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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 01

 settembre 2010

Saggi e rassegne

Giovanni Accardo

La letteratura come irrisione. Le forme del comico nell’opera di Luigi Malerba

Gli ambiti connotativi del concetto di comico sono piuttosto vari e complessi, talvolta persino contraddittori. Non di rado è possibile ridurre il tutto ad una mera questione terminologica, originata anche dalle diverse sfumature che un medesimo concetto può assumere a se­conda della lingua-madre di chi lo utilizza. Sicché, se qualcuno usa il termine comico senza ulteriori specificazioni, altri lo differen­ziano come humour, oppure i due termini vengono utilizzati come si­nonimi. Insomma si determina una sovrapposizione tra il comico inteso nella sua definizione psicologica e filosofica (come mezzo di cono­scenza) e il comico considerato nelle sue determinazioni retoriche (come strumento espressivo).

Specificare la natura del comico, allora, comporta una distinzio­ne dello spazio dei soggetti che costruiscono il processo comico, da­gli oggetti che danno luogo al comico, per potere poi analizzare le diverse forme attraverso cui esso si realizza nel testo. Perciò, nel nostro studio, il comico ci interessa non soltanto come genere o cate­goria estetica, ma come principio narrativo strutturante che esprime una realtà senza pretendere di fondare un’ideologia.

È con Gadda che, nel panorama letterario italiano, il comico si esplicita linguisticamente, come tentativo di sostituire strumenti espressivi divenuti oramai logori: esso assume i connotati di una ri­bellione alle forme linguistiche e alle sostanze morali e culturali della tradizione e delle convenzioni. Si pensi al contrappunto ironi­co che, nella scrittura gaddiana, viene ad assumere l’uso degli ar­caismi. Oppure all’eufemismo ironico, che nasce dall’applicazione di un lessico alto, perfino tecnico-specialistico, ad oggetti o situa­zioni risibili, e che determina una evidente sproporzione. Così, ad esempio, nella Cognizione del dolore, la puzza emanata dal peone di­venta una «…esibizione olfimica di valerianati, formiati e capri­liti serruchonesi».1 Il risentimento verso le menzogne, le volgarità e tutto l’armamentario retorico del fascismo si struttura in un’esa­sperazione linguistica che assume la veste di una parodia: ed ecco il susseguirsi degli epiteti con cui viene chiamato Mussolini, per deri­derne le presunte qualità eroiche, ma soprattutto erotiche (si veda, ad esempio, Eros e Priapo, ma anche Quer pasticciaccio brutto de via Merulana).

Con ciò, ovviamente, non si vuole definire Gadda “scrittore comi­co”, giacché la comicità è intrinseca al testo, e dunque non è inten­zionale. Lo stesso possiamo dire per Malerba, anche se nel suo caso la comicità, con registri diversi, è più scoperta. Si tratta comun­que di una comicità che ha nella lingua il suo centro, esplicandosi attraverso un capovolgimento dei significati acquisiti del linguag­gio.

a) Ironia o umorismo ?

La principale caratteristica dell’ironia è la sua natura antifra­stica: essa ha due significati, uno letterale e uno derivato, che si innestano su di un unico significante. Di conseguenza non si sta­bilisce alcuna corrispondenza tra quello che viene detto e ciò che si pensa, perché l’intenzione rimane mascherata. Se, come sostiene Beda Alleman, «una delle caratteristiche principali dello stile ironico è di non farsi riconoscere subito per tale»2, ne deriva che l’ironia risulterà tanto più efficace quanto meno un testo sarà disseminato di segnali ironici (quindi, paradossalmente, quanto più rischierà l’in­comprensibilità).

Nella narrativa di Malerba i segnali ironici sono molto sottili, non sempre il carattere antifrastico è scoperto. In Salto mortale c’è un dialogo, però strutturato nella forma di un lungo monologo, tra Giuseppe il demoscatore, che vuole trovare l’assassino, e Giuseppe il macellaio, sospettato dal primo per la sua dimestichezza con il col­tello, che ci pare molto esemplificativo:

Bel mestiere il vostro, signor macellaio. Se non vi piace potete andare via. Bel mestiere ho detto lo dico sul se­rio, deve dare una certa soddisfazione stare tutto il giorno con il coltello in mano.3

È evidente che l’aggettivo “bello”, in tale contesto, ha una connotazione allusiva, maschera ciò che Giuseppe il demoscatore pensa effettivamente. Dunque il carattere ironico dipende molto dal conte­sto e dall’interpretazione, anche se in Salto mortale il comico è frutto di ragionamenti assurdi che determinano una collisione fra i due livelli dell’enunciazione: tra ciò che è detto e ciò che è si­gnificato, improntati su di una valutazione opposta. L’effetto di questa scrittura paradossale, disseminata di tautologie e paralogi­smi, è una comicità implosiva che più che far ridere inquieta.

L’ironia è per sua natura aggressiva, mira a smascherare le appa­renze e le false verità. Demolisce le certezze, svela i difetti na­scosti sotto l’involucro rassicurante delle istituzioni, «…finge allo scopo di distruggere le finzioni…».4 L’aggressività in Maler­ba si risolve molto spesso in dissacrazione, irrisione della tradi­zione agiografica fatta di monumenti che celebrano gli eroi della patria. Ma anche in demistificazione delle convenzio­ni e delle tradizioni letterarie, e, attraverso l’infrazione sintatti­ca e lessicale, dei moduli stilistici consacrati.

