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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 18

 aprile 2019

Saggi e rassegne

Ludovico Fiamozzi

Riflessioni su Jocelyn uccide ancora

 

La pubblicazione nel settembre del 2018 di Jocelyn uccide ancora, scritto da Lo Sgargabonzi ed edito da Minimum Fax, può farci riflettere su alcune tendenze cruciali del racconto comico contemporaneo. Dietro questo bizzarro pseudonimo si nasconde Alessandro Gori, proprietario di una pagina Facebook che conta ventinovemila iscritti e nella quale pubblica status comici di varia natura e di varia lunghezza. I contenuti possono passare dalla frase nonsense, fintamente riflessiva, alla foto di un personaggio famoso corredata da un’improbabile didascalia, a scritti umoristici più strutturati e distesi. Pur avendo già pubblicato tre libri con la piccola casa editrice Fuorionda, è con questa raccolta che Lo Sgargabonzi dà forma compiuta alla propria idea di comicità.
Jocelyn uccide ancora contiene cinquanta brevi testi intervallati da dieci interludi. Il primo aspetto che si nota sfogliando le pagine del libro è che questi racconti sono solo in parte assimilabili a quelli presenti sul social network. Un libro e una pagina Facebook costituiscono due contenitori tanto lontani quanto significativi, dal momento che richiedono mezzi diversi per esprimere il potenziale comico di un testo scritto. Lo Sgargabonzi, nel passaggio dal digitale all’analogico, perde alcuni artifici utili nella costruzione del suo discorso.
Innanzitutto cade il supporto delle immagini, riproducibili certo anche sulla carta stampata ma senza poter contare sull’impatto che possono avere su internet. In secondo luogo cambia il contesto. Nel libro ogni pezzo è isolato e indipendente, perciò la sua riuscita è tutta basata sulla capacità della scrittura di creare un effetto comico, mentre lo status di Facebook si pone in un flusso rapidissimo di informazioni, con una propensione alla fruizione da parte del lettore meno attenta e lenta. Il suo collocarsi tra un prima e un dopo permette ai contenuti della pagina dello Sgargabonzi di poter giocare al meglio con l’effetto di straniamento che provocano le sue parole, con racconti surreali ripugnanti e riflessioni politiche deliberatamente banali che si innestano tra le foto degli amici e gli articoli di giornale. Il terzo e conclusivo aspetto che modifica la comicità dell’autore nel passaggio tra diversi media riguarda la ricezione e la reazione dei lettori. È logico che un libro abbia un bacino di lettori minore, ma non è solo una questione numerica. La reazione ad un certo contenuto su Facebook è sempre amplificata ed enfatizzata rispetto all’oggetto-libro. Lo Sgargabonzi si arrischia spesso in argomenti spinosi, come la Shoah o la violenza sulle donne, e la naturale conseguenza è una babele di commenti, tra i difensori dell’autore e gli accaniti detrattori (vd. il tweet di Daniele Luttazzi che definisce l’autore «un campione dello sfottò fascistoide»).
Il discorso sulla scrittura comica nata nel web presenta molti aspetti che meriterebbero di essere approfonditi ma che qui risulterebbero fuorvianti. Entriamo ora nel merito dell’analisi dei cinquanta pezzi presenti in Jocelyn uccide ancora e vediamo brevemente che risultati abbia dato questa riconfigurazione della scrittura dello Sgargabonzi. L’elemento su cui l’autore sembra dare le migliori prove riguarda il genere dell’autobiografia ironica, cioè la presentazione di sé in una chiave deformante che ingigantisce i difetti e che rende il protagonista un inetto, soprattutto in situazioni molto banali. È un espediente figlio della migliore stand-up comedy americana, genere che si sta diffondendo anche in Italia, dove Lo Sgargabonzi si autodefinisce miglior performer in circolazione.
