[Il filosofo come personaggio, in La filosofia a teatro, a cura di Alessandro Costazza, Cisalpino, Milano 2010]
«Tutti i gatti sono mortali. Socrate è mortale. Allora Socrate è un gatto»
(E. Ionesco, Il rinoceronte)
I filosofi a teatro? Fanno pensare…
O almeno questo potremmo essere indotti a credere considerando il fatto che, tanto per citare un esempio a noi vicino nel tempo e nello spazio, l’ultimo filosofo a calcare il palcoscenico del Teatro stabile di Bolzano è stato, la primavera scorsa, Massimo Cacciari, con un monologo di approfondimento sul tema dell’incontro con «l’altro», a margine della ripresa della pièce Die Walsche. Anche il fatto che si siano moltiplicati negli ultimi anni eventi che hanno a che fare con il pensiero o con la filosofia in senso stretto, e che a questi eventi si sia scelto di dare il nome di festival (Festival della mente di Sarzana, Festival filosofia di Modena…), potrebbe farci propendere per un’interpretazione di questo tipo: il filosofo accede alla scena, quasi la ruba all’attore, con l’intento di moltiplicare il pensiero, spargerlo intorno a sé, condividerlo con un pubblico sempre più vasto.
I filosofi a teatro? Fanno ridere
Non è questa però la direzione che viene indicata da un gruppo di testi contenuti all’interno della più ampia raccolta La filosofia a teatro, a cura di Alessandro Costazza, e che mostra invece come i filosofi, a teatro, facciano, o per lo meno abbiano fatto in passato, tutt’altro che pensare, anzi.
Il primo testo, di Giuseppe ZANETTO, si intitola infatti: I filosofi a teatro? Fanno ridere (è vero che qui si parla non di filosofi in carne ed ossa, bensì di rappresentazioni di filosofi, quindi di personaggi, e la differenza non è di poco peso, ma si sa com’è difficile azzeccare un incipit minimamente accattivante…).
L’analisi parte, come era effettivamente lecito aspettarsi, dal Socrate delle Nuvole di Aristofane, universalmente riconosciuto come il più completo prototipo della maschera del filosofo. Socrate se ne sta assorto nel suo pensatoio, una cesta sospesa a mezz’aria, a contemplare i corpi celesti, immerso in meditazioni imperscrutabili. Ed è Aristofane stesso a mettere in bocca a Socrate la giustificazione della necessità di tale distacco fisico da terra, condizione imprescindibile per chi voglia studiare a fondo le cose celesti. Infatti: «la terra attrae a sé con forza l’umore del pensiero, proprio come succede col crescione».
Questa immagine rimanda poi immediatamente ad un altro famoso aneddoto, ripreso anche da Platone nel Teeteto, cioè quello in cui si narra come Talete di Mileto fosse caduto in un pozzo a causa del suo procedere con il naso all’insù e di come la sua goffa caduta avesse provocato il riso di una servetta. Anche in questo caso, passa l’idea che il filosofo non abbia consapevolezza di quel che accade sotto ai suoi piedi, quindi nel mondo concreto degli uomini, perché troppo occupato a scrutare le realtà ultime e lontane che stanno sopra la sua testa. Ma questa dedizione al pensiero alto, lungi dal provocare rispetto ed ammirazione, suscita abbondanti risate e canzonature.
Da qui in poi, la figura del filosofo, ma con il tempo anche quella dell’intellettuale in senso lato, è sistematicamente accostata all’«investigatore dell’aria, maestro di inconsistenza e fumosità, degno sacerdote di eterne nubi».
Ma se questo è il tratto distintivo del filosofo, si può capire facilmente che un personaggio siffatto incontrerà parecchie difficoltà a risolvere i problemi del vivere quotidiano e quindi, molto prosaicamente, sarà di conseguenza anche incapace di procurarsi ciò che gli serve per campare. Ecco emergere quindi l’altra sua caratteristica di fondo: il filosofo è inevitabilmente un morto di fame, un misero opportunista disposto a tutto pur di riempirsi la pancia. Questo aspetto diventa dominante nella commedia attica del IV secolo in cui, a causa soprattutto del processo di panellenizzazione, vengono a delinearsi sempre più alcune maschere dai tratti fissi, sempre uguali e quindi riconoscibili anche in contesti culturali diversi. La figura del filosofo è ora ricondotta al personaggio del «pitagorico», tutto teso alla predicazione dell’ascetismo e della necessità del distacco dalle cose del mondo, ma in realtà continuamente attanagliato dai morsi della fame e quindi sempre sotterraneamente occupato a escogitare nuovi stratagemmi per riempirsi la pancia. Effetto comico assicurato. Tanto che la Commedia Nuova farà del filosofo astruso e pitocco, spregiatore del denaro ma pieno di debiti, sobrio a parole ma in realtà molto sensibile ai piaceri della tavola e del sesso, una vera e propria macchietta che avrà molta fortuna anche in epoche successive.