Il comico ottenuto trasgredendo all’autorità del linguaggio per­mette di individuare consonanze tra Luigi Malerba e Gianni Celati, i cui primi romanzi sono costruiti con una lingua sconnessa, «…una lin­gua di pure carenze, e lessicali e grammaticali e sintattiche…».5 Già dal titolo, Comiche, l’esordio di Celati si inscrive nel registro del comico, sia pure, a differenza di Malerba, sostenuto da un lin­guaggio gestuale che sembra rifiutare la mediazione della parola. Tuttavia, come in Malerba, l’aggressione non viene condotta in con­trapposizione a un modello positivo di virtù, non si carica di por­tati ideologici e men che meno moralistici. Quella di Comiche, come scrive Angelo Guglielmi, «… è una lingua di gesti (…) struttu­ralmente incapace di indagare sulle ragioni del mondo e di parteci­parne il senso…»,6 una lingua che viene a disordinare la realtà, a incrinarne le certezze.

Come Malerba in Salto mortale non impiega mai la virgola, così Celati nelle Avventure di Guizzardi non usa altro segno di interpun­zione che il punto, in una narrazione fatta di ecolalie demenziali, assonanze, continue intrusioni del discorso diretto in un monologare logorroico. Le clownesche peripezie di Guizzardi sono sottolineate da un lingua che mira «…ad ottenere un’immediata visualizzazione dell’esperienza»7; al contrario, in Malerba la parola domina sempre sull’immagine, e dunque l’evocazione sulla descrizione. La comicità di questo romanzo di Celati è più prossima al registro del grottesco, mentre nel successivo, La banda dei sospiri, il linguaggio corporeo ricorda più da vicino il Malerba del Pataffio, dove si comunica, e addirittu­ra ci si difende a suon di scoregge. Qui Celati adotta un punto di vista letteralmente basso, poiché a narrare è un bambino, chiamato Garibaldi, che osserva e descrive il mondo degli adulti.

In questo libro abbiamo un divertente esempio di derisione della grande tradizione letteraria, sia pure con un linguaggio meno freddo e distaccato di quello malerbiano:

C’era uno di questi poeti che secondo le spiegazioni del maestro era gobbo o zoppo non so, e tanto infelice perché la vita gli sembrava amara. Questo qui aveva un grande a­more per una signorina morta, allora non si dava pace chiedendosi: cos’è la vita? E stava sempre in casa a stu­diare e scrivere poesie. (…) ci ha scritto sopra una poesia così famosa che gli hanno fatto un monumento.(…) Un compagno di scuola ripetente ha voluto dire al maestro che secondo lui quella poesia era tutta sbagliata. (…) Il maestro minacciava di farlo scacciare dalla scuola se non si convince che è una grande poesia inimitabile. Però tutta la scolaresca è insorta a dire: è una cretinata. E alcuni dicevano: abbasso il gobbo. E altri dicevano: a quello lì gli puzzava il fiato.8

L’uso dell’ironia in chiave dissacratoria ci consente di tentare un confronto anche con Achille Campanile, uno scrittore che, sebbene completamente estraneo agli ambiti culturali e ai dibattiti della Neoavanguardia, rivela alcuni tratti in comune con il comico di Malerba. Tuttavia bisogna partire dalla fondamentale premessa che in Campanile il comico ha origine in ambito extralingui­stico, sia pure «… col supporto di inadempienze semantiche».9

La celebrazione di personaggi famosi, di aneddoti proverbiali, di episodi eroici della Storia, è un patrimonio talmente usurato dalle continue citazioni, da richiedere oramai un’irriverente e demitizzan­te rilettura. In questa chiave Malerba nella Storia e la gloria ri­legge le mirabolanti imprese di Alessandro Magno; Campanile, dal canto suo, nelle Vite degli uomini illustri, aveva allargato l’orizzonte a filosofi, condottie­ri, scienziati, scrittori.

Altri bersagli preferiti da entrambi gli scrittori sono il luogo comune letterario e i relativi procedimenti retorici che una tradi­zione consolidata ritiene inviolabili. Ed ecco la rilettura del Saba­to del villaggio di Leopardi10, oppure l’inserimento dell’autore en­tro la diegesi del racconto (vero esempio di metanarrazione e di o­pera aperta), per sottolineare, ad esempio, l’importanza che può ri­vestire l’uso del carattere corsivo, in realtà mettendolo implicita­mente in ridicolo.11

Se, come sostiene Demetrio, il protagonista del Pianeta azzurro, «…scrivere è una malattia molto diffusa…»12, Campanile ce ne aveva dato un gustoso esempio, e tutte le conseguenze:

“Debbo scrivere un romanzo.(…) Datemi la penna; datemi il calamaio; datemi la carta. Aspettate. Mi pareva che a­vessi bisogno di qualche altra cosa, Ah, ecco. Datemi del­le idee.”

