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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 16

 aprile 2018

Saggi e rassegne

Luisa Bertolini

Anadioménon: le figure dell’ironia in Alberto Savinio

La vita è un fanciullo che gioca,
che sposta i pezzi sulla scacchiera:
reggimento di un fanciullo

Eraclito

La metafisica

Orientarsi nel labirinto della produzione artistica di Alberto Savinio per comprendere il significato che l’autore assegna al termine ‘ironia’ e per metterne in luce la funzione nelle diverse forme della scrittura, della pittura e della musica, è un compito che dichiaro fin dall’inizio molto difficile, se non impossibile, nonostante i numerosi contributi della letteratura critica. Lo «humour libero e divagante», come lo ha definito Guido Guglielmi (L'”Hermaphrodito” di Alberto Savinio, in GUGLIELMI 1986, p. 161), già allarga o sposta il piano dell’indagine dall’ironia allo humour e all’umorismo, ma subito, dietro l’angolo, incontriamo la parodia del travestimento, il grottesco della caricatura, il sarcasmo dell’invettiva, la freddura del gioco di parole, insomma le tante possibili declinazioni del comico.

Mi limiterò quindi all’analisi dei primi scritti di estetica di Alberto Savinio che riassumono sul piano teorico le linee di ricerca elaborate immediatamente prima e durante la grande guerra, assieme al fratello Giorgio De Chirico, e che avevano dato luogo alle sperimentazioni musicali e a Hermaphrodito di Alberto e alla pittura metafisica di Giorgio, tra futurismo, dada e prefigurazione del surrealismo. Per certi versi il bagaglio di figure e di metafore elaborate in questo periodo rimangono a fondamento anche della produzione successiva: lo stesso autore lo ha riconosciuto per Hermaphrodito (Piccola guida alla mia opera prima, in SAVINIO 1995, pp. 923ss.), qui lo estendiamo anche alla poetica. Il principale tra gli articoli di quegli anni ha per titolo Anadioménon. Principi di valutazione dell’Arte contemporanea ed è comparso nel numero 4-5 di aprile-maggio del 1919 della rivista “Valori plastici” diretta da Ardengo Soffici (per una panoramica completa della rivista cfr. FOSSATI 1981). La parola greca significa ‘qualcosa di nuovo che emerge’: «iI mondo è di continuo – come Venere – anadioménon: che di continuo, su da qualche mar che lo gestiva in un travaglio misterioso si suscita un novello dio» e questo nuovo è dapprima qualcosa di «fantasmico»: «fantasmico, per: incipiente fenomeno di rappresentazione; genesi di ogni aspetto. E, rispetto all’uomo: stato iniziale del momento di scoperta, allor che l’uomo trovasi al cospetto di una realtà ignota a lui dapprima» (SAVINIO 2007, p. 46, in seguito NV). Con toni quasi profetici e certamente nietzscheani Savinio inizia, in forma aforistica, la presentazione e la difesa della pittura metafisica di De Chirico e Carrà presentando, da un lato, una natura eraclitea in continuo divenire e, dall’altro, l’artista capace di cogliere e di fissare il momento in cui la sua essenza si palesa nella forma di un dio che nasce dalle acque.

Metafisica chiama l’autore questo penetrare nell’essenza delle cose: il concetto lo aveva già elaborato, sulla scia di Schopenhauer, in ambito musicale; avrebbe dovuto significare la costruzione di una musica nuova, pura, severa, austera e astratta, ma il progetto fallisce, probabilmente per lo scoppio della guerra (SABBATINI 1997, parte II, cap. III). Dal naufragio Savinio salva però il termine filosofico che applica all’arte intera approfondendone il significato. Metafisica, chiarisce ora, deve intendersi nel senso di Nietzsche: non si tratta di andare oltre il mondo sensibile per accedere a un mondo dietro il mondo, ma di coglierne l’essenza guardandolo con occhio nuovo:

Con l’acquistare questo senso nuovo e vasto in una realtà più vasta, metafisico, or non accenna più a un ipotetico dopo-naturale; significa bensì, in maniera imprecisabile – perché non è mai chiusa, ed imprecisa dunque, è la nostra conoscenza – tutto ciò che della realtà continua l’essere, oltre gli aspetti grossolanamente patenti della realtà medesima. (NV, p. 48)

