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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 15

 ottobre 2017

Testi

Italo Calvino

La gallina di reparto (1958)

da I racconti, Milano, Oscar Mondadori, 1993

Il guardiano Adalberto aveva una gallina. Egli faceva parte del corpo di guardia interno d’un grande stabilimento; e questa gallina la teneva in un cortiletto della fabbrica; il capo dei guardiani gli aveva dato il permesso. Gli sarebbe piaciuto di arrivare a farsi, col tempo, tutto un pollaio; e aveva cominciato comprando quella gallina, che gli era stata garantita come buona ovarola e come bestia silenziosa, che non avrebbe mai osato turbare con un suo coccodè la severa atmosfera industriale. Difatti, non poteva dirsene scontento: gli faceva almeno un uovo al giorno, e si sarebbe detta, non fosse stato per qualche sommesso ciangottio, del tutto muta. Il permesso che Adalberto aveva avuto riguardava, a dire il vero, l’allevamento in gabbia, ma essendo il terreno del cortile – da non molti anni conquistato alla civiltà meccanica – ricco non solo di viti arrugginite ma pure ancora di lombrichi, alla gallina s’era tacitamente concesso d’andare becchettando intorno. Così essa andava e veniva pei reparti, riservata e discreta, ben nota agli operai, e, per la sua libertà e irresponsabilità, invidiata.

Un giorno il vecchio tornitore Pietro aveva scoperto che il suo coetaneo Tommaso, collaudatore, veniva in fabbrica con le tasche piene di granone. Non immemore delle sue origini contadine, il collaudatore aveva subito valutato le doti produttive del volatile e collegando quest’apprezzamento a un desiderio di rivalsa dalle angherie subite, aveva intrapreso una cauta manovra per amicarsi la gallina del guardiano e indurla a deporre le sue uova in una scatola di rottami che giaceva accanto al suo banco di lavoro.

Ogni qualvolta scopriva nell’amico un’astuzia segreta, Pietro restava male, perché era sempre lontano dall’aspettarsela, e subito cercava di non essere da meno. Da quando stavano per diventare parenti, poi (suo figlio s’era messo in testa di sposare la figlia di Tommaso), litigavano sempre. Si munì lui pure di granone, preparò una cassetta di tornitura di ferro e, per quel tanto che glielo permettevano le macchine cui aveva da badare, cercava di attirare la gallina. Così questa partita, che aveva per posta non tanto un uovo quanto una rivincita morale, si giocava più tra Pietro e Tommaso che tra i due ed Adalberto, il quale, poveretto, faceva le perquisizioni degli operai all’entrata e all’uscita, frugava borse e flanelle e non ne sapeva niente.

Pietro stava da solo in un angolo di reparto delimitato da un pezzo di parete, e che faceva come un locale a sé o «saletta», con una porta vetrata che dava su un cortile. Fino a qualche anno prima in questa saletta ci stavano due macchine e due operai: lui e un altro. A un certo punto quest’altro s’era messo in mutua per un’ernia, e Pietro provvisoriamente ebbe da badare a tutt’e due le macchine. Imparò a regolare i suoi movimenti com’era necessario: abbassava una leva in una macchina e andava a togliere il pezzo finito da quell’altra. L’ernioso fu operato, tornò, ma fu assegnato a un’altra squadra. Pietro restò definitivo alle due macchine; anzi, per fargli capir bene che non era una casuale dimenticanza, venne un cronometrista a misurare i tempi e gliene fece aggiungere una terza: aveva calcolato che tra le operazioni dell’una e dell’altra gli restava ancora qualche secondo libero. Poi, in una revisione generale dei cottimi, gli toccò, per far tornare non si sa bene quale somma, di pigliarsene una quarta. A sessant’anni suonati aveva dovuto imparare a fare il quadruplo del lavoro nello stesso margine di tempo, ma poiché il salario restava immutato, la sua vita non ne ricevette grandi contraccolpi, tranne lo stabilizzarsi d’un’asma bronchiale e il vizio di cadere addormentato appena si sedeva, in qualsiasi compagnia o ambiente si trovasse. Ma era un vecchio robusto e soprattutto pieno di vitalità nel morale, e sempre sperava d’essere alla vigilia di grandi cambiamenti.

Per otto ore al giorno, Pietro girava tra le quattro macchine, a ogni giro con la stessa progressione di gesti, così noti ormai da aver potuto limarli d’ogni sbavatura superflua e da essere riuscito a regolare con precisione la cadenza dell’asma al ritmo del lavoro. Anche le sue pupille si muovevano secondo un tracciato preciso come quello degli astri, perché ogni macchina reclamava determinati colpi d’occhio, in modo da controllare che non s’inceppasse e non gli mandasse a monte il cottimo.