Si mise a scrivere, ma subito s’arenò a un passo di diffi­coltà estrema: la descrizione del modo di farsi il nodo della cravatta, che un suo personaggio doveva fare a un altro personaggio…13

Una delle caratteristiche peculiari della prosa di Campanile è la scomposizione dell’unità narrativa attraverso continue digressioni, spesso originate da una dilatazione dei più vieti luoghi comuni. Ma non mancano digressioni costruite per contiguità con una parola, e che sembrano ricordare più da vicino Malerba.

Come in Malerba, infine, anche in Campanile l’effetto ironico spesso è ottenuto sfruttando «…la molteplicità di significati che assume un’espressione, cioè sulle varie possibilità di impiego offer­te dal campo semantico di una parola».14

L’umorismo, inteso come affievolimento della componente aggressi­va, che gradualmente si traduce in simpatia, manca nel registro comi­co di Malerba, dove la forma predominante di distanziamento dall’og­getto del racconto rimane l’ironia. All’interno del procedimento umo­ristico, infatti, il distanziamento contiene anche la realtà emotiva del personaggio, perché – come ha dimostrato Freud15 – l’Io si libera dai traumi della realtà assumendoli narcisisticamente come occasioni di piacere. È quello che fa Svevo nella Coscienza di Zeno, dove l’u­morismo diventa un modo per prendere le distanze e organizzare uno svolgimento alternativo alla sofferenza: il protagonista si estrania da sé e scopre il ridicolo che c’è nella vita che lo circonda. Dunque l’umorismo, rispetto all’ironia, compie un passo ulteriore nei con­fronti dell’oggetto, poiché l’assimila conferendogli una colorazione affettiva: l’umorismo – come scrive Jankélévitch – «…ha un debole per ciò che deride.»16

b) L’ironia mentale

Una forma originale di dissacrazione scaturisce da quella che Ma­ria Corti definisce “ironia mentale”,17 e che genera quella che potremmo chiamare dissacrazione metafisica, poiché investe la specu­lazione filosofica sull’anima.

Il protagonista del Serpente trovandosi sul lido di Ostia, si chiede se è possibile che quegli uomini nudi abbiano un’anima; la pa­gina risulta esilarante inserita com’è in un capitolo che reca il ti­tolo: “Se dentro di noi c’è l’anima è chiaro che quest’anima dovrà prevalere come dice la Bibbia”.

Ha l’Anima tutta questa gente? mi domandavo. Me lo domando ancora oggi. Visti così da fuori, tutti quegli uomini nudi quelle donne nude sembravano dei vermi, io compreso. Pos­sibile che tutti questi vermi abbiano un’Anima a testa? mi domandavo. E se hanno un’Anima a testa e se è vero che l’Anima segue il corpo, possibile che tutte queste Anime sopportino di stare sulla spiaggia di Ostia a rotolarsi sulla sabbia, a galleggiare sull’acqua ?18

Anche il narratore di Salto mortale, dialogando con il macellaio, s’interroga sull’anima, quasi riprendendo il ragionamento del prota­gonista del Serpente, circa la localizzazione dell’anima:

Ma che discorsi facciamo, di che cosa stiamo parlando, signor macellaio? E lui diceva personalmente
IO L’ANIMA NON ME LA SENTO
cioè mi sembra di non averci dentro niente.(…) Ma voi privatamente, diceva, che pensiero avete? Cioè ve la sen­tite dentro quest’anima oppure non sentite niente? Qualco­sa sento, dicevo, uno strano ronzio, deve essere l’anima sicuramente.19

Ma la speculazione metafisica raggiunge il suo vertice nel Piane­ta azzurro, dove l’ironia cessa di essere un gioco verbale per diven­tare un’idea della vita, in una vicenda che finisce per ridurre tutti i personaggi a fantasmi, e l’azione narrativa ad una serie di fatti mancati. Il protagonista principale, l’ingegnere idraulico Demetrio, dirigente di una improbabile Società di Alto Vuoto, sta lavorando all’invenzione di una pompa per creare il vuoto assoluto, tentando di saldare le teorie della fisica quantistica e i concetti della filoso­fia neoplatonica. In una delle sue solitarie divagazioni (al limite del delirio), ragionando sulla Porta del Paradiso incisa da Lorenzo Ghiberti nel Battistero di Firenze, decide di bussare alla Porta medesima per chiedere di entrare:

Per piacere mi fate entrare? (…) La Porta rimane chiusa, l’Angelo Portiere fa finta di non sentire. […] Forse l’Angelo Portiere si è offeso perché mi sono rivolto di­rettamente al Padre Eterno, si è sentito scavalcato, sono burocrati vanitosi anche gli angeli (…) Sono un ingegne­re idraulico, dico, mi occupo del Vuoto, forse posso es­servi utile in qualche modo, perché non mi fate entrare? Avete provato a mettere qualche anima sottovuoto? Serve per la lunga conservazione. Altrimenti l’eternità la cor­rode.20

La valenza ironica di questa approssimativa meditazione teologica non lascia certo spazi al dubbio. Del resto, quando Demetrio, nella Biblioteca Comunale, cerca nella filosofia di Plotino una giustifica­zione etica all’odio che vorrebbe, anzi dovrebbe, spingerlo a ucci­dere un misterioso Professore, entriamo decisamente nell’ambito del ridicolo, allorché le sue riflessioni vengono intervallate da consi­derazioni di questo tono:

Queste zanzare arrivano verso sera insieme alle falene at­tirate dalle lampadine accese. Qualcuna cade a terra con le ali bruciate, altre mi girano intorno perché hanno de­ciso di succhiare il mio sangue. Non è facile seguire il filo del pensiero in queste condizioni, vorrei vederlo Platone andare alla ricerca del concetto universale mentre gli succhiano il sangue le zanzare.21

c) Il grottesco

Il grottesco è una forma di comicità legata alla deformazione ed esasperazione dei dati reali. Esso travalica completamente i confini della realtà, oltrepassa i limiti di un mondo concretamente possibi­le, per penetrare nell’ambito del fantastico.

Bachtin lega il grottesco alla materialità e alla corporalità, poiché, nell’immaginario della cultura popolare del Medioevo, esso era percepito come distacco dall’isolamento e confinamento dell’uomo in se stesso e nelle radici materiali e corporali del mondo. In tale contesto l’esagerazione assumeva un carattere positivo di affermazio­ne di tutto il popolo. Nell’immagine grottesca del corpo il ruolo più importante è affidato «…a quelle sue parti e luoghi dove esso va oltre se stesso, esce dai limiti prestabiliti (…) il ventre e il fallo (…) diventano l’oggetto prediletto di un’esagerazione positi­va, di un’iperbolizzazione.»22

Muovendo da tali premesse, possiamo senz’altro includere nel re­gistro del grottesco Il protagonista, un romanzo che ha per voce nar­rante un fallo dalle dimensioni e dalle capacità spropositate. Esso non solo supera il confinamento nei limiti dell’umano, ma addirittura annulla la figura umana (nel nostro caso un radioamatore, chiamato il Capoccia), accampandosi come unico ed assoluto protagonista, par­lante ed agente.

Romanzo carnalista, secondo la definizione di Guido Almansi, che «…ignora la psicologia, e affronta il problema antropologicamente, quindi secondo una dimensione mitica .»23 Ed eccolo misurare le pro­prie capacità sfidando obelischi e campanili, oppure innamorarsi di una balena imbalsamata e cercare di farci l’amore, o ancora tentare di penetrare il cavallo bronzeo del monumento a Garibaldi.

Le avventure toccano dimensioni veramente straordinarie nell’e­pisodio della grande semina, ovvero quando per vendicarsi di essere stato abbandonato da Elisabella, la protagonista femminile, il Capoc­cia comincia a sedurre tutte le donne che incontra nei dintorni di Orvieto, la città di Elisabella.

Tratto costitutivo indispensabile dell’immagine grottesca è, i­noltre, l’abbassamento, ovvero lo spostamento di tutto ciò che è al­to e spirituale, su di un piano materiale e corporeo.

Dostoevskij studia l’animo umano e scopre tutti i suoi segreti, ma trascura il corpo umano. Sbaglia. C’è qualcosa che viene fuori non dalle profondità dell’anima ma da quelle del corpo…24

Tale procedimento investe anche il linguaggio che si carica di imprecazioni e maledizioni.25 Il linguaggio osceno e corporale permea interamente Il pataffio, romanzo che già nel titolo – secondo la lettura etimologica di Walter Pedullà – insinua un legame con epitaf­fio, «…quindi con la morte, ma una morte sconcia, degradata, ridi­cola, efferata e putrida.»26

Sesso e fame, amore e morte sono le due pulsioni opposte che at­traversano l’intero romanzo e strutturano l’azione, in un Medioevo dominato dalla puzza e dagli escrementi che si riversa anche nelle parole. Si pensi al nome con cui i contadini chiamano il canale che percorre il feudo di Tripalle: “Rio Cagone, o puramente Rio de la Merda”27, e che ricalca il fiume di un racconto della Scoperta dell’alfabeto, il Rio Merdoso in cui scorre “un’acqua color merdastro”28.

Attraverso una dilatazione, il linguaggio viene liberato dalle troppo rigide connotazioni e ancorato a una dimensione corporea. I personaggi si insultano ricorrendo ad un linguaggio stravolto, per­corso da una corrente sarcastica, in cui le «…contaminazioni ludi­che mandano in corto circuito il sistema morfematico…».29 La funzione liberatoria del linguaggio osceno dalle costrizioni del potere, risalta anche dagli ordinamenti che i contadini vogliono stabilire per un futuro governo democratico di Tripalle:

La biastuma è permessa quanno quarcuno è incazzato pe’ bo­ne raggioni.
[…] Che tutti possono manda’ affanculo tutti in segno de lib­bertà totale.
Libbertà a li omini e anco a le donne de scopa’ quanno e come je pare e piace.30

Lo stile del grottesco esige che la descrizione venga fatta col fine di scomporre liberamente gli elementi della realtà, affinché «…i consueti rapporti e legami (psicologici e logici) in questo mondo costruito ex novo risultino irreali, e ogni inezia possa cre­scere a proporzioni colossali.»31 Il pataffio dissacra le strutture logiche e antropologiche, come nell’episodio in cui il marconte Berlocchio ha un amplesso con un’a­sina trovata per caso mentre, col suo armigero Ulfredo, stava cercan­do qualcosa per placare una fame che oramai si protraeva da lungo tempo. Una scena stomachevole che però si ribalta in ridicolo, grazie al paradosso che la caratterizza: il marconte, infatti, si innamora dell’asina e ordina che nessuno si provi a toccarla, con ciò esclu­dendo ogni ipotesi di impiegarla per sfamarsi, come invece sperava Ulfredo.