Ci sono in particolare due racconti che mostrano l’ottima capacità dell’autore nel destreggiarsi in questo genere. E addirittura ripassano più volte narra in prima persona un normalissimo viaggio da Arezzo a Milano in Frecciarossa. Tutto nasce da un’improvvisa offerta del sito Trenitalia che propone, con un supplemento di soli cinque euro, di poter vivere un’esperienza unica, il viaggio in prima classe. In un momento di grande euforia, il protagonista decide di approfittarne e compra il biglietto, convinto che potrà recuperare quel sovrapprezzo usufruendo del servizio ristorazione delle Ferrovie dello Stato. Ben presto viene però colpito dalla paranoia di non essere all’altezza della situazione: «ero terrorizzato all’idea che mi fermassero, “Lei qui non può starci!”, per via […] della felpa in pile senza niente sotto, il cappellino, la dermatite, la soccombenza esistenziale che mi si legge in faccia» (p. 43). La preparazione attenta e ansiosa è tutta rivolta ad «apparire come uno che ci sta tutto che sia in prima classe» (p. 43), ma non raggiunge lontanamente l’effetto sperato. Le poche ore passate in Frecciarossa sono un’escalation di figuracce e di situazioni imbarazzanti, in cui il protagonista mostra tutta la propria inadeguatezza all’esistenza. Al primo passaggio del vettovagliante ordina la bevanda più costosa, un bicchiere di spumante Berlucchi, che lui pronuncia erroneamente Belucchi, attirando subito l’antipatia del dipendente, che cresce sempre più nel prosieguo del racconto. All’arrivo del controllore mostra tutto ciò che ha, il biglietto stampato, la carta Trenitalia, il documento d’identità, nella paura di poter essere cacciato ma con l’unico risultato di ricevere la reazione stizzita e altezzosa del capotreno. Dinanzi a lui si siede un banchiere giapponese, a cui sfiora per sbaglio il piede, rendendosi conto «dall’espressione imperturbabile […] che lui pensa che sono gay» (p. 44) e provando per tutto il viaggio a confutare questo sospetto con gesti plateali e mosse ridicole. Alla fine del racconto, dopo l’uscita dal bagno con le mani ancora insaponate a causa di un guasto del rubinetto, sotto l’occhio attento di una signora convinta che si sia masturbato, scopre che il giapponese ha cambiato posto, e il narratore conclude: «è da allora che ho due desideri, totalmente contrastanti: voglio morire, però in compenso subito» (p. 46). Il protagonista si trova in una situazione classica della comicità, specie quella della stand-up comedy. Il narratore viene collocato in un contesto che non gli appartiene, nel quale i suoi tic e i suoi difetti assumono dimensioni iperboliche, che trasformano un fatto banale in un’esperienza terrificante.
L’altro racconto che dimostra la potenzialità dell’autobiografia ironica in queste pagine si intitola La mia amicizia con Nanni Moretti, ricordo adolescenziale dell’incontro con il regista preferito. Il protagonista viene a conoscenza del fatto che Nanni Moretti verrà nella sua città per tenere una conferenza. La descrizione che il narratore fa di sé, a distanza di molti anni, è impietosa: «ero un grassone di merda con un cappellino mediorientale glassato di resina, un involtino di tutti i tic possibili, sudato, impaurito dal mondo, con un gilè che mi aveva fatto mia mamma […]» (p. 71). Convinto di poter diventare suo grande amico, gli scrive una lettera che parte con una distaccata attestazione di stima e si conclude con un penoso invito al mare, all’hotel Rosen Garden di Milano Marittima dove passa ogni estate le vacanze insieme ai genitori. A fine incontro riesce finalmente ad avvicinare il regista, e snocciola senza nessuna richiesta una fitta serie di citazioni colte dei suoi film e commenti critici che vorrebbero essere brillanti. Nanni Moretti è scontroso e indifferente, in linea con l’immagine di intellettuale poco affabile con cui è conosciuto. Il protagonista si rende conto di non aver colpito minimamente il suo idolo e in un ultimo gesto disperato gli consegna una borsa contenente la lettera e un cd in regalo, ma ottiene lo sguardo diffidente e disgustato del regista, che osserva quell’oggetto sgradito come fosse «un sacchettino per l’analisi delle feci» (p. 73). Il racconto si conclude con il giovane autore insonne