E più avanti: «dichiaro, una volta per sempre, di non ammettere la spiritualità che in quanto congiunta direttamente alla materia, e, con questa, costituente un’unità indivisibile (NV, p. 56). Prima di rivelarci cosa si possa cogliere dentro l’apparenza, l’autore abbozza una breve storia della nuova pittura che prende avvio dallo sguardo muto di Cézanne in grado di penetrare dentro gli oggetti, nel loro fondo, e dalla sua capacità di riprodurre sulla tela la realtà delle cose «semplicemente indistruttibili nella loro ostinata presenza», come aveva scritto Rilke (cfr. Andreina Lavagetto, Rilke: le lettere su Cezanne, in CIANCI 2001, p. 61). Tale risultato è ottenuto, secondo Savinio, «scrutando plasticamente l’atmosfera» e condensandola «nel solido delle forme», in altre parole, facendo agire i colori tra loro in modo da costituire la cosa senza lasciare alcun residuo, estraniandola dalla sua utilizzabilità e collocandola in un contesto corposo ed estraneo alla realtà familiare e quotidiana, conferendo alla rappresentazione qualcosa di «pieno e polposo», quasi «sonoro», scrive più avanti. «L’arte sua – continua – si definisce: dissezione degli aspetti naturali, riprodotti pittoricamente col meccanismo di una tecnica che qualificherò: anatomia primitiva». Una dissezione che forse ricorda la linea serpentina che per Hogarth costituiva il principio dell’arte pittorica e che la contemporanea pittura di De Chirico illustrava nella costruzione dei manichini spaesati nelle piazze d’Italia (per la figura del manichino e l’origine in Savinio della figura dipinta da De Chirico, cfr. SABBATINI 1997, pp. 244-248).

Savinio sottolinea anche il carattere classico di questa pittura che utilizza strumenti tradizionali «torcendoli sotto la morsa di una ironia vivificatrice» (NV, p. 49). Sull’ironia più avanti. Sull’esigenza di collocare l’arte sua e del fratello nella tradizione classica è necessario considerare lo scritto Anadioménon nel contesto della produzione letteraria ed estetica di Savinio del periodo dell’immediato dopoguerra, che lo vede impegnato nelle polemiche culturali e politiche degli anni dell’affermazione del fascismo, non senza incertezze e forti contraddizioni anche sul piano politico, come la letteratura critica ha già messo ampiamente in rilievo (cfr. in particolare il saggio di Paolo Baldacci, Savinio e il surrealismo, VIVARELLI, BALDACCI 2002, e il libro di Paola Italia, Il pellegrino appassionato. Savinio scrittore. 1915-1925, ITALIA 2004).

Il nuovo classicismo non ha quindi nulla a che vedere con il neoclassicismo proclamato da Winkelmann o con il semplice ritorno all’arte classica dei greci e dei romani e sembra abbastanza lontano anche dagli altri progetti contemporanei che si richiamano al classicismo. Rievocare la tradizione non esclude di considerare classico il bisonte disegnato dagli uomini preistorici, gli Xoana primitivi dei greci, i disegni sui vasi di Douris, accanto alle opere del Rinascimento. Serve piuttosto a sottolineare – con qualche accento sciovinista antifrancese – l’incapacità della Francia a recepire il rinnovamento spirituale, per il suo attaccamento al naturalismo e al positivismo, mentre la linea messa in rilievo dall’autore parte dalla Grecia e, attraverso la «filosofia spiritualista» (NV, p. 54) di Campanella, Bruno e Vico, giunge alla Germania di Nietzsche e torna in Italia con la pittura metafisica di De Chirico e di Carrà. Il primo elemento proprio di questi pittori è, scrive: «pienezza di rappresentazione della necessità spirituale nei suoi limiti plastici» (NV, p. 61). È quindi la capacità di contemplare nei dettagli l’essenza delle cose (cfr. SCHOPENHAUER 1983, pp. 556-557), di decifrarne la fisiognomica, di sorprendersi di fronte a una Natura popolata di dei e di fantasmi che appaiono nell’ora meridiana quando le ombre si accorciano generando l’ossimoro surreale della luce nera che più volte ricorre nei testi di questo periodo. Giorgio De Chirico aveva scritto l’anno prima: «”Il mondo è pieno di demoni”, diceva Eraclito l’efesio, passeggiando all’ombra dei portici, nell’ora gravida di mistero del meriggio alto […] Bisogna scoprire il demone in ogni cosa» (DE CHIRICO 1918). «Sono invaso dall’animismo dei fenomeni e delle cose» conferma Savinio in Hermaphrodito presentando la sua capacità visionaria come capacità di creare stupore, lo stesso stupore che provano i contadini di fronte al maniscalco del centauro di Böcklin, il centauro che ritorna puntuale negli scritti e nei quadri dei Dioscuri (SAVINIO 1995, p. 24; sul centauro come essere completo cfr. GREWE 2001, pp. 413-414).

