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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 03

 settembre 2011

Saggi e rassegne

Josef Piras

Din din, cra cra, bum bum: il comico di Rossini

I nostri eccellenti scrittori di Dibattiti hanno trovato l’azione del pezzo folle, senza vedere, poveretti, che se non fosse folle non converrebbe più a questo genere di musica che non è che una follia organizzata e completa.
(Stendhal: Vita di Rossini)

L’arte è una manifestazione insolita di follia. L’arte mediocre si sforza di sottolineare tale follia, di renderla evidente direttamente agli occhi del pubblico; l’arte, quella vera, iscrive invece la follia nella normalità con una naturalezza quasi infantile e giocosa. È questo il caso di Rossini.

Parlare di Rossini è forse il metodo sbagliato di affrontare la questione. La follia trascinante della sua musica va soprattutto provata e può essere riportata nei limiti di una trattazione razionale solo con molti sforzi e notevoli distorsioni. L’approccio più onesto è l’esperienza, l’ascolto e la prassi musicale, che tuttavia tende a perseguire nei teatri di prestigio delle finalità che esulano molto dalla resa autentica dell’opera d’arte, esplorando quel sentiero arbustoso del “nuovo”, spesso pretestuosamente e, sempre, arbitrariamente. Ma, se da un lato abbiamo lo sperimentalismo, fortunatamente neanche poi così diffuso (se escludiamo il caso ormai patologico dei Festspiele di Salzburg), dall’altro l’iperfilologia da pedanti accademici, o da « cuori secchi », come li chiamerebbe in maniera molto più efficace Stendhal, affolla la letteratura specialistica.

Ma gli uni e gli altri, dico, i viandanti del nuovo e i cultori del classico, sembrano convenire parzialmente almeno su un aspetto: la produzione operistica di Rossini prescinde dal testo. Infatti tutta la produzione musicale precedente a Rossini era profondamente incentrata sull’espressività delle parole. La prima musica vocale monodica era in fondo un testo recitato reso e perfezionato dagli strumenti dell’armonia e della melodia. Il madrigale e le prime opere miravano in primo luogo a sottolineare il testo con tanto di effetti realistici, « madrigalismi » appunto. Similmente, dopo il periodo molto ricco ma poco fertile dell’opera metastasiana, che peccava di un eccessivo formalismo, anche la riforma operata da Gluck si basava su una forte riaffermazione del libretto e della parola. Solo che ora al « favellar cantando » delle origini si cercava di sostituire una nuova sintesi di recitativo e aria. La parola chiave di questa grande trasformazione era appunto il dramma, ossia l’azione che, tenuta lontana dal canto, doveva ora riaffermarsi e ristrutturarsi, non più in singoli pezzi, ma via via in intere scene che sarebbero in seguito divenute il nuovo atomo dell’opera riformata.

Ma che c’entra Rossini con tutto ciò?

Verrebbe da dire poco o nulla. Rossini è lontanissimo dalla concezione del dramma nei termini in cui si stava sviluppando verso l’inizio dell’Ottocento. Rossini non pensa al contenuto quando scrive le sue arie, i duetti e i finali, non pensa alla trama o al « coleur locale ». Il maestro di Pesaro scrive in astratto. Cioè: si serve delle convenzioni stilistiche per creare dei modelli, dei tipi psicologici o degli stereotipi che sono completamente privi di individualità e esulano dal contesto storico in cui è ambientato il libretto. Per la nozione di “bello” ciò è stato identificato con l’adesione per parte di Rossini alla tradizione della bellezza ideale, priva di specificazioni particolari. Che si tratti di una principessa greca o della figlia di un nobile veneziano: tutti i personaggi di Rossini fioriscono seguendo una linea melodica perfettamente equilibrata.

Dobbiamo dunque pensare a Rossini come a uno spirito conservatore, al « genio della restaurazione » come lo definiva Heine? Sì e no. Rossini restò ancora fortemente radicato nel mondo operistico « postmetastasiano », non tanto per i libretti (infatti nelle opere serie il numero di temi incentrati sull’antichità classica è notevolmente inferiore a quello dei soggetti medievali o rinascimentali), quanto per il sistema di produzione: non esisteva ancora il concetto di repertorio che nascerà solo con Verdi. Ciò comportava dei tempi di produzione a dir poco frenetici poiché, ogni volta che veniva richiesta una produzione teatrale, si chiamava questo o quel compositore che scrivesse una nuova opera. E Rossini era uno dei pochi che riusciva a soddisfare tali esigenze, come dimostra la genesi dell’Italiana in Algeri.

