La gallina di Saba è una raccolta di saggi scritti da Mario Lavagetto ed editi in due edizioni: la prima nel 1974, la seconda ampliata nel 1989. In questi saggi lo studioso analizza la produzione sabiana a partire da una provocatoria affermazione di Gianfranco Contini: «Saba nasceva psicanalitico prima della psicanalisi»; per sviscerare la complessità del rapporto fra Saba e la nuova teoria freudiana, Lavagetto concentra la sua attenzione su un simbolo ricorrente della sua produzione: la gallina. Questo animale domestico, dalle fattezze apparentemente innocue e rassicuranti, compare in numerosi testi sabiani, sia in poesia che in prosa, che Lavagetto passa in rassegna mettendone in rilievo i richiami interni e esaltandone le suggestioni, fino al punto di sostenere che per Saba la «gallina è un animale sacro» (p. 67).
Il testo che funge da palinsesto è la lirica A mia moglie, collocata in apertura della sezione Casa e campagna e dedicata a Lina, paragonata nella prima strofa a «una giovane, / bianca pollastra» (vv. 1-2) che «nell’andare, ha il lento / […] passo di regina, / e incede sull’erba / pettoruta e superba» (vv. 6-8), dimostrando in ogni suo gesto di essere «migliore del maschio» (v. 9). Questa iniziale similitudine è destinata a generarne altre: Lina è poi cantata nella sua somiglianza con una «gravida giovenca» (vv. 25-6), una «lunga / cagna» (vv. 38-9), una «pavida / coniglia» (vv. 53-4), una «rondine / che torna a primavera» (vv. 69-70), una «provvida / formica» (vv. 78-9): è un insolito e privato bestiario, al termine del quale Saba dichiara che Lina vive «in tutte / le femmine di tutti / i sereni animali / che avvicinano a Dio». Questo tenero entusiasmo ha ricordato quello francescano delle Laudes Creaturarum, ma se al centro dell’universo del santo di Assisi c’è Dio, del quale ogni elemento del creato è segno, al centro di quello sabiano c’è la moglie, la cui vitalità istintiva si inserisce compiutamente in un ciclo naturale dal quale il poeta sembra escluso. E in questa primitiva adesione alla natura, la gallina fa da capofila, da «immagine madre» (p. 69) – fa notare Lavagetto – del suo universo poetico e affettivo.
Ma andando oltre questa superficie briosa, possiamo scovare significati più reconditi e perturbanti, che Lavagetto evidenzia rileggendo un racconto del 1913 intitolato La gallina, di cui è protagonista Odone Guasti, alter ego adolescenziale dello scrittore che, con il suo stipendio, decide di acquistare una gallina intravista al mercato. Compratala, la porta a casa, dove intrattiene con lei un rapporto giocoso e fraterno, nel quale sublima la sua solitudine di figlio unico e il ricordo di una precedente gallina, allevata assieme alla mamma Rachele nel periodo infantile. Odone sa, inconsciamente, di essere troppo grande per vivere questo desiderio di recuperare attraverso la gallina una infanzia perduta, per cui vive questo gesto in modo tormentato. Nonostante l’intensità dei sentimenti che legano il ragazzo all’animale o forse proprio perché consapevole della loro inappropriatezza in relazione all’età, sua madre non si fa scrupoli, un giorno, di uccidere questa gallina per farne un buon brodo. Alla vista dell’animale sgozzato, Odone raggela, perché sa che assieme ad essa è morta la sua adolescenza e si è definitivamente spezzato il rapporto intimo ed edipico che lo univa alla figura materna. Tutto ormai può accadere e la violenza può penetrare anche nel recinto della propria casa, ritenuto fino ad allora inviolabile e divenuto invece luogo traumatico e castrante. Lavagetto commenta che in questo racconto:
l’animale è quasi un amuleto che fa ruotare il mondo come una scena e costruisce uno spazio drammatico dove i ruoli risultano invertiti: la gallina è Odone e Odone è la propria madre. […] Il cadavere della gallina, appeso a un chiodo, dissolve per sempre il sortilegio: il dialogo con la madre conferma soltanto il ritorno alla legalità impietosa del quotidiano. Il senso della vicenda si chiarisce ulteriormente, se pensiamo che la madre, uccidendo l’animale sacro, ha infranto un divieto. (LAVAGETTO 1989, pp. 80-82)
Il critico, facendo sue le riflessioni freudiane di Totem e tabù, aggiunge poi che la morte della gallina ha un valore simbolico ambiguo: da un lato è un atto rituale perche già nel Levitico era prescritto di adoperare i volatili negli olocausti al posto del toro e del montone, dall’altro un sacrilegio perché intacca il totemismo infantile di Odone, costringendolo a entrare forzatamente nell’età adulta in cui né il padre né la madre potranno più essere accanto a lui nel percorso di crescita. Per cui dietro alla gallina, ci sarebbero tutti e due i genitori, intesi come figure guida di quel periodo che va dall’infanzia alla pubertà:
La signora Rachele, uccidendo l’animale sacro, nel cui corpo Odone vedeva rappresa e coagulata la dolcezza dei suoi primi anni, uccide anche se stessa; assassina il padre e, annullando la propria neutralità, riporta in luce il peccato delle origini.