Questo secondo elemento del programma estetico di Anadioménon ripete quanto detto a proposito di Cezanne: è definito come la «potenzialità espressiva della spettralità degli aspetti». L’autore vorrebbe subito chiarirne il significato per allontanare il sospetto che si tratti di qualcosa di misticheggiante, di una «diavoleria»; afferma quindi che l’artista deve saper togliere ogni elemento eterogeneo, ogni aspetto superfluo, ridurre le cose alla loro essenzialità. Su questo punto Paola Italia cita un breve scritto del 1948, nel quale Savinio ricorda che lui e il fratello avevano insistito, al tempo della proposta dell’arte metafisica, sullo «spettro» delle cose, «ossia sulla loro sembianza interna»: «l’anatomia interna era un elemento che più spesso ricorreva nella nostra poesia metafisica, come un’architettura”, come una specie di “geografia” di quella nostra poesia» (Talete e Pitagora, in SAVINIO 2004, p. 737). Subito dopo però Savinio semplificherà il discorso e parlerà della metafisica come prefigurazione della psicanalisi rivelatrice di un motore psichico che anima il mondo delle cose e degli uomini.

L’autore, interprete di se stesso, non sembra però chiarire il significato dello “spettro” e della “spettralità” che senz’altro invadevano i quadri di De Chirico e i primi scritti di Savinio, a partire dal mostro che partorisce le uova calde e mosce e dall’uomo senza voce, senza occhi e senza volto che aprono i Chants de la mi-mort (traduzione in CIRILLO 1997, cap. 6), e che proseguono nelle pagine iniziali di Hermaphrodito, in cui – tanto per fare un solo esempio – l’anarchica donna calva si arrampica come lucertola di latta sulla statua di Emanuele Filiberto per trafiggerlo con un pugnale.

Non so se la psicanalisi animi il mondo delle cose oltre a quello degli uomini, ma l’artista metafisico non è solo spinto dall’eros dionisiaco; egli, inteso come moderno mago – così aveva scritto nel saggio precedente, nel primo numero di “Valori plastici” (NV, p. 35) -, doveva rivelare la natura intima e segreta delle cose e popolare il mondo degli infiniti spettri e fantasmi che ricompaiono in tutta la produzione letteraria e pittorica del nostro autore. Basti pensare al divertentissimo racconto Primo amore di Bombasto in Narrate, uomini la vostra storia (1942), quando Savinio saprà avanzare con movenze più leggere nel suo mondo fantastico. In questo scritto il fantasma di Paracelso riemerge dal passato uscendo dal quadro di una stanza d’albergo viennese per circuire e iniziare all’amore vero la romana signora Pina Poma che «durante la contemplazione del ritratto ha traversato senza avvedersene l’equatore che divide il razionale dall’irrazionale, il fisico dal metafisico» (SAVINIO 1984, p. 321). Il mago era venuto al mondo abbandonato dalla madre morta nel partorire, condannando il futuro alchimista a una vita di pellegrino. Per questo non era nemmeno riuscito a morire del tutto, aveva continuato a vivere per ben quattrocentoquarantaquattro anni, in maniera per così dire ridotta, negli oggetti che amava e in questo ritratto, copia del Rubens che, a sua volta, l’aveva copiato da un contemporaneo del Bombasto, morto o, meglio, mezzo morto, trent’anni prima della nascita del pittore fiammingo.

