[John Morreall, Filosofia dell’umorismo. Origini, etica e virtù della risata, Sironi Editore, Milano 2011, pp. 264]
L’autore, John Morreall, filosofo, ha insegnato presso diverse università statunitensi, è professore presso il College of William and Mary di Williamsburg, in Virgina. Da oltre 25 anni si occupa di umorismo, pubblicando numerosi saggi di successo. È fondatore della “International Society for Humor Studies” e membro del comitato editoriale dell’”International Journal of Humor Research”. I suoi lavori sono pubblicati su “The New York Times”, “The Washington Post” e “The Economist”.
«Di tutte le attività ed esperienze umane, ridere è probabilmente la più divertente», questo l’incipit del saggio Filosofia dell’umorismo. Ma perché ridiamo? L’autore si chiede cosa susciti il riso ed esamina le caratteristiche proprie dell’umorismo, attraverso un excursus storico, illustrando i differenti giudizi espressi intorno al fenomeno. La tematica è affrontata da prospettive diverse ma complementari, distinguendo tra punto di vista psicologico, etico ed estetico.
La lettura del testo è piacevole e resa divertente, senza mai cadere nella banalità, da esempi tratti dalla vita quotidiana, in cui il lettore può riconoscersi.
Nell’introduzione l’autore esplicita la tesi centrale dell’opera:
Con l’umorismo facciamo esperienza di un improvviso cambiamento nel nostro stato mentale – per così dire di uno slittamento cognitivo – che in condizioni normali, cioè se lo prendessimo sul serio, sarebbe disturbante. Sganciati da preoccupazioni ordinarie, invece, stiamo allegri e ci divertiamo. Voglio sostenere che gli esseri umani, insieme ai primati che hanno imparato un linguaggio, sono i soli animali capaci di far questo perché sono razionali.
Ne consegue che solo gli esseri umani hanno la capacità di guardare con distacco situazioni problematiche o contraddittorie.
Morreall analizza la concezione dell’umorismo diffusa nel mondo classico, medioevale e moderno distinguendo tra una cultura popolare, in cui il comico apparteneva alle feste ed era considerato liberatorio, contrapposta ad una riflessione filosofica e religiosa che spesso vedeva l’umorismo in termini negativi per la sua capacità di far perdere il controllo, di cedere all’irrazionalità e danneggiare gli altri. A supporto di questa tesi sono portati esempi tratti da testi della tradizione filosofica che risale a Platone e a Hobbes e che trova tra i sostenitori anche il contemporaneo Roger Scruton.
L’autore analizza le tre teorie fondamentali sull’umorismo privilegiando, almeno inizialmente, l’approccio psicologico. Si potrebbe ritenere che il riso derivando dalla percezione di una situazione negativa determinerebbe, in chi ride, un sentimento di superiorità rispetto alle cose e alle persone di cui si burla, per questo è generalmente condannato dalla filosofia tradizionale in quanto immorale Di diversa opinione Philip Sidney il quale afferma che «la commedia è un’imitazione degli errori comuni della nostra vita», che «nessuno spettatore si sentirebbe soddisfatto di considerarsi il protagonista della commedia»; ma anche Henri Bergson, che pur vedendo il riso come azione denigrante, afferma che esso spinge chi ne è oggetto al riscatto: a chi si prende gioco – scrive – della «rigidità meccanica» che domina ampi segmenti dell’esistenza va tutta la mia solidarietà; e ancora Hutchenson che nega la necessità della superiorità come causa del riso. In conclusione Morreall sostiene che la tesi della superiorità sia errata o quantomeno riduttiva.
Sicuramente più convincente risulta la “teoria dell’incongruenza” per la quale causa del riso è la percezione di una contraddizione, dell’incongruenza e contraddittorietà di un evento rispetto a un modello di comportamento appreso e condiviso. È la tesi – secondo l’autore – di Kant, di Kierkegaard e di Schopenhauer che, seppure in maniera differente, colgono l’irrazionalità a fondamento del riso.
Rimangono aperte due questioni fondamentali:
1. Cosa si intende per contraddittorio?
2. L’irrazionale, che dovrebbe essere combattuto, come può essere fonte di piacere?
Si potrebbe rispondere richiamando la riflessione di Aristotele per cui la commedia piace non tanto per l’ilarità che suscita, ma perché accresce le esperienze umane. La commedia determina «slittamenti cognitivi» – come li chiama Morreall – cioè esercizi giocosi, disinteressati e rivolti al piacere: il riso quindi come virtù, espressione di vivacità spirituale come affermato da Tommaso d’Aquino, voce fuori dal coro della tradizione.