Gli Illuministi? Pericolosi sobillatori
Nella Francia del Settecento, il personaggio del filosofo diventa personaggio teatrale per eccellenza, anche se spesso, di nuovo, come oggetto di derisione. In realtà il teatro viene largamente utilizzato dai philosophes per rendere accessibili le nuove idee dell’Illuminismo a un pubblico molto più vasto di quello dei lettori (l’esempio più illustre è quello di Diderot), ma esso viene utilizzato allo stesso tempo anche dai loro detrattori, per mettere in cattiva luce le loro teorie e per ridicolizzarli. L’autrice Mariangela MAZZOCCHI DOGLIO fa riferimento a diversi testi, ma in particolare si sofferma ad analizzare il più noto di questi: Les Philosophes, di Charles Palissot, in cui l’autore si scaglia contro Diderot, tracciandone un profilo molto sgradevole.
Nemmeno Voltaire si salva: in diverse opere del tempo viene criticato in quanto letterato, come poeta, come filosofo e infine, privatamente, come persona. Rousseau poi viene rappresentato come un uomo bizzarro, pieno di contraddizioni, vanitoso, biasimato persino per il suo modo di vestire. Ancora una volta, non solo la sua persona e il suo stile di vita, ma anche le sue idee sono oggetto di interpretazioni caricaturali e di frecciate polemiche.
Dunque, «il teatro tradizionale, con sgraziati e anacronistici tentativi di fermare attraverso la parodia e la critica feroce un moto inarrestabile come quello dell’Illuminismo, si accanisce contro il personaggio del filosofo avendo giustamente individuato in lui il pericoloso propulsore di idee nuove e il motore del cambiamento e delle imminenti ristrutturazioni politiche». Non è un caso che un altro testo del già citato Palissot, sempre indirizzato polemicamente contro i philosophes, si intitoli proprio L’Homme dangereux.
La filosofia? Cosa da pazzi
Un altro esempio di svillaneggiamento di un illustre filosofo è presentato nel testo di Gabriella ROVAGNATI. Protagonista di uno dei lavori meno rappresentati di Thomas Bernhard (Heerlen,1931 – Gmunden, 1989) , è un altro campione dell’Illuminismo, questa volta tedesco: un improbabile Immanuel Kant, imbarcato su di un transatlantico diretto negli Stati Uniti insieme alla moglie e al suo inseparabile pappagallo Friedrich, che il professore venera come un oggetto di culto. Kant è rappresentato come un vecchio eccentrico e brontolone, tutto concentrato su se stesso ed assorbito da preoccupazioni assai poco filosofiche, come quella di sistemare la propria sedia a sdraio sul ponte in modo da non esporsi al vento o quella di sorvegliare il proprio domestico perché faccia attenzione a come copre con una coperta la gabbia del prezioso pappagallo. È evidente che il poco eroico personaggio di Bernhard non può essere sovrapposto all’omonimo filosofo di Königsberg. Tanto per cominciare, le coordinate spazio- temporali sono completamente sfasate (ma forse questa sfasatura è intenzionale, data l’importanza rivestita dalle categorie di spazio e tempo nel sistema kantiano). Eppure ci sono nel testo continui riferimenti alla terminologia kantiana: il pappagallo è un animale talmente intelligente – dice il suo padrone – da rappresentare «der Philosoph an sich / in sich selbst / an sich». E quando viene chiamato per nome, il pappagallo Friedrich risponde con un triplo «Imperativ Imperativ Imperativ»! Riferimenti caricaturali, naturalmente, che finiscono per far apparire Kant come un folle che si relaziona con altri folli (gli altri passeggeri del transatlantico infatti non sono da meno), tanto che al suo arrivo nel Nuovo Mondo viene prelevato da un gruppo di amici ed infermieri che gli fanno indossare la camicia di forza e lo trasportano in un ospedale psichiatrico.
Se poi qui l’autore abbia voluto far intendere che il nostro personaggio sia davvero un folle convinto di essere Kant o rappresenti invece il filosofo che, con la carica eversiva del suo pensiero non può che finire esiliato ed espulso dalla società, non è dato sapere, anche se sembra lecito interpretare questo Kant scombinato ed «egomane» come «una sorta di autoritratto dello scrittore, che si identifica con il folle del suo copione».
I filosofi sono pericolosi, danno fastidio, fanno a volte quasi paura. Nella migliore delle ipotesi, farfugliano cose incomprensibili. Metterli in ridicolo sembra quindi un buon modo per esorcizzare il loro potere destabilizzante o per smascherare la loro smisurata presunzione. Può essere questo un filo conduttore che ci accompagna nella lettura di questi testi. E comunque, meglio messi alla berlina che messi a morte… Però c’è anche qualcuno che si è forse voluto vendicare di tanto accanimento e ha scelto come nome per uno dei blog più dissacranti e divertenti della rete proprio quello di un filosofo: Spinoza (http://www.spinoza.it).
COSTAZZA A. (a cura di), La filosofia a teatro, Cisalpino, Milano 2010
ZANETTO G., I filosofi a teatro? Fanno ridere. Le Nuvole di Aristofane, in COSTAZZA 2010, pp.135-150
MAZZOCCHI DOGLIO M., Il filosofo come personaggio teatrale nel Settecento francese. Riflessioni e conversazioni in scena, in COSTAZZA 2010, pp. 135-150
ROVAGNATI G., La filosofia? Cose da pazzi. Immanuel Kant di Thomas Bernhard, in COSTAZZA 2010, pp. 169-184