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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 09

 settembre 2014

Testi

Giuseppe Zucca

Eustorgio o della santità

 

[ Il racconto è tratto dalla raccolta di Giuseppe Zucca, L’uovo dell’amazzone, che apre nel 1926 la serie del Fauno giallo dedicata all’umorismo. I disegni sono di Amerigo Bartoli (Terni, 1890 – Roma, 1971) pittore e caricaturista molto conosciuto. Maggiori informazioni su Amerigo Bartoli ai seguenti link:
http://www.treccani.it/enciclopedia/amerigo-bartoli-natinguerra_(Dizionario-Biografico)/ 
http://www.scuolaromana.it/artisti/bartoli.htm
]

Finalmente Eustorgio capì qual era il suo destino. Lo capì un po’ tardi: e cioè dopo aver fatto, senza successo, l’attore drammatico, il commesso viaggiatore, l’amministratore di una piccola azienda agricola, il semplicista, l’arruolatore di emigranti, l’impiegato di banca, il correttore di bozze. Ma finalmente lo capì.

Capì che il suo destino era quello indicatogli chiaramente dal suo nome. Tardi, ma sempre in tempo, anzi forse al più giusto tempo (era ormai sui quaratacinque, ma un poì stanco, piuttosto smunto, con un’aria assente e dolente di disilluso che cerca (chissà dove! chissà dove!) il porto della sua pace, e soprattutto con una barbetta magra, tra grigia e biondastra, non priva di ascetici spiriti, intese, Eustorgio, che chiamandosi Eustorgio, la sua via vera, l’unica sua via, era quella della santità.

Bisogna dire che l’idea aveva cominciato a muoverglisi per cervello dai primi giorni ch’era entrato correttore di bozze in una grande tipografia di cose ecclesiastiche. La sua natura curiosa gli impediva di distrarsi al punto di rendere il suo lavoro meccanismo bruto. Il latino non lo sapeva e non lo capiva: correggeva, leggendo mentalmente così come vedeva scritto: terräe, leggeva il nominativo plurale di terra. Ma l’italiano lo seguiva e ci s’interessava. E a forza di leggere e rileggere filotee, esercizi, panegirici, dissertazioni, imitazioni, omelie, vite di martiri, vite di santi e altri infiniti libri del genere, lui che aveva fatto quasi tutti i mestieri (non esclusi i più profani) cominciò a vedersi, se stesso, effigiato con la sua propria barba e con la sua lunga figura come in uno dei tanti quadroni a grosse cornici dorate che, andando in cerca di contadini da ingaggiare per l’America, aveva tante volte veduti per le sacrestie dei paesi, odoranti di cera strutta e di umidità: aperti in attitudini d’estasi su sfondi ottenebrati e problematici, con tanto di aureola librata sul vertice del cranio sgombro di capelli come di pensieri terreni.

Quella immagine di se stesso così camuffato finì per piacergli infinitamente e per persuaderlo. Un passo di un quaresimale di padre Segneri, oh non davvero peregrino, ma giunto in tempo per fissare in modo definitivo talune sue resistenti incertezze, lo decise. Il passo diceva:«Certamente fûr pochissimi que’ santi che nacquer santi: nella legge vecchia, un Geremia; nella nuova, un San Giovanni. La maggior parte degli altri non nacquero santi: ma doventarono».

Dunque? Perché non provare?

Dopo tanta vita in affanno, gli sorrideva con infinite seduzioni la visione di una vita contemplativa in assoluta quiete: dopo tante umiliazioni, il pensiero che della gente, tanta gente, lo adorasse, venisse a baciargli le mani, gli faceva gola. Si rese conto che, per male che andasse, il mestiere di santo (tra martiri, beati e santi, ne aveva lette e rilette le vite a centinaia e centinaia, li conosceva ormai tutti, uno per uno, come vecchi amici di casa, come compagni di banco a scuola), si rese conto che il mestiere di santo, dopo una prima affermazione riuscita, offriva, in questi tempi difficili, difficoltà senza confronto più poche e minori che qualsiasi altro mestiere.

Persuaso di questo, non cercò neppure di appurare se già ci fosse, in passato – com’era assai probabile – un santo del suo nome, e che tipo e che fama eventualmente avesse, nel timore di ritrovarsi tra i piedi, come già nei precedenti mestieri, qualche concorrente che lo svogliasse dal mettersi in nuove gare e in nuovi fastidi. Si scelse con cura il suo santo patrono al quale attribuire, in principio – poi avrebbe fatto da sé – il merito della conversione e la ispirazione delle grandi parole e dei fatti prodigiosi: scavando nel Cavalca, s’era tirato fuori San Maccario Eremita. Gli era piaciuta quella gran barba di neve «da cui tutto era coperto come l’uccello delle penne» e la compagnia di due leoni mansi come due cuccioletti, che si prestavano ottimamente a drammatizzare in senso pittoresco le sue prossime visioni.