Una terza teoria analizzata dall’autore è quella del sollievo: il riso è liberatorio (Freud, Spencer, Dewey) e causa del riso sarebbe fondamentalmente il rilascio di energia in eccesso che accumulandosi determinerebbe situazioni di disagio.
La trattazione prosegue con l’analisi della relazione tra divertente e umoristico, divertimento ed emozioni, attraverso un excursus sulla psicologia dell’umorismo secondo un approccio evoluzionistico. Richiamando gli studi di etologia, a partire da Jan Van Hoof, e della psicologia cognitiva l’autore trova conferma alla tesi dell’incongruenza come fondamento del riso. Dagli studi indiretti sul comportamento dell’australopiteco e dalla riflessione sull’uomo contemporaneo l’autore elabora uno schema di base che esprime la fenomenologia dell’umorismo: slittamento cognitivo, un’incongruenza cui segue un atteggiamento giocoso e distaccato che porta al divertimento ed infine il riso come espressione del divertimento. L’autore giunge alla conclusione che l’umorismo sia qualcosa di più che trovare le cose divertenti e ridere. Il divertimento umoristico è affine al gioco e all’esperienza dell’arte.
Interessante è la riflessione sulla valenza sociale e cognitiva del riso che favorisce la coesione interna al gruppo e, allo stesso tempo, consiste – per citare Kant – in «un gioco del pensiero» , un insieme di azioni attraverso le quali si sviluppa la razionalità. Attenzione: ridere, ma ridere consapevolmente. Ridere è una cosa seria!
Una parte importante è dedicata all’estetica dell’umorismo partendo dal concetto per cui «il divertimento è una condizione positiva non associata a emozioni negative». L’arte può essere promotrice di un atteggiamento flessibile, razionale, non-egocentrico e attenta alla diversità. In particolare l’autore elogia le virtù della commedia, sottolineando che le critiche in chiave comica alla guerra – dalla commedia classica ai film di Charlie Chaplin a M*A*S*H – sono un esempio di come essa promuova atteggiamenti più razionali, consapevoli, creativi e adattivi nello spettatore. L’arte è un gioco, sebbene un gioco intellettuale, in particolare, citando Breton, possiede «quel meraviglioso potere di attingere a due realtà tra loro distanti ma senza uscire dal campo della nostra esperienza e far scoccare una scintilla dal loro accostamento».
Segue una parte relativa all’umorismo spontaneo che unisce le persone permettendo loro di scambiarsi esperienze convinzioni, attitudini, favorendo partecipazione ed empatia, come avevano già osservato numerosi filosofi. Chi non si è divertito sentendo una barzelletta mordace? – ma l’autore mette in guardia dagli eccessi di cattivo gusto che scadono nello sguaiato e nell’eccesso.
I capitoli sull’etica negativa e sull’etica positiva dell’umorismo, sono di particolare interesse. Morreall argomenta in favore di una concezione dell’umorismo come virtù morale confutando le accuse di insincerità, inutilità, irresponsabilità, edonismo e superficialità rivolte dalle morali classiche all’umorismo. Al contrario ridere di sé, guardare con distacco una realtà spesso assurda o paradossale favorisce la comprensione della vita. Chi sa ridere di sé è in grado di guardare con occhio attento ciò che lo circonda, sviluppa creatività e sa porsi in un atteggiamento anticonformista e costruttivo. L’autore concorda con l’affermazione di R. C. Roberts: «L’ironia sulle proprie fissazioni è la capacità di trascendere la propria persona, ma la capacità di trascendere la propria persona sta alla base del concetto di virtù morale nel senso pieno del termine».
Il riso liberatorio di Zarathustra o quello scanzonato di Mark Twain evidenziano il coraggio di affrontare la sofferenza, parte integrante della vita; l’umorismo definito da Kierkegaard come «gioia che ha sopraffatto il mondo», permette di cogliere le contraddizioni del vivere. Concludiamo con l’affermazione di Charlie Chaplin: «la vita è una tragedia, se la guardi da vicino, ma una commedia se la guardi da lontano».