente il pallore del viso.

“Volevo chiederti se mi puoi accompagnare all’ospedale psichiatrico per parlare col professore”, disse.

Mi ricordai che le avevo detto di chiamarmi, se avesse avuto bisogno di aiuto. Però, non si era parlato di andare all’ospedale psichiatrico.

“Mi accompagni?”

La guardai e deglutii.

“Dammi il tempo di lavarmi, vestirmi e bere un caffè. Vengo a chiamarti quando sono pronto.”

“Posso aspettarti qua?”, domandò, indicando il divano del soggiorno.

“Va bene”, dissi.

Perché dissi di sì, quando dentro di me tutto diceva no? Perché non scappai, inventando una scusa qualunque?

In macchina nessuno dei due parlava, il traffico era molto lento, lunghe code intasavano le strade. Mi ero disabituato ad andare in macchina, di solito mi spostavo in bicicletta. Ma l’ex ospedale psichiatrico si trovava fuori dalla città, lungo la strada che portava ai colli, e c’era un solo autobus urbano che fermava lì davanti.

In cielo correvano delle nuvole sfilacciate che parevano garze. Ogni tanto una miriade di puntini fosforescenti mi compariva davanti agli occhi, danzavano e luccicavano nel mio campo visivo come in un video-game. Era il preludio a una crisi di emicrania. Accesi la radio, c’era Harvest Moon, una canzone di Neil Young nella versione live dei Pearl Jam. Tirai giù il finestrino, per respirare l’aria umida, e accesi una sigaretta. Immaginai di partire per una vacanza, seppure con un senso di affanno al petto e un dolore pulsante alle tempie.

L’ospedale psichiatrico era una costruzione degli inizi del ‘900, affacciata su una strada intensamente trafficata.

Lasciai la macchina di fronte all’ingresso principale e seguii Giulia. Lei s’incamminò per un lungo corridoio dal soffitto molto alto, conosceva molto bene dove andare, attraversò il corridoio che disegnava un angolo retto e proseguiva a sinistra, nella parte interna dell’edificio; lei andava avanti e io la seguivo, senza chiedermi nulla. Avevo l’impressione di muovermi in un edificio abbandonato; quei corridoi desolati mi parevano ancora più enormi, i soffitti s’innalzavano ad un’altezza spropositata. Non s’incontravano né medici né infermieri. I pazienti erano tutti spariti, se mai c’erano stati.

“Andiamo al piano di sopra”, annunciò.

Dove iniziavano le scale vidi la macchinetta del caffè, dissi a Giulia che la raggiungevo subito e mi fermai a bere un altro caffè. Non stavo seguendo nessuna delle prescrizioni del medico, massacrandomi lo stomaco e aggravando l’insonnia. Mi sarebbe piaciuto avere determinazione, essere fermo nelle decisioni, saperle imporre e rispettare, ma non ne ero capace. Altrimenti sarei stato un’altra persona, con un nome diverso e un altro passato.

Al piano di sopra le finestre davano su un ampio giardino con alberi e panchine su cui erano seduti solamente alcuni vecchi. Nessuno di loro parlava, tutti guardavano davanti a sé, come a cercare qualcosa. O forse aspettavano. Su un’altra panchina, una giovane donna, seduta accanto a una signora molto anziana, con i capelli bianchissimi, l’aiutava a mangiare una banana. Più che un ospedale psichiatrico sembrava un ospizio.

Giulia interpellò un infermiere.

“Il professore è occupato”, disse poi, rivolta a me.

“Non puoi farti vedere da un altro medico?”

“Prima voglio vedere se riesco a parlare col mio professore”, fu la sua risposta, e nel dirlo un sorriso, non capii se di sfida o di piacere, le attraversò la faccia.

“Ma è lui che ti ha prescritto le medicine?”

“Voglio parlare col professore”, si limitò a ribadire, quasi infastidita.

Ebbi la sensazione che il professore con le medicine che prendeva non c’entrasse nulla.

“Parlaci dopo, visto che è occupato. Oppure chiedi se c’è un medico, magari quello che ti ha dato le medicine.”

Mi guardò con l’aria smarrita di chi è stato scoperto.

“Aspettami qui, so dove trovarlo”, disse.

“Ascolta, io credo che prima dovresti sentire il medico”, insistetti in tono perentorio.

“Ma io devo parlare col professore”, ripeté come una litania, e quasi si metteva ad urlare.

“Ma cosa avrai di così urgente da dirgli?” proruppi, sempre più irritato, con la tentazione di mollarla lì e tornarmene a casa a dormire. Chi cazzo la conosceva? Che me ne fregava della sua insonnia e dei suoi deliri notturni? Non ne avevo già abbastanza di problemi? Il matrimonio con mia moglie era a un passo dal naufragio, rischiavo di perdere Chiara e me ne stavo al Centro di Salute Mentale con una sconosciuta.

“Ma che ne sai cosa c’è stato tra me e il professore?”, mi gridò in faccia.