Dopo la prima mezz’ora di lavoro Pietro era già stanco, e ai suoi timpani i rumori della fabbrica s’impastavano in un unico ronzio di fondo, sul quale risaltava il ritmo combinato delle sue macchine. Sulla spinta di questo ritmo, andava avanti quasi intontito, finché dolce come il profilarsi della costa al naufrago non avvertiva il gemito delle cinghie di trasmissione che rallentavano la corsa e si fermavano, per un guasto o per la fine dell’orario.

Ma tale inesauribile cosa è la libertà dell’uomo, che pure in queste condizioni il pensiero di Pietro riusciva a tessere la sua ragnatela da una macchina all’altra, a fluire continuo come il filo di bocca al ragno, e in mezzo a quella geometria di passi gesti sguardi e riflessi egli a tratti si ritrovava padrone di sé e tranquillo come un nonno campagnolo che esce di mattino tardo sotto la pergola, e mira il sole, e fischia al cane, e sorveglia i nipoti che si dondolano ai rami, e guarda giorno per giorno maturare i fichi.

Certo, questa libertà di pensieri era raggiungibile solo attraverso una tecnica speciale, lunga da apprendere: bastava per esempio saper interrompere il corso del pensiero nel momento in cui la mano doveva accompagnare il pezzo sotto il tornio, e continuarlo invece quasi appoggiandolo al pezzo che procedeva per la scannellatura, e approfittare soprattutto del momento in cui c’era da camminare, perché mai si pensa bene come quando si percorre un tratto di strada ben noto, anche se qui si trattava solo di due passi: uno-due, ma quante mai cose si potevano pensare nel tragitto: una vecchiaia felice, tutta di domeniche trascorse sulle piazze a intendere comizi, vicino agli altoparlanti a orecchie tese, un impiego per il figlio disoccupato, e poi subito trovarsi con una nidiata di nipoti pescatori nelle sere d’estate tutti con la lenza sui murazzi del fiume, e una scommessa da proporre all’amico Tommaso, sul ciclismo, o sulla crisi del governo ma tanto grossa da togliergli per un po’ la voglia d’essere così testone – e nello stesso tempo correre con lo sguardo alla cinghia di trasmissione che non sfuggisse, a quel solito punto, dalla ruota.

«Se a mag… (alza la leva!)… gio mio figlio sposa la figlia di quel barbagianni… (ora accompagna il pezzo sotto il tornio!) sgomberiamo la stanza grande… (e facendo i due passi:)… così gli sposi la domenica mattina restando a letto insieme fino a tardi vedranno dalla finestra le montagne… (ed ora abbassa quella leva là!) e io e la mia vecchia ci arrangiamo nella stanza piccola… (metti a posto quei pezzi!)… tanto noi anche se dalla finestra vediamo il gasometro non fa differenza», e di qui passando a un altr’ordine di ragionamenti, come se l’immagine del gasometro vicino a casa l’avesse richiamato alla realtà quotidiana, o forse perché un intoppo momentaneo del tornio gli aveva ispirato un atteggiamento combattivo: «Seilrepartolaminatoipromuoveunagitazioneperlaquestionedeicottimi, noi possiamo… (attenzione! s’è messo storto!)… affiancarci… (attenzione!) … con la rive… con la rivendicazione (è andato, accidenti!) del passaggio di categoria delle nostre spe… cia… lizza… zioni…»

Così il moto delle macchine condizionava e insieme sospingeva il moto dei pensieri. E dentro a quest’armatura meccanica, il pensiero a poco a poco s’adattava agile e soffice come il corpo snello e muscoloso di un giovane cavaliere rinascimentale s’adatta nella sua armatura, e riesce a tendere e rilassare i bicipiti per sgranchire il braccio addormentato, a stirarsi, a strofinare la scapola che gli prude contro il ferreo schienale, a contrarre le natiche, a spostare i testicoli schiacciati contro la sella, e a divaricare l’alluce dal secondo dito: così si dispiegava e snodava il pensiero di Pietro in quella prigione di tensione nervosa, d’automatismo e di stanchezza.

Perché non c’è carcere senza i suoi spiragli. E così anche nel sistema che pretende d’utilizzare fin le minime frazioni di tempo, si giunge a scoprire che con una certa organizzazione di propri gesti c’è il momento in cui ci s’apre davanti una meravigliosa vacanza di qualche secondo, tanto da fare tre passi per conto proprio avanti e indietro, o grattarsi la pancia, o cantarellare: «Pò, pò, pò…» e, se il capo-officina non è lì a dar noia, c’è il tempo, tra un’operazione e l’altra, di dire due parole ad un collega.