L’ironia

Dopo questo abile rovesciamento del metafisico nel faceto torniamo indietro nel tempo, al terzo punto del programma di Anadioménon: l’ironia. La natura ama nascondersi: Savinio cita Eraclito – e se ne ricorderà anche molti anni dopo quando scriverà la recensione del libro di Colli che, nella prima edizione, recava come titolo Fusiscruptesthaifilei (SAVINIO 2004, pp. 920-924). L’uomo di genio riesce però a squarciare il velo dell’apparenza per cogliere quello che la Natura cela in sé stessa, ma questo nucleo terribile e irrazionale, che sembra avere i caratteri della volontà di Schopenhauer e del dionisiaco di Nietzsche e che più tardi assumerà anche quelli dell’inconscio di Freud, la Natura non può mostarlo nella sua immediatezza, non può mostarsi nuda: essa è pudica, ma pudico è anche l’artista che la vede e il pudore lo costringe alla deformazione: di qui nasce l’ironia.

Ironia.

Eraclito, in un frammento riportato da Temistio, dice, per la Natura, ch’essa ama nascondersi. Questo frammento si sfiora in una varietà di interpretazioni: Che la Natura ami celarsi a sé – per un fenomeno di auto-pudore – ragione etica racchiusa. Poi, che questo pudore nasca dai rapporti della Natura con l’uomo. Mi fermo a questa posizione: vi scopro la ragione prima che genera l’ironia. In fondo, non è che una ragione di nudità – per conseguenza di morale.

Nella pittura, l’ironia tiene una parte importantissima allorché la coscienza dell’artista raggiunge un punto massimo di chiarezza; che percepisce nettamente allora la precisione originale della Natura, la quale precisione, riflessa nell’uomo e, pel tramite di questo destinata ad esternarsi in una ulteriore rappresentazione, produce una reazione sottilissima, ma elementare e umana che, ripeto, si può chiamare pudore. È questa ragione che induce l’artista, sé malgrado, a deformare in qualche modo, nel riprodurli, gli aspetti terribilmente chiari che egli percepisce. (NV, pp. 62-63)

Non è difficile cogliere in questo passo l’eco delle parole di Nietzsche: rinuncia alla ricerca della verità a ogni costo: «non crediamo più – scrive il filosofo nella prefazione alla Gaia scienza – che verità resti ancora verità, se le si tolgono i veli di dosso», «si dovrebbe onorare maggiormente il pudore con cui la natura si è nascosta sotto enigmi e variopinte incertezze», bisogna arrestarsi alla parvenza, alla pelle delle cose, alle forme, ai suoni, alle parole (NIETZSCHE 1999, pp. 34-35). Dagli artisti dobbiamo imparare – sostiene ancora Nietzsche più avanti – ad allontanare le cose finché le vediamo meno nitide e dobbiamo aggiungervi qualcosa, dobbiamo «vederle di sbieco o come in uno scorcio», «contemplarle attraverso un vetro colorato o alla luce del tramonto», «dar loro una superficie e un’epidermide che non abbia una piena trasparenza» (NIETZSCHE 1999, p. 216).

Per ora cerchiamo un approfondimento della funzione dell’ironia negli scritti successivi: Prime chiose sull’ironia, apparso nel 1920 su “La Ronda” (cito da LANGELLA 2001) e Nuove chiose sull’ironia, rimasto incompleto e pubblicato in appendice da Paola Italia (ITALIA 2004, pp. 446-447). Prime chiose si trasforma da subito in un racconto sul modello, in parte rovesciato, della Storia del genere umano di Leopardi (vedi l’analisi di Paola Italia in ITALIA 2004, pp. 227-232): l’uomo, di origine celeste, si trova nel mondo a mal partito, abbandonato e «sconvolto dalla terribile diversità del clima» (LANGELLA 2001, p. 295); imparata dal diavolo, l’ironia fu l’unico strumento che gli permise di affrontare la natura nemica, di superare la paura e il terrore, di fare a meno di Dio: a tal fine «fabbricò con molta cura dei simulacri dell’assente, lo rappresentò in isvariati aspetti e sembianze, costruì degli edifici appositi e ve lo richiuse dentro» (LANGELLA 2001, p. 298). Poi sistemò il resto, raggiungendo l’estraneità verso i compagni e la convivenza formale con la donna; il distacco e la lontananza dal mondo, costitutivi dell’ironia dell’operetta leopardiana, ritornano in Savinio, ma con una certa acredine e risentimento nei confronti del mondo, ma soprattutto degli altri uomini e delle donne.