E un giorno, all’improvviso, disse trasognate parole di congedo al direttore, al proto, ai compagni di lavoro, affermò di aver udito voci arcane che lo chiamavano altrove, predisse che si sarebbero riveduti, un giorno, in un luogo di eterna beatitudine, rifiutò la paga dell’ultima settimana, chiese soltanto un pezzo di pane che accolse in ginocchioni dalle luridissime mani – Eustorgio le baciò – del ragazzo di tipografia: un tenero e precoce ceffo di galera. E partì.

Partì per il suo paese natale (che non nomino per ovvie ragioni): un paesotto della Calabria montana e selvosa, buttato fra i dirupi e i torrenti, serrato dai negri boschi di querce fin addosso alle case.

Ci arrivò una sera di gran vento: un crepuscolo torvo, pieno di baleni e di lugubri brividi. A piedi, con le dita che gli sanguinavano tra le croste della polvere, fuori dalle scarpe.

Si fermò alla prima casa. Disse:«Io sono Eustorgio». Nessuno si rammentava di lui. Chiese per carità un pugno di ghiande per sfamarsi.

Perché Maccario Eremita, «nella sua spilonca in terra d’Oriente», non si nutriva d’altro che di ghiande, e lui, Eustorgio, intendeva fare altrettanto.

Almeno per ora.

La sistemazione di Eustorgio fu rapida e felice. Lì, appena fuori del paese, a un cento metri dalle prime case, affacciate un po’ alte sulla provinciale, c’era una fila di piccole grotte aperte nella parete del macigno quasi a picco. Alcuni dicevano, antichissime tombe. Certo erano recenti porcili sgombrati dai porci perché difficili da custodire: la notte, chiunque passava poteva portarsi via gli inquilini puliti puliti: come infatti era successo.

Nella più capace di quelle grotticelle, appunto, il candidato alla santità si accomodò alla meglio. Era abbastanza arieggiata e asciuttissima: poteva anche starci ritto in piedi, quando voleva, senza urtare la testa nel soffitto. A pochi passi di lì scaturiva dalla roccia un piscioletto di acqua freschissima. Il brigadiere dei carabinieri lo interrogò brevemente: in paese già molti si ricordavano di lui e di suo padre: gli pareva un mattoide innocuo. Il curato venne a vederlo: lo interrogò con sospettosa cautela, non gli piacque del tutto. Comunque, fu lasciato in pace a masticar ghiande e preghiere nel suo porcile.

Ma la dieta che fa ingrassare i porci, fa, evidentemente, dimagrare gli uomini. Di lì a poche settimane Eustorgio aveva un perfetto fisico di ruolo per la parte che s’era assunto di rappresentare. All’apparire della sua allampanata figura sull’apertura della grotta, la ragazzaglia del paese non faceva più la fantasia d’allegrezza con lancio di proiettili tolti ai diversi regni della natura, persuasi a una maggiore serietà da procellosi stormi di scapaccioni paterni. Il rigore dei padri, come sempre accade, era stato sollecitato ed eccitato dalla pietà delle madri. Perché non c’è amici migliori e più fedeli clienti, pei santi, delle donne: sempre che il Demonio non riesca a cacciarsi nelle carni di qualcuna per indurre i santi in tentazione. Ma questo, per fortuna, a Eustorgio non avvenne, anche perché Eustorgio era veramente molto brutto.

La politica di lui fu, in verità, avveduta e sottile. Cominciò col non parlare che di San Maccario Eremita e della gloria sua splendentissima, asserendo, per quanto senza l’appoggio di testimonianze serie, che San Maccario era oriundo di lì, nato da gente del paese. E un giorno finalmente prese a scolpire con un coltelluccio in un grosso ceppo di durissima quercia l’immagine del Santo con la sua barba torrenziale e la mansueta guardia dei due leoni. Un mostro di bruttezza. Ma il paese andò in estasi: mentre il parroco montava in furore.

Però, il giorno che dal pulpito tuonò apertis verbis contro il ciarlatano miscredente che osava contrapporre fantocci diabolici alle venerande immagini della Chiesa, le donne gli vuotarono la chiesa in segno di protesta.

L’indomani Eustorgio ebbe una lunga estasi durante la quale la gente, ammassata senza fiato all’ingresso della grotta, lo udì parlare e cantare con gli angeli e contrastare aspramente col Nemico. La sera stessa giungeva da un paese lì vicino una donnetta piangente con un figlio in collo che batteva i denti dalla febbre e che gli si buttò in ginocchio davanti urlando che glielo guarisse, perché un altro gli era morto due mesi prima e lei non aveva più che quello lì. E gli baciava, tra i singhiozzi , i sudicissimi piedi.

Eustorgio da prima sbigottì. Poi se la cavò. Fu un santo vero di umiltà e di pietà. Disse, con voce perduta, che lui era un gran peccatore, che lui non sapeva che pregare e che i miracoli li faceva il Signore. Ma la madre, esasperata, gli afferrò una mano, torcendogliela da spezzarla, e la impose, a forza, sulla testa del piccolo che sberciava di paura. Eustorgio piombò a terra, bocconi, supplicando la divina Bontà di perdonargli quell’atto, per quanto involontario, di diabolica superbia e seguitò a flagellarsi cantando le lodi del Signore e invocando la potente intercessione di San Maccario per tutta la notte, fino all’alba dell’indomani.