Ma il grottesco facilmente vira al macabro, perché, come sostiene Propp, se esso è comico quando oscura il principio spirituale, «…diventa terribile quando questo principio spirituale dell’uomo si annulla.»32 Nelle opere di Malerba il macabro entra nel testo senza violenza, con la parvenza di un’assoluta spontaneità e distacco dall’emotività del narratore:

Ognitanto qualcuno si dimentica di frenare. Se arriva un’altra macchina che anche lei si è dimenticata, allora si scontrano con grande fracasso di lamiere. La gente cor­re. Quasi sempre i guidatori scendono e si mettono a gri­dare. Se non scendono è segno che sono morti o si sono fatti molto male. Un giorno un tale è rimasto decapitato, un commerciante di pellami romano che correva all’impazza­ta.33

L’esempio ci permette di notare come nella narrazione non vi sia alcuna volontà di suscitare una reazione emotiva immediata, ma essa semplicemente procede ad un allineamento oggettivo di eventi, descrit­ti con fredda minuzia di particolari. Il soggetto è un narratore ci­nico che riesce a conservare un alone di comicità usando una lingua che determina uno iato tra uno stile narrativo flemmatico e la na­tura spaventosa delle cose descritte.

Nelle strade la gente camminava con la testa bassa, la barba lunga e pelli di animali selvaggi al posto dei ve­stiti. Stormi di cornacchie volavano sopra la città e a­spettavano che morisse qualcuno per gettarsi sul suo cada­vere, così i parenti erano liberati anche dalla fatica di dargli sepoltura.34

Quest’ultima citazione è parte di un racconto narrato dal vecchio Davide, il quale leggeva ai contadini, dietro pagamento, storie anti­che che spesso però s’inventava. Conoscendo tale premessa, il lettore più che dall’orrore del brano appena citato, è preso dal dubbio cir­ca la sua effettiva consistenza. È il gioco di cui parla Jankélévitch e in virtù del quale il mistificatore e la sua vittima, che «…sono uno di fronte all’altro nell’ironia semplice, diventano un unico personaggio nel cinico.» 35

d) Tra satira e parodia

Nella satira l’elemento caricaturale non raggiunge i caratteri iperbolici del grottesco, ma si colora di una venatura moralistica, con cui si mette a nudo un modello di conoscenza o un comportamento. Malerba supera la satira come genere, perché nei suoi personaggi non c’è giudizio morale; egli non insegna né condanna. La sua scrittura mira piuttosto a far esplodere le incongruenze della quotidianità, e allora il riso nasce da una scoperta improvvisa e inaspettata che smaschera un’apparenza.

La satira sconfina, così, in quella dissociazione comica tra for­ma e sostanza, che è una delle basi della parodia. Essa tende a dimo­strare che dietro le forme esteriori di un principio non c’è nulla: imitando le caratteristiche esteriori di un fenomeno, ne mette a nudo l’inconsistenza interiore. La parodia distrugge l’errore approvando­lo, dunque se ne fa temporaneamente complice per poi volgerlo al ri­dicolo.

I personaggi dei racconti di Dopo il pescecane sfuggono al ri­schio di ridursi a semplice caricatura, perché l’autore si sforza di identificarsi con essi, narrando in prima persona.

Abbiamo parlato non a caso di sforzo giacché, nella nota intro­duttiva, l’autore precisa di non poter utilizzare questo artificio retorico nel racconto Il favoloso Andersen: trovando ripugnante il personaggio con cui si sarebbe dovuto identificare, ne prende, lette­ralmente, le distanze scrivendo in terza persona.

Molto spesso i personaggi malerbiani sono dei mentitori che si muovono all’interno di trame che si smentiscono continuamente: al punto che un intero romanzo può diventare parodia dei modi stessi del narrare. È quello che succede in Salto mortale, nella cui pagina conclusiva viene messa in dubbio l’autonomia del personaggio, cancel­lando come una finzione la storia, che forse potrebbe ricominciare:

Io intanto mi incammino lentamente sul prato (…) Sono già sulla strada e cammino libero e solitario come non so più come si chiama. Mi volto a guardare tutta quella gente sul prato, forse forse tutto ricomincia da capo. E invece secondo me questa è proprio

LA FINE.36

Romanzo parodistico per eccellenza, secondo la lettura di Viktor Sklovskij37, è il Tristram Shandy di Sterne: lì il narratore inter­rompe continuamente la vicenda, per inserire considerazioni su come il romanzo è costruito; chiama in causa il lettore per coinvolgerlo in una paradossale opera di distanziamento.