Le Nuove chiose accostano al tema dell’ironia il tema della memoria; per Paola Italia segnano il passaggio dalla poetica dell’ironia alla poetica della memoria (ITALIA 2004, p. 233). In effetti il nuovo saggio Fini dell’arte, comparso l’anno successivo su “Valori plastici”, non aggiunge riflessioni nuove sull’ironia; non ne aggiungono nemmeno i Primi saggi di filosofia delle arti, comparsi in tre puntate, sempre sulla rivista di Broglio, nel 1921, a parte qualche osservazione di carattere psicologico sulla nostra difficoltà a cogliere la comicità degli antichi (cfr. NV, p. 85). In questi articoli prevale un bisogno di completezza fuori del tempo, una esaltazione dell’elemento «lirico» di contro al «drammatico», che forse è troppo descrivere come «sorprendente ritorno a un’estetica idealistica» (GREWE 2001, p. 84), ma che certo rappresenta un momento di involuzione e di scoramento dell’intellettuale Savinio.

Torniamo dunque al tema dell’ironia, ai suoi presupposti metafisici – questa volta in senso proprio – della proposta poetica di Savinio incentrata sull’ironia come velo necessario per ricoprire gli aspetti terribili e osceni della natura. L’oscenità del corpo viene esibita, ma rovesciata, e deve alla fine essere di nuovo velata, come spiega bene Guido Guglielmi nell’analisi di Hermaphrodito e dei due racconti Angelica e la notte di maggio, del 1927, e La nostra anima, del 1944: l’ironia – scrive il critico – riammette i miti:

«la verità è tragica; la finzione comica. L’arte superiore (l’arte metafisica) tratta la verità con la leggerezza e la melanconia del clown, ne fa oggetto di gioco, le oppone lo spazio della finzione. Essa vive del rapporto umoristico tra conoscenza (della morte) e mistificazione: tra lucidità, rigore, disincanto, da una parte, e piacere dei simulacri, dei travestimenti, del teatro, dall’altra». (La lucerna di Psiche, in GUGLIELMI 1986, pp. 192-193)

Gli dèi li possiamo ancora incontrare, ma – come spiega Giuseppe Montesano nell’introdurre il libriccino che raccoglie tutti gli articoli di Savinio su “Valori plastici” – «per vederli è necessaria l’ironia che li deforma nel travestimento»: Omero diventa il signor Omero, Nettuno il suo amico-servitore, Venere un pupazzo meccanico, Mercurio un agente di commecio (Montesano, Sotto il segno di Anadioménon, in NV , p. 18), Carlo Magno un soldato sul fronte di Salonicco, Oriente un compagno di caserma, dentista (SABBATINI 1997, p. 294). Questo abbassamento nel quotidiano suggerisce forse che la nudità della natura non è nulla o, meglio, è il nulla, è il vuoto fuori della porta del signor Münster, la stanza vuota del racconto finale di Casa «la Vita», dove un uomo inesistente suona una musica che pervade tutta la casa dei ricordi, tutte le tappe della vita dello scrittore nella prospettiva di un eterno ritorno: dalla stanza del violino che si suona da solo il protagonista, Aniceto, l’invitto, fugge precipitosamente per ritrovare un’uscita che si apre, invece, sul mare, il mare dell’eternità sul quale compare la nave della morte (SAVINIO 1999, pp. 468-486).