Nel 1813 la stagione del Teatro a San Benedetto entrò in crisi perché uno dei disgraziati compositori addetti alla produzione di nuove opere, tale Carlo Coccia non riuscì a completare la propria opera, La donna selvaggia, nei tempi previsti. Da lì la decisione drastica dell’impresario Giovanni Gallo: chiamare Rossini per rimediare alla situazione. Ecco che L’Italiana venne scritta e preparata in soli 27 giorni. Ma anche le altre opere non ebbero una gestazione più facile. Il Barbiere di Siviglia venne scritto interamente in non più di 17 giorni. La Cenerentola infine venne composta in 24 giorni (quando solo la scrittura del libretto ne impiegò 22).

Ma Rossini non fu soltanto un autentico conservatore. Egli limitò l’uso, molto diffuso all’epoca, del recitativo secco (ossia della declamazione accompagnata dal solo clavicembalo) e introdusse nella tradizione del belcanto lo stile parlato tipico soprattutto della tessitura del basso.

Così anche l’orchestra acquisisce un’importanza maggiore ed è soggetta a una ricerca più raffinata dell’effetto: il crescendo rossiniano, del resto, è diventato quasi proverbiale.

Un’altra notevole innovazione, rilevata anche da Stendhal, è la messa per iscritto di tutte le fioriture. Era uso comune che i compositori scrivessero le sole linee melodiche e lasciassero ai cantanti la libertà di fiorirle, ossia abbellirle, a piacimento. Per la verità più che una vera e propria convenzione si trattava di una tacita abitudine che periodicamente sollevava la stizza dei compositori. I precedenti di questo contenzioso in fondo si trovano già nella doppia versione dell’aria di Orfeo, nell’omonima opera di Monteverdi. Ma pare proprio che Rossini si sia deciso a una tale mossa dopo che il cantante più famoso dell’epoca, Giovanni Velluti, si era messo a variare abbondantemente la sua parte ne L’Aureliano in Palmira. Stendhal propone un ipotetico monologo di Rossini:

È per un caso fortunato – dice fra sé e sé – che Velluti si trovi ad avere spirito e gusto; ma chi mi assicura che nel primo teatro per il quale scriverò, non troverò un cantante che con un’ugola flessibile e una ugual mania per le fioriture, non mi rovinerà la mia musica fino a renderla, non solo irriconoscibile per me, ma soprattutto noiosa per il pubblico, o tutt’al più notevole unicamente per qualche dettaglio d’esecuzione?

Vero o meno che sia… è un aneddoto simpatico.

Le voci, infine, subiscono una notevole differenziazione e si specializzano in tipi. Al predominio degli evirati (presenti solo in minima parte nelle opere di Rossini) si sostituisce il primato del mezzo-soprano (o mezzocontralto, come lo chiama D’Amico) che rappresenta la bellezza ideale. Troviamo poi la civetteria un po’ frivola del soprano, tendenzialmente un personaggio giovane e innamorato. Il tenore non è ancora l’eroe romantico del melodramma, ma inizia ad acquisire una notevole importanza. In Rossini tuttavia per motivi tecnici assomiglia ancora molto a un baritono. Il basso infine è, secondo la classificazione di Celletti, tripartito in nobile (che in genere svolge le funzioni di un deus ex machina), caricato (ossia parlante) e buffo, che media fra i due e tende al baritono.

Rossini, pertanto, non rientra in una comoda classificazione (riformatore, conservatore, romantico, classico) ma vive le contraddizioni di un periodo, quello del 1810-1820, molto teso e instabile. Siamo in piena restaurazione politica e se altrove, in Germania, Beethoven aveva guardato alla deriva imperiale della rivoluzione con rancore e amarezza, Rossini vive e opera all’insegna di un termine che ci permette di avviare la nostra breve riflessione sull’umorismo: il disincanto. Non mancano del resto anche le interpretazioni che individuano nel silenzio e nel ritiro a vita privata successivo al 1829 (ad appena 37 anni) l’ultimo sintomo di un profondo disgusto per la situazione politica contemporanea.

