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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 14

 aprile 2017

Saggi e rassegne

Luca Cicchelli

La danza kalela. Il tribalismo urbano postcoloniale e il superamento della finzione identitaria

L’uso pratico dell’identità si configura come una richiesta di sottrarsi alla competizione e alla contestazione, ovvero di raggiungere un tale livello di riconoscimento da rendere incontestabili, e garantite a livello indeterminato, le proprie aspirazioni e le proprie richieste. (REMOTTI 2010, p. 35)

Questa citazione proveniente dal bellissimo saggio L’ossessione identitaria di Francesco Remotti descrive involontariamente in modo accurato la messa in atto di alcune pratiche «tribali» tipiche della situazione urbana post-coloniale africana, analizzate più nel dettaglio dal Rhodes-Livingstone Institute, primo istituto di ricerca teorica etno-antropologica fondato in Africa.

Nello specifico, Clyde Mitchell – antropologo sudafricano facente parte della stessa équipe di studiosi – divenne celebre per la sua analisi situazionale di antropologia urbana effettuata più di sessant’anni fa intitolata Kalela dance. Aspects of social relationship among Urban Africans in Northern Rhodesia (1956), offrendo non pochi spunti di riflessione circa la questione identitaria (più che mai attuale) e soprattutto circa la ricostruzione etnico-culturale dei territori africani nel periodo post-coloniale, mediante il ricorso a studi di caso estesi.

Attraverso la descrizione di una danza popolare, la kalela, lo studioso avrebbe così sviluppato una concezione della struttura sociale urbana delle zone facenti parte della Copperbelt: in una struttura sociale diventata ormai stabile emergevano sempre più frequentemente aspetti della vita condivisa in cui gli individui – autoctoni e non – potevano compiere scelte reali interagendo mediante sequenze più o meno complesse.

Questo tipo di studio comprendeva una visione processuale delle relazioni sociali, astratte dal flusso infinito della vita, ottenendo un groviglio di diversi avvenimenti in cui i soggetti, veri protagonisti, si muovevano liberamente in una società composta da regole ambigue e conflittuali. Occorre dunque innanzitutto comprendere come una danza considerata eredità diretta del «tribalismo urbano» abbia potuto concorrere a una ridefinizione, apparentemente paradossale, dell’identità etnica e culturale di una comunità locale.

I cenni storici farebbero risalire le origini di questa danza agli anni ’30 del Novecento, quando essa era inizialmente nota con il nome di mbeni. La kalela venne successivamente introdotta da un uomo chiamato Kaulu sull’Isola Chisi nei pressi del Lago Bangwelu, abitata allora dagli Ng’umbo. Egli, aggregandosi al reggimento della Rhodesia Settentrionale, ebbe il permesso di portare con sé tamburi e percussioni per poter continuare con le sue danze nei momenti di svago. Fu proprio in quel frangente che formò un gruppo di danzatori capitanato da lui stesso, che fortunatamente continuò a crescere in notorietà e dimensioni fino a diventare una vera tradizione e attività collettiva a partire dalla fine della guerra della Copperbelt, durata dal ’39 al ’45. Il contatto tra due gruppi di uomini e donne di provenienza geografica e locale molto diversa, l’uno egemone sull’altro, aveva prodotto una nuova danza dell’orgoglio: la kalela.

Nel compiere l’analisi della kalela dance, Mitchell dovette concentrarsi, oltre che sulla mera rappresentazione e sul suo significato simbolico, anche sugli attori sociali coinvolti in essa. Mise poi in relazione la danza con i legami sociali in uso fra gli Africani della Copperbelt e illustrò in particolare i rapporti fra bianchi e neri della Rhodesia, tenendo in considerazione l’intero tessuto sociale del territorio.