Dopo quest’ultima frase smisi di parlare e mi pentii dell’offerta notturna di aiutarla. Sentivo una furia crescermi dentro e scaldarmi le mani. Ebbi voglia di farla volare giù dalla finestra e dopo tornarmene a casa.

“Ti aspetto lì fuori”, dissi, indicando una panchina oltre la finestra, nel giardino, “quando hai finito vieni a chiamarmi.”

Mi accesi una sigaretta e andai a sedere all’ombra di un platano.

Dietro il corpo centrale dell’ex ospedale si apriva un parco, che dalla strada s’intravedeva appena. A destra e sinistra c’erano diversi padiglioni a due piani, alcuni abbandonati, altri ristrutturati e in uso, soprattutto il piano terra, mentre il primo piano, con le finestre consumate dalle intemperie, appariva disabitato. Un paio di quei padiglioni erano stati completamente ristrutturati e venivano impiegati per altre funzioni sanitarie: dal centro di raccolta sangue alla riabilitazione cardiologica, dal centro di diabetologia alla medicina dello sport, c’era anche un ambulatorio di fisioterapia. Camminai lungo i viali ombreggiati da platani e tigli, immaginando quell’enorme struttura senza le auto parcheggiate tutt’attorno e ancora piena di matti, come doveva essere molti anni prima. In certi punti, quei padiglioni bassi e scrostati, davano l’impressione di trovarsi dentro a un campo di concentramento. Chissà quanti pazienti conteneva quando era in funzione, mi domandai. A un certo punto ebbi l’impressione di vedere delle galline. Cosa ci facevano le galline in un ospedale psichiatrico? Cominciavo ad avere le allucinazioni?

Fu Giulia a interrompere le mie domande, me la vidi comparire davanti dopo una ventina di minuti che giravo, disse che non era riuscita a trovare il professore e il dottore con cui doveva parlare delle medicine era andato via; però forse ritornava, disse. Stavo per chiederle chi glielo avesse detto che ritornava, ma non fiatai, sentendo la pressione picchiare alle tempie, mentre una fila di puntini colorati ballava ai lati del mio campo visivo. E c’erano ancora quelle cazzo di galline che becchettavano nel prato. Stavo per impazzire anch’io? Accesi un’altra sigaretta e aspirai a fondo, restando in silenzio. Giulia sedette su una panchina, poi s’alzò di scatto e ritornò dentro: proprio non riusciva a starsene ferma per cinque minuti di seguito.

Mi alzai anch’io e mi avvicinai alle galline. Ero tentato di prenderne una, ma avevo paura che mi mordesse sulle mani. Che idiota, pensai, ad avere paura di una gallina. Mi venne in mente mia nonna, che quand’ero bambino allevava le galline e ogni tanto ne prendeva una, le tirava il collo e poi l’appendeva a testa in giù, pronta per essere spennata e cucinata. Mi guardai attorno. Non c’era nessuno, solo le galline. Non poteva essere un’allucinazione. Mi feci coraggio e provai a prenderne una, ma quella subito scappò. Allora presi un sasso e la colpii. Era una gallina vera.

Lasciai perdere le galline e ritornai al primo piano. Vidi Giulia uscire da una stanza, a capo chino. La chiamai.

Camminava con passo incerto, il suo pallore s’accresceva di minuto in minuto, adesso il colore del viso sfiorava il verde. Mi spiegò che non trovava più il medico che le aveva prescritto i farmaci, forse aveva finito le sue visite ed era andato via.

“Però, nel pomeriggio torna il professore”, disse, e nel dirlo i suoi occhi s’illuminarono ancora una volta.

Fui tentato di chiederle da chi avesse appreso quella straordinaria informazione, ma era meglio restare zitto, altrimenti le avrei urlato in faccia che incominciavo a rompermi pesantemente le palle, di lei e del professore.

“Io devo andar via”, dissi, con tono duro e asciutto. “Rimani qui o vieni via con me?”

Mi scrutò con i suoi occhi spenti, privi di qualunque vitalità, in quel momento del tutto insignificanti; quegli occhi parevano capaci di esprimere soltanto dolore e paura, una paura che finiva per contagiare chi le stava intorno e invitava alla fuga.

“Allora? Resti qui ad aspettare il tuo professore o torni a casa con me”, tagliai corto e alzando la voce, sempre più irritato dalla sua indolenza.

Lei non fiatò. Mi dispiacque avere urlato, mi sentii persino in colpa per l’impazienza, ma ero terribilmente stanco, e lei, invece di trovare un medico, continuava a perder tempo, ossessionata dalla ricerca del suo fantomatico professore.

“Andiamo”, dissi, cercando di frenare la rabbia.

Giulia non disse nulla, mi seguì in silenzio, con la sua andatura vacillante, il corpo minuto, i capelli neri e il viso verdastro. Cominciavo a odiarla.

Guardai ancora una volta le galline e poi mi diressi alla macchina.