Ma al di là delle conclusioni affrettate che oggi come allora sfociano in politica, la grande disillusione che si respira nelle opere di Rossini è una precisa esigenza artistica e una conseguenza drammaturgica. L’opera buffa, oltre a essere più pertinente per i nostri scopi, si presta meglio a un analisi del genere, perché in essa mancano la rigidità e l’autorevolezza che il dramma per musica richiedeva, tanto che si potrebbe definire la farsa davvero una sorta di fucina dell’opera ottocentesca. Essa, che non aveva alte pretese artistiche, rese possibile la sperimentazione di nuovi mezzi e nuove concezioni poi introdotte, superata la prova, nelle tipologie operistiche più nobili.

Per contro, il teatro di Goldoni e il riferimento a temi bassi, al popolo, aveva già da tempo permesso il superamento di quella Fallhöhe (ossia il principio secondo il quale solo ai ceti nobili erano concesse sorti tragiche) anche nell’opera seria. Ma il ricorso al popolo, alla trivialità rappresentava ancora un disincanto molto diverso da quello di Rossini. Qui il disincanto si muoveva solamente all’interno del dramma. Rossini, come abbiamo visto, nel dramma non s’addentra nemmeno. Fedele fino all’ultimo a quella distinzione di opera e dramma (riproposta di recente anche da Andrea Baricco), l’azione non influisce sul percorso musicale dell’opera d’arte, anzi ve ne resta separata come da un vetro trasparente. Una cosa è la trama, altra la musica e se la trama ha un suo contenuto anche la musica può rivendicarne uno a pieno diritto, e del tutto indipendente dal primo. Non siamo in fondo molto lontani da Metastasio…

La musica di Rossini è quindi soprattutto una musica indipendente, una musica assoluta dal legame con la trama. L’azione c’è, ma è radicata all’interno della musica stessa, non conosce individui o caratteri. Le figure di Rossini non sono che dei tramiti, dei veicoli, loro malgrado, della volontà autonoma e impellente della musica che si serve delle loro voci per perseguire le proprie finalità.

Guardando Rossini sembra di vedere un grande spettacolo di marionette, certo molto più pazzo ed esagitato, a tratti quasi ansiogeno. Ma di marionette si tratta: perché i personaggi sono privi di un qualsiasi tipo di pensiero causale o finalistico. Agiscono in base alla necessitante volontà della musica. Parlando di disincanto in Rossini quindi parliamo soprattutto di questo: l’indifferenza assoluta verso la trama, la favola.

Per la verità si tratta di una caratteristica che gli procurerà presto una certa notorietà. Schopenhauer rimarca, nel suo Mondo, proprio questa caratteristica: l’indipendenza della musica e il valore assoluto del suo messaggio rispetto all’azione drammaturgica.

Ma perché ciò dovrebbe poi essere considerato come una scoperta notevole? E soprattutto: quali sono le implicazioni per la resa del comico?

Una prima risposta alle due domande è rispettivamente: che non potendosi basare sul libretto la musica deve elaborare delle forme espressive proprie e deve saper comunicare delle emozioni nette e distinte a prescindere dal testo. In secondo luogo, a Rossini si pone il problema di dover essere comico, divertente, senza potersi concentrare sul testo. Manca, in effetti, la “battuta” e mancano le frasi ambigue come erano conosciute presso Mozart. L’umorismo di Rossini si svolge al di qua del testo, perché, a differenza dei suoi contemporanei e della tradizione di fine Settecento, non è la musica a sottolineare il testo, ma, viceversa, il testo a evidenziare la comicità della musica.

La soluzione al primo problema sembra un po’ barocca. Agli individui e alle persone si sostituiscono i tipi e i ruoli. Bartolo rappresenta lo spirito retrogrado sbeffeggiato dalla modernità, Lindoro il giovanotto innamorato, Don Magnifico l’autorità. Del resto anche la distribuzione delle parti e delle tessiture segue questo principio. Le parti maschili con tessitura femminile, non solo frequenti fra i castrati, ma anche diffuse (si pensi al Cherubino di Mozart) tra le cantanti, tendono a scomparire, giusto Falliero lascia ancora spazio all’ambiguità. Ma se i tipi vengono delineati come rappresentanti di qualità sovraindividuali, anche questa distinzione non coinvolge più di tanto la musica di Rossini, che mantiene sempre un tono uniforme, elegante ed equilibrato: insomma, tipicamente belcantistico.