Kalela: istruzioni per l’uso

La kalela dance veniva eseguita generalmente in un luogo pubblico all’interno delle aree residenziali dei nuovi contesti urbani africani, solitamente la domenica pomeriggio in un momento di rilassamento generale. Il gruppo di danzatori era composto da una ventina di persone molto giovani – tra i venti e i trent’anni – tutti provenienti da ceti sociali bassi, appartenenti al mondo del lavoro manuale o poco qualificato, come manovali, contadini o muratori. Essi, vestiti di tutto punto, con magliette pulite, pantaloni lunghi, camicie ben stirate e scarpe lucidate erano gli interpreti diretti di questa danza sfrenata. Tra questi si distinguevano due personaggi principali: il «dottore» ovvero colui che indossava una lunga tunica bianca, con una croce rossa sul petto – tanto per rimarcare la contaminazione simbolica in atto. Il dottore doveva assicurarsi dello stato di salute della danza, mantenendo sempre alto il ritmo e l’intensità della prestazione. L’ «infermiera», unica donna facente parte dell’équipe performante, si aggirava danzando, dimenandosi a ritmo di musica fra gli attori sociali, con uno specchio e un fazzoletto, offrendo eventuali rapidi momenti di ristoro ai giovani danzatori. Il pubblico era anch’esso parte integrante della messa in scena, poiché gli spettatori – etnicamente omogenei, ma di norma quasi totalmente autoctoni – potevano eventualmente prendere l’iniziativa e aggiungersi liberamente alla celebrazione, qualora si fossero sentiti partecipi e attirati dai ritmi incalzanti, nonché dai canti roboanti della kalela.

I temi trattati nelle canzoni improvvisate dal capo del gruppo riguardavano principalmente le caratteristiche della vita urbana; tuttavia molte inneggiavano alla diversità etnica, elogiando la bellezza del loro paese e le virtù delle tribù danzanti, non mancando di mettere in ridicolo gli altri gruppi etnici con i loro usi e i loro costumi. La kalela potrebbe anche essere concepita come un vero e proprio tentativo di «proto satira africana», cosa assolutamente inedita, indirizzata alla compagine coloniale europea che aveva da secoli cercato di soggiogare l’egemonia culturale autoctona imponendo un regime filo-occidentale rigoroso, nel tentativo di imbastire un progetto di «rieducazione antropologica».

I danzatori kalela con il loro spettacolo dunque mettevano in luce la vera natura del «tribalismo urbano», poiché le persone scelte per esibirsi erano selezionate secondo un criterio etnico (ad eccezione della presenza di almeno un membro ngoni), nonostante la rappresentazione non potesse essere definita semplicemente «tribale» in quanto non derivava direttamente dalla tradizione Bisa dei gruppi locali di Luanshya. L’introduzione nella danza di figure «occidentali», come il dottore, l’infermiera e il generale, derivava dal contatto con gli europei nella prima metà del XX sec. in Africa Orientale e Centrale. Gli interpreti per cercare il riconoscimento e l’incontestabilità delle proprie richieste, intendevano apparire eleganti. Gli operai sembravano desiderare una sorta d’identificazione con il modus vivendi più civile incorporato nelle azioni e nelle vesti dei colletti bianchi. Si trattava quindi di un tentativo di assimilazione identitaria da parte degli africani, soggetti all’influenza del potere coloniale che negli anni aveva diffuso una maniera di concepire la vita sociale a immagine e somiglianza dell’ideale occidentale. La danza kalela si inseriva dunque alla perfezione in un meccanismo antropo-poietico (REMOTTI 2013, p. 161) di creazione, di finzione umana auto-rappresentativa, necessaria per l’uomo, al fine di orientarsi nel quotidiano mediante la costruzione della propria identità, sia individuale sia collettiva.

Precisamente, tale cultura tribale era lo specchio dei valori e delle esigenze organizzative della comunità urbana legata alle attività minerarie, ovviamente regolata dalle disposizioni degli europei alloctoni; è proprio tale esperienza urbana degli immigrati locati nella città della Copperbelt ad aver implicato una coabitazione fra stranieri di diversa origine etnica. Non è un caso che in ambiente urbano si sia verificato uno scenario simile, perché è proprio la città a essere – per antonomasia – il luogo degli incontri e della ridefinizione di gerarchie sociali, prodotte dal contatto di culture diverse. Nelle città le istituzioni tribali ormai non funzionavano più come degli agglomerati sociali a forte coesione, con obiettivi, organizzazione sociale e Weltanschauung condivisi. Di conseguenza il ruolo cruciale occupato dalla kalela dance rimaneva quello di «definizione delle relazioni interetniche nelle città, relative al bisogno di conoscere valutare e trattare le persone secondo l’identità etnica» (HANNERZ 1980, p. 257).

Tribalismo e delegittimazione dell’ossessione identitaria

Il «tribalismo» incarnava quindi il bisogno tipicamente urbano di classificare le persone nelle città e il metodo utilizzato nella zona della Rhodesia Settentrionale includeva la rappresentazione scenica della danza kalela e dello scherno. Questa presa in giro e questa satira nei confronti dell’alterità etnica e culturale in loco, è soltanto uno degli espedienti antropo-poeitici di co-costruzione della realtà che ci circonda. L’essere afferrabile dell’identità, parimenti alla sua separatezza e alla sua distinguibilità da ciò che noi consideriamo «altro», sono finzioni illusorie i cui effetti e perversioni che sfociano in atti drammatici di violenza e intolleranza sono visibili a tutti.