L’equivocità della gallina, come animale ricorrente nell’universo sabiano, si radica nell’autobiografia del poeta, come mette in luce Lavagetto scandagliando uno dei testi di Ricordi- Racconti (1953): «Dedica a mia zia Regina», che svela gli antefatti del racconto La gallina. L’episodio raccontato risale alla sua tarda adolescenza, quando egli comincia il suo praticantato presso una casa commerciale e, tornato a casa col suo primo stipendio, esulta con la madre e la zia che invece lo invitano freddamente a posare i soldi sull’armadio. Ignorando questo invito, il ragazzo si lascia invece sedurre dalle tentazioni del mondo, risvegliandosi il giorno dopo senza soldi ma pieno di rimorsi.
L’aneddoto scioglie l’enigma dell’identità di Odone e di Rachele, che sono sovrapponibili a se stesso e a sua zia Regina, e dunque ci fa apparire la sua vicenda più reale.
L’autobiografismo di questa vicenda è tanto più autentico quanto più enfatizzato letterariamente da altri testi sabiani, fra cui una delle Terze Scorciatoie: Il poeta, il cane e la gallina. Protagonista è il poeta Sandro Penna, il quale era molto affezionato a un gallina che teneva in casa come se fosse una persona. La tranquillità di questo equilibrio è interrotta dall’arrivo di una cagna: vedendola il poeta le comanda indirettamente e scherzosamente di mangiare la gallina. La cagna, tuttavia storce il muso e ignora questo comando perché istintivamente avverte che è falso e teme che eseguendolo potrebbe alienarsi i favori del suo padrone. Lavagetto annota che:
Appurare se i fatti di questo racconto siano realmente accaduti a Sandro Penna, non ci interessa minimamente; in ogni caso (non crediamo possano esistere dubbi) Saba li raccontò perché li riguardavano direttamente, perché implicavano lui, la sua storia, le immagini in cui quella storia era stata vissuta. Odone Guasti e Sandro Penna (il secondo discende direttamente dal primo) sono equidistanti da Umberto Saba, suoi possibili nomi: la loro storia sua possibile autobiografia. E qui troviamo anche la più decisiva conferma del significato che avevamo attribuito all’animale sacro sulle tracce di Totem e Tabù: il testo è, nella sua brevità, percorso dalla memoria del libro di Freud. (LAVAGETTO 1989, p. 1079
Per corroborare la sua tesi, il critico confronta questa “scorciatoia” con un’altra del 1945, in cui lo stesso episodio transita da Penna a Saba stesso. Lo scrittore triestino si narra in terza persona e vive la medesima dinamica relazionale: si sente amico della sua gallina ma padrone della cagna, sa che questi stati d’animo sono immaturi e vorrebbe superarli tramite l’uccisione della gallina per opera della cagna. Il rifiuto di questa ultima lo costringe a ricorerre ad altri mezzi per «liberarsi della sua incomoda amica» (p. 107) e approdare a quella maturità spirituale che la gallina inibiva.