Un po’ diverso è il discorso per quanto riguarda il comico. Non c’è in realtà un personaggio comico perché, come abbiamo detto, non c’è il personaggio. Rossini procede per situazioni, insiemi che, presi complessivamente, risultano comici. Tuttavia non si tratta di umorismo. Questo infatti deriva dall’apporto di un individuo. Nelle opere di Rossini tutto ciò manca completamente. Non c’è umorismo perché non c’è riflessione. Manca una figura che come Leporello sappia farsi complice il pubblico e ridere alle spalle degli altri personaggi, manca il distacco dei personaggi rispetto alla loro esperienza in scena. Loro sono pienamente coinvolti e stravolti dagli avvenimenti che, sotto forma di musica, si prendono gioco di loro. L’unico vero individuo che sembra starsene seduto in disparte mentre deride cinico e malizioso le vicende delle sue marionette è proprio il compositore Rossini, e la sua musica che dirige le azioni dei poveri malcapitati.

Se la musica si muove per salti, salteranno anche i personaggi, se il crescendo sfocia in un turbine, o un « tremuoto », così dovranno fare le voci dei cantanti. Anzi: Rossini crea volutamente delle situazioni di totale caos e confusione, e lo fa con predilezione nei finali che concludono un atto e radunano un po’ tutti i personaggi della burla, che puntualmente impazziscono. Ecco a esempio la frase chiave dello stretto del primo finale del Barbiere:

Mi par d’esser con la testa in un’orrida fucina,

E da qui in poi è finita. Subentra lo stile martellato di Rossini, con frasi che si ripetono fino alla nausea, all’estasi antifrastica alla quale partecipano tutti i membri dell’opera. Ecco che con un crescendo, più che dinamico, soprattutto ritmico, Rossini raggiunge lo stato di follia collettiva sintetizzato armonicamente dal ripetersi frenetico e furioso di una cadenza mentre le marionette proseguono:

E il cervello, poverello, si riduce ad impazzar,

Ma altrove Rossini è riuscito a fare anche di peggio. Non bastandogli i tanti siparietti assurdi offertigli da Angelo Anelli (memorabile il terzetto del pappataci), Rossini decide di intervenire attivamente sul libretto, e si deve alla sua penna tutto lo stretto del primo finale.

Qui addirittura si raggiungono delle vette mai più toccate di pazzia polifonica. Tocca a Elvira dare l’avvio all’orrida fucina, alla macchina musicale che divora i personaggi e li dissolve nella musica:

Ho in testa un campanello,

Cui fanno seguito quattro diversi commenti. Il primo di Isabella:

La mia testa è un campanello che suonando fa din din,

Lindoro che si muove di una sesta sotto alla prima:

Nella testa un gran martello mi percuote e fa tac tà,

Poi Taddeo che riesce pure a fare la figura del più imbecille fra gli imbecilli:

Sono come una cornacchia che spennata fa crà crà,

Quindi Mustafà che assolve alla sua funzione di sostegno armonico imitando un trombone:

Come scoppio di cannone la mia testa fa bum bum,

Ciò che Rossini vuole, spudoratamente, è il delirio. Parlare di Verfremdung però sarebbe non solo anacronistico, ma anche troppo impegnativo. Rossini non si prende troppo sul serio neppure quando produce una tale follia, lo fa con naturalezza come quando risolve il culmine della drammaticità della settima diminuita in una quarta-sesta e riporta il teatrino grottesco alla tonica.

Tutto il finale è un grande e violento vortice che muove e pilota i personaggi in scena. La sinfonia di « din din », « cra cra », « bum bum » si prende gioco del testo, lo strappa e lo lacera fino a lasciarne solo delle sillabe utili per il loro valore fonetico. Si tratta, in fondo, di un immenso vocalizzo a più voci che riassume la risata, spensierata, goliardica, ma sotto sotto terribilmente cinica del maestro, Rossini, che coinvolge tutti, cantanti e spettatori in un’unica grande follia completa e organizzata.

Bibliografia essenziale

Baricco Andrea (2006) Il genio in fuga, due saggi sul teatro musicale di Gioachino Rossini, Einaudi Torino

D’Amico Fedele (1982) Il teatro di Gioacchino Rossini, Bulzoni Roma

Della Seta Fabrizio (1993) Italia e Francia nell’Ottocento in Storia della musica vol.9, E.D.T Torino

Stendhal (1992) Vie de Rossini, Gallimard Paris