Il modo sottile di sublimare la componente conflittuale che si cela dietro all’integrazione multiculturale in un milieu sociale – in questo caso urbano – della danza kalela, diretta espressione del «tribalismo», dovrebbe far riflettere sulle modalità e soprattutto sulle motivazioni in seno all’intolleranza culturale e all’etnocentrismo sfrenato che hanno caratterizzato gran parte della storia occidentale moderna e contemporanea.

I tentativi di «de-tribalizzazione mediante urbanizzazione» del cittadino africano trovarono una sorta di resistenza nell’espressione etnica e culturale della danza cosiddetta «dell’orgoglio». Seguendo la linea sociologica che vede la città come teatro, la rappresentazione della danza kalela potrebbe perciò essere interpretata come uno sforzo compiuto dagli individui, più o meno consapevolmente, per presentare un’immagine di sé che sia vantaggiosa e credibile per gli altri (GOFFMAN 1969, p. 56).

L’ossessione identitaria, che tormenta l’uomo sin dagli albori della sua esistenza e della sua creazione, data la sua natura di essere sociale, ha qui avuto un’ulteriore conferma dei propri limiti, poiché si configura come mera strategia difensiva nei confronti degli altri, del tempo e della natura. La sua pretesa di essere riconosciuta toutcourt collide con le pratiche di costruzione culturale dell’uomo, perennemente soggette a mutamenti nello spazio e nel tempo.

Analizzando la nozione di situazione coloniale, ero arrivato a dimostrare che le crisi attraversate dalle società colonizzate sono altrettante finestre aperte non soltanto sui fenomeni di contatto e dominio, ma anche sulle antiche strutture di quelle società, che danno origine a “insiemi e a relazioni essenziali”.

(BALANDIER 1971, p. 224)

Il teorico dell’antropologia dinamista e della «situazione coloniale» pone l’accento sulla questione legata al rapporto di egemonia fra colonizzati e colonizzanti in seno alla produzione di relazioni sociali, ribadendo la necessità di considerare anche le antiche caratteristiche in seno all’identità etnica e culturale dei gruppi colonizzati. La danza kalela, con tutte le sue apparenti contraddizioni interne, può e deve essere considerata un paradigma antropo-poietico originale, perché nella sua rappresentazione tragi-comica ribadisce e smentisce allo stesso tempo la prevalenza di un gruppo etnico sull’altro in un contesto culturalmente labile come quello post-coloniale africano nella prima metà del Novecento.

Il tribalismo urbano è un veicolo di accettazione culturale di uno dei più grandi miti drammatici del nostro tempo, l’identità. Le parole dello scrittore irlandese Samuel Beckett non fanno altro che confermare questa posizione: «Prima balla, poi pensa. È l’ordine naturale delle cose».

BIBLIOGRAFIA

BALANDIER Georges (1973), Le società comunicanti. Introduzione all’antropologia dinamista, Laterza, Roma

HANNERZ Ulf (1992), Esplorare la città. Antropologia della vita urbana, Il Mulino, Bologna

GOFFMAN Erving, (1997), La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna

MITCHELL J. Clyde (1956),The Kalela dance. Aspects of social relationships among urban Africans, Manchester University Press, Manchester

REMOTTI Francesco (2010), L’ossessione identitaria, Laterza, Bari

REMOTTI Francesco (2013), Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Laterza, Bari

LE IMMAGINI

Le prime cinque foto sono state scattate da Clyde Mitchell tra il 17 giugno 1951 e il 21 marzo 1952.

La foto n.1 ritrae il capo dei danzatori, tribú Bisa, una domenica pomeriggio (17 giugno 1951).

Le altre foto (nn.2-5) ritraggono scene di danza kalela presso la tribú Bisa nel quartier generale di controllo a Luanshya. Alcuni indossano vestiti europei puliti ed eleganti. Vengono cantate canzoni che esaltano le radici mitiche della tribú Bisa mentre altri inneggiano alla kalela invitando il pubblico circostante a ballare (17 giugno 1951, domenica pomeriggio).

Le successive due foto ritraggono una riproposizione in chiave moderna della danza kalela immortalata negli anni Novanta da Lyn Schumacher.

La foto n.6 celebra la vivacità della musica e dei colori della rappresentazione kalela.

La foto n.7 vede l’infermiera, unica donna presente nel corpo di ballo, scatenarsi a ritmo delle percussioni Bisa.