È una sera di sabato. La passo come al solito da sola al Red Bar, un locale di quelli che un tempo si chiamavano Dancing. La mia amica Mary, che di posti per gente sola se ne intende, mi ha raccomandato: resta lì al bancone, beviti qualcosa di leggero – che una donna beva forte non sta bene – e comunque non bere birra, altrimenti devi correre al bagno ogni quarto d’ora – e anche questo per una donna non sta bene – eppoi aspetta, vedrai che qualcuno si fa avanti… All’inizio ci venivo con qualche speranzella, ma è da tempo che lo faccio solo per abitudine. Ché io in questo locale non ho mai cuccato: qualche volta uno sconosciuto mi si avvicina, poi mi mette a fuoco meglio, mi squadra con un mezzo sorrisino di compatimento, dice: «Pardòn» e se ne va, magari dopo avermi spiegato che da dietro mi aveva scambiata per un’altra… Ché lo so, io sono brutta, con un nas ch’al pìssa in bocca, e oltretutto, come si dice, non ho più neanche le grazie della giovinezza.
Dicono che tutti i bambini sono belli. Mica vero. Io sono stata brutta fin da piccola, con sto naso alla Cyrano… Ci ho tanto sofferto, neh. Ché anche ai tempòribus la supremazia delle belle saltava fuori in ogni occasione: presèmpio, nelle recite scolastiche mi davano regolarmente un posto in fondo, non troppo in vista. E col passare degli anni le mortificazioni son mica diminuite, anzi. Ché è bugiardo il proverbio che dice: L’è scritto in dòmm che la donna brütta la toeù ‘l bell òmm… Bàll de Pédar gall. Sono le belle che mangian le castagne e alle brutte restano solo i gusci da spazzare.
Per questo passo il sabato sera al bancone del Red Bar, mettendo in mostra le scarpette rosso ciliegia dai tacchi alti, la gonna nera con lo spacco laterale, le braccia nude, ma facendo bene attenzione a voltare la schiena al locale: ché solo se nascondo il mio viso posso sperare che qualcuno mi si accosti. Ascolto il chiacchiericcio dai tavolini vicini e li odio tutti: S’i fosse fuoco, arderei ‘l mondo…
Ma stasera è diverso. Ho risposto a un’inserzione di un giornale: “AAA cercasi signorina amante del liscio per sabato sera romantico”. Ci siamo sentiti al telefono. Una voce così dolce, musica per le orecchie… Epperciò stasera lo sto aspettando. Accendo una sigaretta, bevo un sorso d’acqua tonica. Ripenso alla sua voce carezzevole: «Allora ci vediamo sabato». Si chiama Alfredo. Bel nome, neh, che fa sognare: “Amami, Alfredo…”. Gli ho detto che il mio nome è Samantha. La qual cosa è mica vera, ma certo non potevo dirgli che mi chiamo Dosolina: un nome ridicolo… No, stasera sono Samantha, una donna romantica che aspetta un uomo dolcissimo. Lui posso immaginarmelo sulla base della voce: mezza età, alto, bruno, elegante. Se aveste sentito anche voi quella voce al telefono, capireste: una voce come un fiore che apre invitante la sua corolla profumata… Quasi sudo. Mi rimetto un filo di rossetto. In testa risistemo per l’ennesima volta il fiore. Ché lui mi ha raccomandato: «Mettiti un fiore rosso tra i capelli, così ti riconoscerò». Fiore rosso come un amore che invoca, lingue di fuoco amoroso che mi lambiscono e, ardendo, si propagano al locale.
«Samantha?» mi chiede una voce – quella voce – mentre una mano mi tocca leggermente sulla spalla. Mi volto lentamente. Da come rifìgna la faccia, capisco la sua delusione: so che tra nasone e rughe non sono un bel vedere. Ma anche lui è ben diverso da quel che mi ha fatto credere: calvo, guance con le tipiche venuzze di chi beve forte, denti gialli, panza un po’ slòffia; e di anni ne deve avere parecchi più di me. Possibile sia proprio sto sgorbio a avermi parlato al telefono?
Forse si sentirebbe sollevato se gli dicessi che no, che non sono Samantha. Fa un passo indietro, si guarda in giro come se cercasse qualcun’altra, si volta verso l’uscita. Cosa fa sto süfilàri? Scappa? Ho l’impressione che sia indeciso. Ecco però che torna indietro verso di me. Dovrei essere soddisfatta: l’è ‘ndàa via cunt al cüü, ma l’è turnàa indrée cun la faccia.
Mi chiede se voglio ballare. Mi verrebbe voglia di rispondergli di no. Invece mi alzo e lo seguo sulla pista. Mentre aspettiamo che l’orchestrina attacchi, tossicchiando domanda cosa ne penso della crisi economica. Non è proprio la conversazione che mi aspettavo. Gli rispondo che, certo, c’è poco da sfogliar verze a questi chiari di luna. Lui replica che in casa vive con la mamma… Mah. Balliamo un liscio, lui mi tiene a una certa distanza e guarda nel vuoto. Ci ho la testa imbalordita, ché ancora non posso smettere di pensare all’uomo che ho sognato per tutta la settimana. Al secondo liscio sto facciòn da trumba mi dice che un tempo “una come me” lui l’avrebbe invitata al ristorante e poi portata in un alberghetto, ma adesso con sta crisi può solo sperare che la donna abbia una stanza propria e indipendente.
Mi sento ‘l cervello ch’al dùnda, mentre aspetto che parta un nuovo brano. Gli chiedo cosa gli faccia pensare che io sia una di quelle donne che un’ora dopo aver incontrato un tizio ci vanno a letto. Lui risponde che gli sembra evidente: una con le mie caratteristiche – dice proprio così: “con le mie caratteristiche” – cosa può aspettarsi da un uomo? Non certo l’amore… Ma guarda che stronzo presuntuoso. Come se lui fosse un Adone: ché dovrebbe baciarsi i gomiti perché una donna lo guardi una seconda volta.
Al terzo liscio, lui mi mette la mano sul culo e comincia a palpare. Dice che, se la cosa si può combinare, lui è pronto; e butta là che potremmo comprare due cartoni di birrette – precisa che possiamo pagare “alla romana” – prima di salire da me: così ce le berremo, dopo.
Cosa resto qui a fare? Mi sento rimescolare dentro. Ma non ho voglia di piantar giù un baccanèri. Mi limito a rispondergli seccamente che no: puarètt e brütt, sa podi-nò… E me ne vado.