A chiusura di questo viaggio nel mondo sabiano, Lavagetto chiosa che «la cagna e la gallina forniscono una rappresentazione teriomorfica; tra essi si apre il campo di una inesauribile ambivalenza» (p. 108), dato che «ci muoviamo su un terreno dove la contraddizione è un elemento indispensabile per raggiungere la possibile (sempre precaria) certezza» (p.108).
Dal Canzoniere, A mia moglie
Tu sei come una giovane
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell’andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull’erba
pettoruta e superba.
È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio.
Così, se l’occhio, se il giudizio mio
non m’inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun’altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle,
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.
Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
volge, ove tinge un rosa
tenero la sua carne.
Se l’incontri e muggire
l’odi, tanto è quel suono
lamentoso, che l’erba
strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono
t’offro quando sei triste.
Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.
Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d’un fervore
indomabile arda,
e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
candidissimi scopre.
Ed il suo amore soffre
di gelosia.
Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l’angusta
gabbia ritta al vederti
s’alza,
e verso te gli orecchi
alti protende e fermi;
che la crusca e i radicchi
tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui.
Chi potrebbe quel cibo
ritoglierle? chi il pelo
che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?
Tu sei come la rondine
che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest’arte.
Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere:
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un’altra primavera.
Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
parla al bimbo la nonna
che l’accompagna.
E così nella pecchia
ti ritrovo, ed in tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun’altra donna.
Dal Canzoniere, Lina e la coinquilina
La vita ti racconto una e che tutto
in lei si tiene.
Tu puoi questo ascoltare ed anche il bene
togliermi di una breve ora, la pace
sua illusoria. Nutrire
odio non giusto per un’altra donna
(sempre diversa e sempre in te la stessa).
Era un giorno tua madre; oggi, mia Lina,
ha un altro nome. «Al bollitore – dici –
mi lascia sola una fiamma.» Non dici:
«So che hai ragione; so che sempre un poco
ho raspato nei tuoi paraggi». Povera,
vecchia e stanca, gallina.
Da Infanzia
La gabbia è appesa al muro; entro le sta
il caro dono. Egli ha un amico adesso
che assai gli piace. E quando anch’io per gli anni
ero un fanciullo, tre ne avevo. Sopra
di loro, come madre in lieti affanni,
con il più tenero affetto imperavo.
Al merlo austero m’identificavo;
uno stornello era il fanciul vivace,
che non ero, che avrei voluto
essere. In pace
parlavo, e a lungo, a una gallina
Da Storia e Cronistoria del Canzoniere
Emilio Cecchi osservò, a proposito di “Via della Pietà”, l’eccessiva – crediamo la chiamasse peccaminosa – aderenza di Saba alle cose. L’osservazione aveva qualcosa di vero; ma poi si rivelò che il “peccato” faceva corpo con quella totale accettazione della vita, guardata ed accolta interamente, che la nuova critica (Solmi, Varese ed altri) mise in luce nell’opera del Nostro. Via della Pietà era una via adiacente all’ospitale; furono la presenza della malattia e della morte, i “cerei sinistri odori” che uscivano dalla cappella dei morti, ad ispirare a Saba i versi incriminati: “l’eterno addio alle cose di cui temo – perdere solo un’ora”. Ma a quell’eterno addio egli non poteva pensare perché, presso alla porta della cappella, raspava una gallina (la gallina fu quasi un’animale sacro di Saba):
la gallinella che ancor qui si duole
e raspa presso alla porta funesta,
mi fa vedere dietro alla sua cresta
tutta una fattoria piena di sole.
Da Scorciatoie, Il poeta, il cane e la gallina
Il poeta Sandro Penna s’era molto affezionato a una gallina, che sua madre (forse per averne le uova) teneva libera per la casa, come persona. Ma, dopo, ebbe pure una grande cagna; e la gallina gli venne subito a noia. “Magari diceva “che la cagna mangiasse la gallina! Io perfino gliela offro; ma lei – vedessi! – non vuole. Torce il muso dall’altra parte”. Torceva il muso perché pensava Penna gliela offrisse per tentarla; e, se cedeva alla tentazione, punirla. Contro il comandamento del padrone originario – introiettato da millenni, diventato autonomo – : TU NON UCCIDERAI GLI ALTRI ANIMALI DELLA MIA-TUA CASA, nulla poteva l’invito, o l’ordine del padrone attuale. E se Penna voleva davvero sbarazzarsi di un’incomoda amica, doveva ricorrere ad altri mezzi.