Se, come sostiene la Olbrechts-Tyteca, la parodia «…tende spesso a dar l’impressione che una materia nuova sia colata in un stampo antico …»38, in questa chiave possiamo leggere Il pataffio, la cui struttura si fonda su precise fonti letterarie e culturali, che il contenuto però frantuma. Il romanzo, infatti, è una parodia della società e della letteratura del Medioevo. I tre linguaggi con cui è costruito corrispondono alle tre aree sociali dell’epoca: il potere feudale, quello ecclesiastico e il mondo contadino.

D’altra parte, il continuo riferimento alle imprese del valoroso Tristano, che Bernarda contrappone ai fallimenti dell’incapace marito (in specie lamentando la mancanza di cibo e sesso), ci indica con precisione la coordinata letteraria di riferimento:

“Me viene il sospetto più tosto che tu magni secretamente”.

“Questo sospetto infame desonora te medesimo! Il cavallie­ro Tristano terrebbe altri modi inverso una dama onorata”.

“Male facesti a nominare il cavalliero Tristano”.

“Il cavalliero Tristano me soddisferebbe de ogni sorta de fame”.39

Ma il romanzo è soprattutto parodia del potere come istituzione, attraverso un’aggressione dell’ottusità autoritaria di cui viene de­nunciata l’insensatezza :

“Che se sveglino subbito tutte le sentinelle e le guardie sguizzere, che se raccolgano e se destribuiscano le armi, che se sellino i cavalli !”

“I cavalli vossignoria ricorderà che ce furono arrubbati durante il viaggio de venuta.”

“Che non se descutano li ordini miei !” 40

In un enorme parodia dell’incomprensibilità del potere si risol­ve, in definitiva, anche Le rose imperiali, romanzo in cui ogni epi­sodio si chiude con la decapitazione di qualcuno dei sudditi. Ma il vero decapitato è l’imperatore Che Huang-ti, costretto ad obbedire lui per primo all’assurdo cerimoniale che dovrebbe proteggerlo, e che invece lo trasforma in un prigioniero del suo stesso impero. Un ro­manzo che sembra obbedire alla teoria di Bachtin, secondo la quale la parodizzazione «…è la creazione di un sosia scoronizzante, è sem­pre mondo alla rovescia…»41.

Ma si può trasformare in parodia anche quella particolare forma di potere che è l’erotismo, la seduzione della donna da parte di un uomo che vuole mostrarsi esperto amatore:

Andiamo di là, dissi a Miriam e Miriam mi seguì senza bat­tere ciglio, come si suol dire. Avrei voluto che comin­ciasse prima lei a spogliarsi, invece incomincio prima io levandomi la cravatta. Miriam si tolse il fazzoletto che portava intorno al collo e si mise a sedere sul letto, sulla branda. Io il golf, Miriam una scarpa. Io una scar­pa, Miriam l’altra scarpa. Io la camicia, Miriam il golf. Io l’altra scarpa, Miriam la gonna e così rimase in sotto­veste. Io tutte e due le calze, Miriam tutte e due le cal­ze e così rimase a piedi nudi. Tolta la sottoveste aveva ancora il reggipetto ma poi si levò anche quello. Final­mente eravamo nudi tutti e due come due vermi.42

Io non so mai da dove incominciare. Prima le scarpe? Oppu­re la camicia? Le calze? I pantaloni? Il gesto peggiore lo trovo quello di slacciare la cintura, un momento vergogno­so, senza possibilità di riscatto. Come fanno i grandi se­duttori? Nessuno parla, non sta scritto in nessun libro come si deve spogliare un uomo. Non ne hanno parlato mai nemmeno i romanzieri che hanno scritto i grandi romanzi d’amore.43

Quest’ultimo esempio irride anche ad un certo tipo di letteratu­ra. La parodia, infatti, risulta particolarmente efficace quando si vuole deridere lo stile di uno scrittore e, insieme, la corrente e­stetica a cui si lega.

In tale direzione, nelle Rose imperiali, ci pare vada letta la disputa tra gli artisti dal fiato lungo e quelli dal fiato corto, e­sponenti dell’Arte delle Bolle di Sapone, nella Cina feudale:

Gli artisti dal fiato lungo accusarono gli avversari di decadentismo. Quelli dal fiato corto a loro volta taccia­rono gli altri di accademismo, finché i più intemperanti scesero agli insulti personali e si accapigliarono per le strade della capitale.44

Il confine tra satira e parodia talvolta si fa labile, Malerba però si sottrae al rischio del giudizio morale diretto, e dunque del dileggio satirico, grazie all’uso del tempo presente e della prima persona, che impedisce all’autore di elevarsi al di sopra del perso­naggio.

e) L’assurdo

È evidente che l’assurdo non è una categoria comica, ma a noi qui interessa dimostrare come molti degli effetti comici delle opere di Malerba siano provocati dalla contiguità di concetti tra loro op­posti, che fanno risaltare la dissonanza dei processi logici del pen­siero. L’assurdo come trasgressione al pensare normale, affiorando in un testo comico, non esprime un assunto filosofico ma piuttosto una disposizione ludica, e in definitiva una forma di comicità indiretta. Si tratta di una forma estrema di comico, in cui derisione e scherzo attestano una disillusa freddezza nei confronti di una realtà percepita come priva di senso.