Il nichilismo è l’esito dello scetticismo filosofico di Savinio; per questo Carrà non può capire la scelta poetica dell’ironia: l’amico pittore la definisce «rilassatezza ironica» che considera come artificio stilistico, superficiale e malato (CARRÀ 1920, p. 72; tale incomprensione sarà all’origine della rottura tra i due, cfr. ITALIA 2004, p. 164). Lo stesso Savinio in un articolo del 1920 dal titolo Scetticismo, pubblicato su “Il Primato Artistico Italiano”, sembra equiparare scetticismo e fanatismo, scetticismo e socialismo, ma credo che questo sia dovuto alle oscillazioni ideologiche e politiche che avvicinano in quegli anni il nostro autore alle prospettive del nazionalismo e del fascismo. Di «salvagente scettico» aveva parlato invece in Hermaphrodito e la posizione filosofica era stata ribadita nel racconto La turca (1919), come ricorda Marco Sabbatini che, in questo contesto, sottolinea l’influsso di Carlo Dossi sulla filosofia di Savinio (SABBATINI 1997, pp. 49-50; cfr anche ITALIA 2004, pp. 315-316). Curioso l’incontro tra Savinio e Dossi, raccontato sempre da Sabbatini: i De Chirico avevano conosciuto e frequentato Alberto Carlo Pisani Dossi negli anni tra il 1895 e il 1896, quando lo scrittore lombardo lavorava ad Atene come diplomatico, ma Savinio lo vorrà visitare da adulto, nel 1908 o 1909, nella sua villa «böckliniana» di Poggio Cardina sul lago di Como (SABBATINI 1997, n. 15, p. 128). Nell’atrio – racconta lo stesso Savinio – il nostro nota un fregio formato da una fila di carciofi (un fregio che piacerebbe certo al fratello Giorgio) e ne domanda al proprietario:

Il carciofo, mi spiega Alberto Pisani, sono io: brutto, chiuso, spinoso come il carciofo, ma come il carciofo buono di cuore – Lo guardo: non era davvero possibile somigliare Alberto Pisani ad Apollo. Per rompere l’imbarazzo tento parlargli dei suoi libri: Avevo letto Desinenza in A, Gocce d’inchiostro e comincio a dirgli il bene che ne penso. Allora quell’uomo contratto si contrae anche di più, si chiude anche più, diventa anche più “carciofo”, e riparandosi dalle mie lodi come fossero mazzate, finisce col dirmi che Carlo Dossi non è lui, ma… suo fratello. (SAVINIO 1977, pp. 119-120).

Ma è proprio dal fallimento dell’incontro con Dossi che possiamo ricavare alcune osservazioni sull’ironia e sull’umorismo. Dossi aveva riflettuto a lungo su questi temi collegando scetticismo e umorismo (mi permetto di rimandare a un mio breve saggio su Dossi, BERTOLINI 2012). Savinio è soprattutto ironico, solo qualche volta umorista; nell’ironia abbiamo di necessità la finzione, la distanza critica, lo sguardo acuto e freddo, nell’umorismo compare il sentimento di comprensione e di partecipazione, all’ilarità si aggiunge la tristezza. Nell’ironia, in particolare nell’ironia romantica, l’io annulla il mondo, nell’umorismo l’io si pone al centro, ma per distruggere se stesso. Anche Savinio, la cui opera letteraria è una continua riscrittura della sua autobiografia, deve dissolvere se stesso, ma per rinascere più volte; discepolo di Venere Anadioméne, deve percorrere con ostinazione e talora con risentimento i territori metafisici della musica, della scrittura e della pittura, deve tornare sempre di nuovo dilettante per acquisire la leggerezza che gli permette di ricavare i suoi pensieri da un indizio qualsiasi (cfr. MONTESANO, NV, pp. 20-26), di giocare con i giocattoli della Gaia scienza di Nietzsche che ricompaiono nei suoi quadri e anche di ritornare alla musica, nella quale non era certo dilettante. I temi e le figure rimangono gli stessi fino alla fine, ma l’ironia provocatoria si è trasforma in autoironia; l’Io narcisistico, che si è raddoppiato e moltiplicato nelle maschere degli pseudonimi, ha imparato – come scrive Alfredo Giuliani – a convivere con l’Altro, ma l’Altro rimane sempre un doppio, è dentro di lui, come l’Altro che, occultato come un tumore nel corpo di Maupassant, scriveva i suoi racconti più belli (Maupassant e «l’Altro», in MAUPASSANT 2004).