Ecco dunque che all’apparire della gallina Pietro poteva fare «chiò… chiò… chiò…» e mentalmente paragonare il proprio girare su se stesso tra le quattro macchine, lui così grosso e piedipiatti, ai movimenti della gallina; e cominciava a lasciar cadere quella scia di chicchi di granone che doveva, continuando fino alla cassetta dei trucioli di ferro, attirare il volatile a fare l’uovo per lui e non per lo sbirro Adalberto né per l’amico-rivale Tommaso.

Ma né il nido di Pietro né quello di Tommaso ispiravano la gallina. Pareva che lei il suo uovo lo scodellasse all’alba, nella gabbia d’Adalberto, prima di cominciare il suo giro nei reparti. E sia il tornitore che il collaudatore presero l’abitudine di acchiapparla e di tastarle l’addome appena la vedevano. La gallina, domestica d’indole come un gatto, lasciava fare, ma era sempre vuota.

Va detto che da qualche giorno Pietro non era più solo, a quelle quattro macchine. Cioè, il controllo delle macchine restava tutto a lui ma s’era stabilito che un certo numero di pezzi avevano bisogno d’una rifinitura, e un operaio armato di raspa ne prendeva ogni tanto una manciata e li portava a un suo deschetto installato lì vicino, e frin-frin, fron-fron, tranquillo tranquillo se li grattava per dieci minuti. A Pietro aiuto non ne dava, anzi lo imbrogliava capitandogli sempre tra i piedi, ed era chiaro che le sue vere mansioni erano altre. Era, costui, un tipo già ben noto agli operai, e aveva pure un soprannome: Giovannino della Puzza.

Era un mingherlino, nero nero, capelluto, ricciuto, col naso in su che tirava dietro anche il labbro. Dove fosse stato pescato non si sa; si sa che il primo posto che gli toccò in fabbrica, appena assunto, fu quello di addetto alla manutenzione dei gabinetti; ma in realtà doveva stare lì tutto il giorno in ascolto e riferire. Cosa ci fosse di così importante da sentire nei gabinetti non si seppe mai bene; pare che due della Commissione Interna, o di chissà qual altra diavoleria dei sindacati, visto che non c’era modo di barattare parola in altro posto senz’essere licenziati su due piedi, scambiassero le idee da un gabinetto all’altro, fingendosi lì per i bisogni loro. Non che i cessi degli operai d’una fabbrica siano posti tranquilli, senza porte come sono o con solo un basso sportello che lascia scoperti testa e busto perché nessuno possa fermarsi lì a fumare, e coi guardiani che vengono a vedere ogni tanto che non ci si resti troppo e se stai lì a defecare o a riposarti, ma comunque, in confronto al resto dello stabilimento, sono luoghi sereni ed accoglienti. Fatto sta che quei due furono accusati di far della politica nell’orario di lavoro e licenziati: qualcuno che li aveva denunciati ci doveva essere e non si tardò a identificare Giovannino della Puzza, come d’allora in poi venne chiamato. Se ne stava là chiuso, era primavera, e lui sentiva tutto il giorno rumori d’acqua, crosci, tonfi, rogli; e so­gnava liberi torrenti ed aria pura. Nessuno parlava più nei cessi. E lo tolsero. Uomo senz’arte, fu assegnato ora a una squadra ora all’altra, con mansioni sommarie e d’evidente inutilità, e con segreti incarichi di sorveglianza, manovrato da disordinate paure di dirigenti sempre in allarme; e dovunque i compagni di lavoro gli voltavano muti le schiene, e non degnavano d’uno sguardo quelle superflue operazioni che s’ingegnava di compiere alla meglio.