È una comicità fredda, cerebrale, che nasce da un’operazione linguistica che, forzando le parole sino a condurle nel loro signifi­cato opposto, ne fa esplodere le contraddizioni interne e consente così alla scrittura di penetrare nelle zone meno scoperte del reale. La figura retorica in tal senso più produttiva è la catacresi, che finisce per determinare degli accostamenti paradossali e inquietanti:

Se vogliamo
TUTTI GLI UOMINI SI ASSOMIGLIANO,
i morti specialmente fra loro ma anche un vivo e un morto, purché sia morto da poco. Anche un uomo e una donna si as­somigliano, hanno le gambe le braccia la testa (…) Un tavolo non ha la testa e la coda però ha le gambe anche lui come noi, non scherziamo.45

Ma in generale è la metafora a subire continui stravolgimenti del campo semantico. Può accadere, come nel racconto Dopo il pescecane, che il protagonista, invertendo l’ordine tra senso proprio e senso figurato, invece di andare a “caccia” di pescecani, vada a caccia di architetti. Infatti nella sua attività professionale egli odia gli architetti chiamati pescecani, con evidente connotazione dispre­giativa, per sottolinearne la voracità di speculatori, e mentre tratta con loro di affari è preso dal forte istinto di ammazzarli. Allora basta riportare un concetto dal senso traslato a quello lette­rale e il problema è risolto:

Da quel giorno ogni anno faccio spedizioni in Sardegna, nel Mar Rosso, nel Golfo Persico e sono arrivato perfino nel mare di Haiti dove gli architetti sono fitti come sar­dine. Ammazzo una ventina di architetti all’anno (…) Na­turalmente in ufficio tengo sempre la pistola nel casset­to, ma non mi è più successo di voler sparare addosso ai pescecani che vengono a propormi i loro progetti.46

Spesso questa comicità paradossale nasce dalla pretesa logicità di un ragionamento che entra in contraddizione con le convenzioni i­deologiche e sociali che fondano il reale e ne rivelano l’assurdità. Così nel racconto Il marito femminista, questi si vanta, con i suoi colleghi, di concedere alla moglie tutta la libertà che essa deside­ra, secondo una propria logica che però sconfina nel ridicolo:

Lavare i piatti, scopare i pavimenti, spolverare i mobili, cucinare, sono lavori che umiliano l’uomo e lo avvilisco­no. Il femminismo non vuole l’umiliazione dell’uomo, ma la giusta valutazione della donna e del suo lavoro e perciò prima di tutto non bisogna invadere il suo campo, che è la casa nel senso più nobile della parola. Questa è la mia teoria.47

Il comico, allora, nasce dall’attrito tra il mondo dei “fatti” e quello in cui i fatti sono subordinati alle parole che li de­scrivono:

E allora, mi domandavo, potrà volare un ex commerciante di francobolli? Oppure l’avere commerciato francobolli sarà un impedimento per tutta la vita?48

[ Articolo già apparso sulla rivista Forum Italicum, New York, n. 1, 2000 ]

Note

1C. E. Gadda, La cognizione del dolore, Torino, Einaudi, 1970, p. 169

2 B. Alleman, Ironia e poesia, trad. it. di G. Voghera, Milano, Mursia, 1971, p. 11

3Salto mortale, Milano, Bompiani, 1968; Torino, Einaudi, 1985, p. 30 (Si cita da quest’ultima edizione).

4 V. Jankélévitch, L’ironia, trad. it. di F. Canepa, Genova, Il Melangolo, 1987, p. 75

5 L. Vetri, Gianni Celati. Il “romanzo-comica” tra racconto ar­tificiale e racconto comune, in Letteratura e caos. Poetiche della “Neoavanguardia” italiana degli anni Sessanta, Milano, Mursia, 1992, p. 198

6 A. Guglielmi, Il comico come discorso politico, in La lette­ratura del risparmio, Milano, Bompiani, 1973, p. 51

7 G. Almansi, Il letamaio di Babele, in La ragion comica, Mila­no, Feltrinelli, 1986, p. 55

8 G. Celati, La banda dei sospiri, Torino, Einaudi, 1976, pp. 54-55

9 P. Luxardo Franchi, Campanile, o dell’inadempienza semantica, in L’altra faccia degli anni Trenta, Padova, Cleup, 1991, p. 68

10 «Volevo dire che, secondo lui, il più bel giorno della set­timana non è la domenica, ma il sabato, perché precede la domeni­ca; mentre la domenica si è tristi, pensando al lunedì. Ma ormai tutti hanno letto l’immortale canto, epperò il venerdì sera dico­no: “Che gioia, domani è sabato, il più bel giorno della settima­na!” (…) invece che Il sabato Leopardi avrebbe fatto meglio a scrivere Il venerdì, o addirittura Il giovedì del villaggio, se si pensa che il giovedì, precedendo il più bel giorno della set­timana, viene ad essere esso stesso il più bello, sempre per quella teoria che la vigilia d’un lieto giorno è più bella che il lieto giorno medesimo. (…) Leopardi avrebbe fatto bene a scri­vere addirittura La settimana del villaggio.» Cfr. A. Campanile, In campagna è un’altra cosa, in Opere. Romanzi e racconti. 1924-1933, a cura di O. del Buono, Milano, Bompiani, 1989, pp. 969-970.