Le figure del comico

Hermaphrodito si conclude con L’orazione sul tetto della casa dell’ebreo ermafrodito e la figura dell’Ermafrodito ritorna in moltissimi altri romanzi e racconti: Pegoraro scrive che è la stessa ironia ad avere il carattere dell’ermafroditismo per la sua doppiezza (cfr. PEGORARO 2000, p. 44s.). Si tratta di uno dei temi più analizzati e discussi dalla letteratura critica (vedi la ricognizione di CAPOBIANCO 2013), che ha individuato la fonte di questa figura nel secondo dei Canti di Maldoror di Lautréamont, in cui il poeta maledetto e satanico descrive con insolita delicatezza un giovane ermafrodito, di femminile bellezza e, insieme, energico e colto, generoso e restio, viaggiatore smarrito del mondo, abbandonato dai genitori e privo di patria: sta addormentato in un boschetto da idillio e sogna; Maldoror non lo sveglia e promette di raccontare un giorno la sua lacrimevole storia. Ermafrodito però è anche – secondo Jankélévitch – una delle figure che caratterizzano l’ironia romantica, in quanto unità originaria che precede la distinzione dei sessi, unità indifferenziata che mescola comico e tragico, espressione di un’ironia confusa e degenerata (JANKÉLÉVITCH 1997, pp. 132ss.). Il figlio di Hermes e Aphrodite non può più espungere da sé la ninfa Salmace alla quale si è unito per sempre, è insieme maschio e femmina, come del resto lo è anche il Dioniso di Nietzsche, il dio della contraddizione, uomo e animale, maschio e femmina, il dio della tracotanza del conoscere.

Con questo però l’androgino romantico cede il posto a una nuova inquietudine: diventa il sogno insopportabile dell’uomo che sente in sé il maschile e il femminile e vuole resistere con rabbia al principio di individuazione, difendersi «dal mondo», come scrive Weininger nell’introduzione a Sesso e Carattere (WEININGER 1992, p. 31). In questo trincerarsi a difesa dell’io sta in parte l’origine della misoginia del nostro autore; è essa che gli fornisce lo sguardo impietoso nella descrizione delle donne di Ferrara, la più grottesca invettiva delle sue descrizioni di esseri femminili: «vidi nelle vespasiane blindate, le donne vecchie, accosciate come orrendi gallinacei, pisciare con fragor di grandine»; riscontra nelle giovani un tratto solenne, «gallico», «terribilmente equino», le “sente” in agguato, dietro i portoni socchiusi, «gatte malefiche», «galline micidiali». La sarta «oscena» «cuce le palpebre dei neonati», la «fruttaiola scema» balla nuda e da dietro rivela la fisionomia di un pesce volgare, le venditrici di polli «si nutrono succhiando il sangue nel collo dei gallinacei, per cui sono livide come la carne morta delle loro vittime», diventano esse stesse carne di pollo («Frara» città del Worbas, in Hermaphrodito, SAVINIO 1995, pp. 31-32; sul significato di Worbas, vedi l’introduzione al volume di Giuliani, p. XXII). Pù tardi la vena misogina ricomparirà solo a tratti nell’ironia sul matrimonio, sulla famiglia, sulle donne, sulla religione e sulla morte, accanto a espressioni che rivalutano la componente femminile dell’Ermafrodito, come nelle pagine di Scatola sonora sulla danza, e all’impegno della traduzione, nel 1937, delle Dame galanti di Brantôme per la collana “Classici del ridere” dell’editore Formiggini, un testo libertino che lascia intravedere uno sguardo decisamente favorevole al profilo femminile del mondo erotico.