Dopo una settimana si sparse fulminea la voce per tutta la contrada, che al bambino la febbre s’era staccata di colpo. La fama del nuovo santo volò col vento per le boscose montagne, si diffuse per tutti quei paesini di pietra, arrivò al mare, ai due mari, occupò di sé la regione intera, ne varcò i confini, avanzò nella Penisola. E Eustorgio, dando devotamente gli ultimi tocchi alla barba di San Maccario, non finiva più di domandarsi perplesso:«Come diamine sarà successa questa faccenda della febbre? Come diamine sarà successa?».

Intanto cominciavano ad arrivare in paese gli inviati dei grandi giornali.

Un giorno, dopo un’estasi assai lunga e penosa, durante la quale la gente giurava di avergli visto un chiarore intorno alla testa e due grandi leoni che gli leccavano le mani, Eustorgio credè venuto il momento di passare alle stigmate. Disse che il gloriosissimo San Maccario, apparsogli nell’estasi, gli aveva annunziato che, mercè la sua potente intercessione, il fedele suo servo avrebbe ricevuto, all’alba del giorno tale, i segni della suprema gloria. La commozione del popolo fu grande. La mostruosa statua di San Maccario fu portata in processione e fatta entrare in chiesa a viva forza. Una settimana trascorse in grande ansia e trepidazione. Gli ultimi tre giorni Eustorgio li passò in digiuno assoluto, nel bosco, in solitudine e in meditazione.

In quei tre giorni, provando e riprovando, egli mise insieme con succhi d’erbe e chissà che altro, una complicatissima diavoleria per tingersi di un colore idoneo e non facilmente lavabile i segni del martirio. E all’alba del giorno designato le stigmate erano al loro posto, indiscutibili, inattaccabili sia dalla Fede che dalla Scienza. La Scienza, per la bocca distratta e saputa di qualche medico venuto dalla città, fece diagnosi di «grande isteria», parlò di modificazione di pigmenti colorati e trovò che non c’era niente che già non fosse previsto dalla sua grande sapienza. Il popolo, all’unanimità, rivide l’aureola e i due leoni con in più la gran barba di San Maccario Eremita.

Eustorgio, per conto suo, il frasario e la mimica della santità li possedeva, dopo quattro anni di tipografia ecclesiastica, alla perfezione. Superò sé stesso. Quel giorno ebbe davvero la febbre e svenne davvero. Fu un santo autentico, garantito, di primissimo rango. S’indusse a imporre le mani, a passare l’acqua della fonte su occhi ammalati, a massaggiare gambe paralizzate, a dar consigli e coraggio a tutti, ma sempre conclamando che lui non era che il più miserabile dei peccatori.

Il più bello, però, fu quando, dopo i sette giorni previsti, andò per pulir via dalle palme e dal resto i segni delle sacre ferite: i segni resistettero. Resistettero impavidi a ogni assalto. O meglio: quel po’ di colore intrugliato venne via dopo un po’: ma sotto, sulla pelle, sotto pelle, chissà dove, altri segni simili, assai ben caratterizzati, restarono.

Sissignori. I segni restarono. Eustorgio, stupefatto, enormemente superato nei suoi stessi programmi dalla realtà, si trovò ad avere le sue vere stigmate come i più riconosciuti e gloriosi Santi della Chiesa.

Così che il suo fondamentale e consapevole scetticismo sulla autenticità della nuova professione, a grado a grado, dentro, gli fu insidiato e scosso; e dette luogo, infine, a una tormentosa perplessità

Era vero o no, insomma, ch’egli continuava a far miracoli, per quanto prudenti, di medio calibro, di non troppa responsabilità? Era vero.

Era vero o non era vero che le stigmate le portava, se non incise, almeno indelebilmente segnate sulle sue carni, le quali, per imposizione del medico, aveva consentito a nutrire un po’ meglio che non di ghiande? Era vero.

Era vero o no, che San Maccario gli appariva coi due leoni e gli suggeriva e lo inspirava, ecc.ecc.?

Evidentemente…doveva essere vero.

Ma che fosse santo sul serio, lui, Eustorgio? E il dubbio, ancora oggi, lo agita: lo esalta, a volta a volta, e lo impaura. È santo? Non è santo? Senza questo tarlo, sarebbe felice. Tanto più che, a spese dei fedeli, gli stanno costruendo una casetta con l’oratorio proprio sopra la grotta della penitenza: con una vista magnifica. Campa tranquillo: in un’ottima posizione morale. Miracoletti senza troppo impegno ne fa, così, senza affanno: ordinaria amministrazione.

No no: numeri al lotto non ne dà. È inutile che i lettori me ne chiedano l’indirizzo. Ho provato anch’io, per mio conto. Ma numeri al lotto, Eustorgio, assolutamente non ne dà.