11 «( Notate l’efficacia del carattere corsivo nei romanzi: esso dà a una frase semplice in apparenza, un che di misterioso e in certi casi procura, a chi legge, un leggero brivido. Perché? Chi sa. (…) Egli scorse nell’angolo il meticcio. Che c’è in questa frase? Niente. Eppure, quel corsivo quando uno meno se l’aspetta dà al meticcio qualche cosa di misterioso e di spaven­toso…».) Cfr. A. Campanile, Giovinotti, non esageriamo!, in op. cit., p. 442

12 Il pianeta azzurro, Milano, Garzanti, 1986, p. 156

13 A. Campanile, Se la luna mi porta fortuna, in op. cit., p. 326

14 G. Calendoli, Achille Campanile, in G. Grana (a cura di), Letteratura i­taliana. 900, vol. V, Milano, Marzorati, 1979, p. 4432

15 Cfr. S. Freud, L’umorismo, in Opere, vol. X (1924-1929), a cu­ra di C. L. Musatti, Torino, Boringhieri, 1978, pp. 503-508

16V. Jankélévitch, op. cit., p. 135

17 Cfr. M. Corti, Luigi Malerba: una scommessa con il reale, in ««Autografo»», n. 13, 1988, p. 13

18 Il serpente, Milano, Bompiani, 1966; Milano, Mondadori, 1989, p. 80. (Si cita da quest’ultima edizione.)

19 Salto mortale, p. 34

20 Il pianeta azzurro, pp. 47-48

21 Ivi, p. 129

22 M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, trad. it. di M. Romano, Torino, Einaudi, 1976, p. 347

23 G. Almansi, Il silenzio rumoroso, in op. cit., p. 102

24 Il pianeta azzurro, p. 55

25 Nella parte in cui parla del linguaggio del carnevale, Ba­chtin affronta anche il tema delle imprecazioni, sottolineando come esse si caratterizzino per l’uso «…di parole ed espres­sioni ingiuriose, a volte assai lunghe e complicate. (…) inter­pretate come formule fisse del tipo dei proverbi. (…) sono un genere verbale particolare del linguaggio familiare di piazza.» Cfr. M. Bachtin, op. cit., p. 21

26 W. Pedullà, La ‘nuova povertà’ di Malerba, in Miti, finzio­ni e buone maniere di fine millennio, Milano, Rusconi, 1983, p. 296

27 Il pataffio, Milano, Bompiani, 1978; Torino, Einaudi, 1985, p. 90. (Si cita da quest’ultima edizione.)

28 La scoperta dell’alfabeto, Milano, Bompiani, 1963; Milano, Mondadori, 1990, p. 155. (Si cita da quest’ultima edizione.)

29 R. Ballerini, Malerba e la topografia del vuoto, Chieti, Vec­chio Faggio Editore, 1988, p. 37

30 Il pataffio, p. 158

31 B. Ejchenbaum, Come è fatto “Il cappotto” di Gogol’, in AA. VV., I formalisti russi, a cura di T. Todorov, Torino, Einaudi, 1976, p. 269

32 Cfr. V. Propp, Comicità e riso. Letteratura e vita quotidia­na, trad. it. di G. Gandolfo, Torino, Einaudi, 1988, p. 81

33 Il protagonista, p. 45

34 La scoperta dell’alfabeto, p. 143

35 V. Jankélévitch, op. cit., p. 87

36 Salto mortale, p. 188

37 Cfr. V. Sklovskij, Il romanzo parodistico. “Tristram Shandy”, in Teoria della prosa, trad. it. di C. G. de Michelis, Torino, Einaudi, 1976, pp. 209-243

38 L. Olbrechts-Tyteca, Il comico del discorso. Un contributo alla teoria generale del riso, trad. it. di A. Serra, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 129

39 Il pataffio, p. 65

40 Ivi, p. 140

41 M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, trad. it. di G. Garitano, Torino, Einaudi, 1968, p. 166

42 Il serpente, p. 65

43 Il pianeta azzurro, p. 78

44 Le rose imperiali, Milano, Bompiani, 1974, p. 22

45 Salto mortale, p. 125. Se nell’ironia il senso letterale viene invertito, sono necessari dei parametri metacomunicativi per consentire al locutore di trasmettere la sequenza ironica e al ricevente di comprenderla. Secondo Marina Mizzau, possono essere indi­catori i segni di interpunzione (le virgolette, i puntini di so­spensione, il punto esclamativo), ma anche l’iperbole, oppure l’iterazione. Malerba usa spesso, soprattutto in chiusura di fra­se, espressioni iterative, come ad esempio “per piacere”, oppure “non scherziamo”, come nel caso appena citato. cfr. M. Mizzau, L’ironia. La contraddizione consenti­ta, Milano, Feltrinelli, 1984, pp. 22-23

46 Dopo il pescecane, Milano, Bompiani, 1979, p. 13

47Il marito femminista, ivi, p. 59

48 Il serpente, p. 74