Adesso era finito alle calcagna d’un operaio vecchio, sordo e solo. Cosa poteva scoprire? Era giunto anche lui all’ultimo gradino, prima d’esser messo sulla strada, come le vittime delle sue denunce? E Giovannino della Puzza si scervellava per cogliere una pista, un sospetto, un indizio. Era il momento buono; tutta la fabbrica in allarme, gli operai che bollivano, la direzione a pelo ritto. E Giovannino era da un po’ che macinava una sua idea. Tutti i giorni, verso una cert’ora, entrava nel reparto una gallina. E il tornitore Pietro la toccava. L’attirava a sé con due chicchi di granturco, le s’avvicinava, e le metteva una mano proprio sotto. Cosa mai poteva voler dire? Era un sistema per passarsi dei messaggi segreti da un reparto all’altro? Giovannino ne era ormai convinto. Il gesto di Pietro con la gallina era proprio come chi cerchi o ficchi qualcosa tra le piume del volatile. E un giorno, Giovannino della Puzza, quando Pietro lasciò la gallina, la seguì. La gallina attraversò il cortile, salì su una catasta di putrelle di ferro – e Giovannino la seguì in equilibrio -, si cacciò in un segmento di conduttura – e Giovannino la seguì carponi -, percorse un altro pezzo di cortile ed entrò nel reparto dei collaudi. Là c’era un altro vecchio che pareva l’aspettasse: stava spiando all’entrata il suo apparire, e appena la vide lasciò martello e cacciavite e le andò incontro. La gallina era in confidenza anche con lui, tanto che si lasciò sollevare per le zampe, e, anche qui!, toccare sotto la coda. Giovannino era sicuro ormai d’avere fatto un grosso colpo. «Il messaggio – pensò – viene trasmesso tutti i giorni da Pietro a questo qui. Domani, appena la gallina parte da Pietro io la faccio arrestare e perquisire».

L’indomani Pietro, dopo avere senza convinzione tastato ancora una volta la gallina e averla melanconicamente rideposta al suolo, vide Giovannino della Puzza piantar lì la sua raspa e andar via quasi di corsa.

Al suo annuncio d’allarme, il servizio di guardia si dispose alla cattura. Sorpresa nel cortile mentre becchettava larve di insetto di tra i bulloni seminati nella polvere, la gallina fu tradotta nell’ufficio del capo della sorveglianza.

Adalberto non ne sapeva ancora niente. Poiché non era esclusa una sua connivenza nell’affare, l’operazione fu svolta a sua insaputa. Convocato al comando, appena vide sulla scrivania del capo la gallina immobilizzata tra le mani di due suoi colleghi, per poco gli occhi non gli si empirono di lacrime. – Cos’ha fatto? Come mai? Io la tenevo sempre chiusa in gabbia! – cominciò a dire, pensando che gli fosse fatta colpa d’averla lasciata girare per la fabbrica.

Ma le accuse erano ben più gravi, non tardò ad accorgersene. Il capo del servizio lo tempestò di domande. Era un ex maresciallo dei carabinieri a riposo, e sugli ex carabinieri della guardia continuava a esercitare l’autorità del rapporto gerarchico dell’arma. Nell’interrogatorio, più che l’amore per la gallina, più che le speranze del futuro pollicoltore, potè su Adalberto la paura di compromettersi. Mise le mani avanti, cercò di giustificarsi per aver lasciato libero il volatile, ma alle domande sui rapporti tra la gallina e i sindacati non osò compromettersi a scagionarla né a scusarla. Si trincerò dietro una serie di «io non so, io non c’entro», preoccupato solo che risultasse esclusa ogni sua responsabilità nella faccenda.

La buona fede del guardiano fu riconosciuta; ma lui col pianto in gola e una stretta di rimorso guardava la gallina abbandonata al suo destino.

Il maresciallo ordinò che fosse perquisita. Degli agenti uno si schermì dicendo che gli dava il voltastomaco, e un altro dopo un assalto di beccate s’allontanò succhiandosi un dito sanguinante. Alla fine vennero fuori gli immancabili esperti, ben lieti di dar prova di zelo. L’ovidotto risultò mondo da missive contrarie agli interessi dell’azienda o d’altro genere. Esperto delle varie tecniche di guerra, il maresciallo ordinò che si frugasse sotto le ali, dove il Genio Colombofili usa celare i suoi messaggi in speciali bossoletti sigillati. Si frugò, si seminò di penne e piume e zacchere la scrivania, ma nulla fu trovato.

Ciononostante, considerata troppo sospetta e infida per essere innocente, la gallina fu condannata. Nello squallido cortile due uomini in divisa nera la trattennero per le zampe mentre un terzo le tirava il collo. Lanciò un lungo straziante ultimo grido, un lugubre coccodè, lei così discreta da non aver mai osato lanciarne di festosi. Adalberto si coprì il viso con mano. Il suo mite sogno d’un pollaio pigolante era spezzato sul nascere. Così la macchina dell’oppressione sempre si volta contro chi la serve. Il titolare dell’azienda, preoccupato perché doveva ricevere la commissione degli operai che protestavano per i licenziamenti, sentì dal suo studio il grido di morte della gallina e n’ebbe un triste presentimento.