Da Scorciatoie
Il poeta Umberto Saba s’era molto affezionato a una gallina, ma, poi, ebbe una grande cagna. Sperò per qualche tempo che la cagna si sarebbe decisa a mangiare la gallina. E in realtà (al tempo di Trieste e una donna) gliene diede fondate, dolorose speranze. Anzi gli sgarbi di Saba, il suo isolarsi in se stesso e rendersi colpevole sono altrettanti atti di umile preghiera: offerte reiterate che si spezzano contro il comandamento del padrone originario. La cagna si rifiutò (non riuscì) ad uccidere l’altro animale della casa; forse perché sarebbe stata punita o forse perché la coesistenza era inevitabile. Così Saba fu costretto, per liberarsi della sua incomoda amica, a ricorrere ad altri mezzi.
Da Ricordi-Racconti, La Gallina
Odone Guasti (che doveva, sotto altro nome, acquistarsi fama di scrittore dalla personalità altrettanto pura ed austera quanto non voluta) era, a non ancora quindici anni, praticante d’ufficio e di magazzino presso una piccola ditta in agrumi a Trieste. […] Egli amava moltissimo le galline vive e gli erano peggio che indifferenti servite a tavola. Quando in una passeggiata solitaria in campagna, in una di quelle passeggiate che hanno spesso nell’adolescenza la durata di marce forzate e la solennità di una conquista, gli apparivano, davanti alle case coloniche o tra il verde dei prati creste e bargigli, egli si rallegrava di ciò come di tante pennellate in cui fosse concentrato il sentimento del paesaggio, e accarezzava volentieri la gallina abbastanza domestica o così maldestra alla fuga da non scappare a tempo davanti alla sua mano amorevolmente tesa. Dove gli altri non sentono che un suono monotono e disaggradevole, Odone ascoltava come una musica sempre variata le voci del pollaio; e specialmente sul far della sera, quando le galline, prese dal sonno, hanno una dolcissima maniera di querelarsi. Meno gli piaceva il gallo; la fierezza e magnanimità di contegno di questo sultano dell’aia, quale apparisce chiaramente davanti un bruco od altro squisito boccone lasciato, non senza visibile lotta interiore, alle femmine, non può essere gustata che da un uomo già esperto della vita, e capace d’intendere il superbo valore di quell’atto e la maschia signorilità ch’è in ogni vero sacrificio. Se alcuno poi gli avesse chiesto perché tanto gli piaceva uno stupido volatile, cui gli altri non uniscono che idee di cucina, il fanciullo non avrebbe forse saputo che cosa rispondere: infatti ai molti che allora glie lo chiedevano non rispose che vent’anni dopo con una lirica poco capita: certo quei pennuti corpiccioli gli parevano veramente impregnati d’aria di campagna e di serenità e delle diverse ore del giorno; aggiungi a questo motivo estetico un altro sentimentale: ed è che Odone aveva lungamente giuocato, nella sua infanzia priva di fratelli ed amici, con una gallina. […] La signora Regina alzò le spalle, si stizzì, si meravigliò, disse che quando si hanno quindici anni fra due mesi, non si gioca più con le galline. Poi lo invitò ad uscire un poco, perché la cena non era ancora pronta, e una passeggiatina gli avrebbe fatto bene. – Chi l’ha ammazzata? – domandò Odone. – Io! Ma perché questa domanda? – Perché credevo che tu non avessi il coraggio di ammazzare i polli. – Da ragazza – disse la signora Regina – non l’avrei fatto per cento fiorini. Ma dopo che sono diventata madre non mi fa più nessun orrore: quando eri convalescente del tifo, con che gusto tiravo il collo a un pollastro, pensando al buon brodo sostanzioso che avrebbe procurato a mio figlio. Odone tacque, perché sentiva d’aver da dire in proposito più a sé che agli altri. Ma da quella sera amò meno, sempre meno, sua madre.
LAVAGETTO M. (1989), La gallina di Saba, Einaudi, Torino.
SABA U. (1998), Tutte le poesie, Mondadori, Milano.
SABA U. (2001), Tutte le prose, Mondadori, Milano.