accanto al telefono, nella speranza che Nanni Moretti ci ripensi e che lo chiami per scusarsi. Il telefono squilla alle sei di mattina ma l’aspettativa del protagonista viene ancora una volta delusa: «mi gettai sulla cornetta col cuore che mi batteva forte e le lacrime agli occhi per la gioia e urlai: “PRONTO!” Erano i Carabinieri, avevano trovato mio padre impiccato. Era molto malato e non ce l’aveva mai detto» (p. 74). Nel racconto forse più importante di Jocelyn uccide ancora sono racchiuse alcune delle caratteristiche più rilevanti presenti in queste pagine: la descrizione grottesca e paradossale della propria incapacità di vivere; lo svelamento dell’inconsistenza dei grandi totem della cultura e di chiunque si prenda troppo sul serio; l’allusione alla morte e alla malattia nelle ultime righe, esempio di un certo umorismo macabro congeniale allo Sgargabonzi.
Questi sono i punti interessanti di un libro in cui la varietà e il numero di racconti porta con sé un certo grado di disomogeneità. Ad esempio il sarcasmo applicato a temi tabù, come la Shoah e l’aborto, porta a risultati alterni. Il racconto Anna Frank 2000 che apre la raccolta ricostruisce una pagina di diario della celebre ragazzina vittima dell’Olocausto e la riadatta agli anni Duemila e alla cultura televisiva. Non mancano frasi che sembrano prese da un romanzo di Federico Moccia («…li avrebbe seguiti verso un destino già scritto», p. 11; «gli attimi successivi sono durati in eterno», p. 11), così come le formule da confessionale del Grande Fratello, con l’eliminazione del concorrente che qui si sovrappone al sacrificio del padre («solo che ormai siamo rimasti in pochi e io chiaramente adesso devo andare per esclusione, tanto che volevo nominarmi io stessa ma mi hanno detto che non è possibile», p. 12). Il pezzo riesce nel suo intento, la desacralizzazione comica di un’icona intoccabile, qui ridotta ad adolescente non molto sveglia e priva di mezzi per comprendere il contesto drammatico in cui vive. Non altrettanto riusciti sono invece alcuni racconti che si muovono nel territorio del politicamente scorretto con autocompiacimento e puerilità. 20 cose che non sai sull’aborto gioca tra cinismo e nonsense, elencando appunto alcuni fatti che potrebbero succedere durante l’operazione, tra le quali spicca: «L’aborto più amaro è quello in cui il bimbo apre gli occhietti al miracolo della vita dieci secondi prima della CLAMOROSA MARTELLATA FATALE!» (p. 134). Il politicamente scorretto, anch’esso molto diffuso nella stand-up comedy, si presenta in alcuni casi in forma ricattatoria. Chi non lo apprezza è bigotto, non abbastanza al passo con i tempi, e perciò è difficilmente criticabile senza passare per retrogrado. Tuttavia questa trappola progressista viene utilizzata da alcuni comici come scudo per proteggere un umorismo di basso livello. Se il pezzo su Anna Frank funziona, quello sull’aborto, tolto il cinismo e l’amara ironia, sembra svelare solo cattivo gusto.
La disomogeneità del libro emerge anche in alcuni pezzi in cui Lo Sgargabonzi esce dalla sua comfort zone, con risultati non sempre degni di nota. Il tono surrealistico-fiabesco di Hans e Gretchen non sembra essergli congeniale, così come i pezzi costruiti su giochi linguistici, ad esempio Incidenti stradali in strada saputi da militari fraintendenti e Approfondire la descrizione di un ambiente povero danno la sensazione di essere riempitivi e interlocutori.
Pur con i suoi difetti, Jocelyn uccide ancora rimane un libro importante per cercare di capire alcuni elementi della narrazione comica attuale, per almeno tre motivi. Prima di tutto l’influsso sempre più forte degli stilemi della stand-up comedy sulla scrittura umoristica, una tendenza che sembra rinforzarsi in Italia negli ultimi anni. In secondo luogo per osservare le forme di comicità nate sul web e che risultati diano quando sono trasposte sulla pagina stampata. Infine per affrontare un discorso, tanto interessante quanto scivoloso, sul politicamente scorretto contemporaneo.