Il sottotitolo di Hermaphrodito, “Microscopio – Telescopio”, può essere considerato un’altra figura del comico che consiste nell’ingigantire o rendere minuscoli gli oggetti percepiti, come capita spesso nella letteratura satirica e che, in parte, corrisponde alla figura del cannocchiale rovesciato: somiglia allo sguardo a distanza ravvicinata – come fa Böcklin trasformando dei pescetti da frittura in orridi draghi (cit. in VIVARELLI 1986, p. 17), come fa De Chirico dipingendo i carciofi di ferro che fanno da ornamento alle inferriate (per “il grande nel piccolo” cfr. Roscioni, Nota, in SAVINIO 1974 e SABBATINI 1997, pp. 118-124). La deformazione riguarda anche la volontà di allontanare gli oggetti, come fa Giannozzo, il personaggio di Jean Paul Richter che sorvola il mondo delle piccole corti e le osserva da lontano, e come Savinio ripropone più volte nell’immaginazione del volo, a cominciare dalle ali di Hermes-Mercurio, dall’uomo-rondine dell’Ora ebrea (SAVINIO 1995, p.34) fino ai trasparenti giocattoli volanti che compaiono con una connotazione nostalgica nei suoi quadri. In questo contesto appare essenziale l’osservazione di Guglielmi sulla funzione dei miti, delle figure e delle invenzioni nella scrittura metafisica: piuttosto che di una penetrazione della cosa in sé, auspicata in diversa maniera da Schopenhauer e da Nietzsche, in Savinio «si tratta di procedimenti per aggirare le cose, scivolare su di esse, disporle in lontananza, custodirne l’opacità», «le vie che portano alle cose sono le vie che allontanano dalle cose» in un percorso labirintico tra gioco delle maschere e nonsenso assoluto, spostamento all’infinito dell’enigma della morte (GUGLIELMI 1986, p. 161, p. 163).

Anche il manichino diventa una figura dell’ironia, assieme agli altri oggetti magici che popolano il mondo poetico di Savinio e che – secondo i dettami della letteratura comico-umoristica – animano l’inanimato e pietrificano gli uomini in statue basse, a portata di mano, come raccomandava Schopenhauer. Le metamorfosi si estendono agli animali che, sulla scia di Weininger, acquistano caratteri umani e individualizzati, mentre gli uomini prendono sembianze di animali, come gli «ornitoantropi» ferraresi i quali, usciti dalle pagine di Hermaphrodito, finiscono per popolare moltissimi quadri dell’artista (per l’influsso di Weiniger cfr. il capitolo sulla psicologia degli animali in Metafisica, WEININGER 1985, e il racconto weiningeriano del 1946 Il cane che aveva l’anima di Tiberio, SAVINIO 2004, pp. 281-289; sugli animali in Savinio, cfr. ZUDINI 2008).

Il linguaggio accompagna queste metamorfosi giocando con se stesso nei mille modi della metafora e del Witz: il gioco di parole – scrive Guglielmi – diventa narrazione, le parole si sostituiscono alle cose, le metafore si sviluppano in grottesco, le arguzie concettuali producono nonsense e controsensi, come nelle parole perdute iscritte sulla pelle di Psiche (La lucerna di Psiche, in GUGLIEMI 1996). I paradossi e gli ossimori fanno scontrare parole e immagini, le parole si scontrano con altre parole, le freddure, i lapsus e gli equivoci rendono impossibile una visione unitaria e univoca, come ha messo in rilievo Gian Carlo Roscioni (in SAVINIO 1974; cfr. anche PEGORARO 1991, pp. 40ss. e parte II).

L’ironia rimane quindi la cifra della creazione poetica di Savinio, ma non troverà più una specifica trattazione saggistica: nella Nuova Enciclopedia non compare la voce “ironia”, vi è invece “comico”, definito aristotelicamente come presentazione del brutto, come un errore, come rappresentazione di uomini di qualità inferiore: sadismo, ma anche masochismo, quando nel personaggio inferiore l’autore e, insieme, lo spettatore riconoscono il proprio io «vergognoso e segreto» (SAVINIO 2017, p. 97), dove quindi l’ironia diventa autoironia, autocompatimento, humour. Questo richiede l’accostamento di commedia e tragedia; difficile riesumare l’ironia degli antichi (intende qui, ad esempio, il comico di Aristofane); l’ironia – scrive in un altro articolo – ci può ancora aiutare a far rivivere il riso dei classici, ma si tratterà allora non dei comici, ma dei tragici, di Eschilo, Sofocle, Euripide, anche se quest’ultimo risulterebbe compromesso dalla sua stessa ironia. Ritorna forse l’idea di Anadioménon, l’esigenza di velare con l’ironia il fondo tragico delle cose, mantenendole nella necessaria distanza: «diversamente da come credono gl’ingenui, l’ironia non è ironica. L’ironia è seria. Profondamente seria. E pia» (L’ironia è seria, SAVINIO 2004, p. 874). Il motto del Candelaio di Giordano Bruno “in tristitia hilaris, in hilaritate tristis”, ripreso da Schopenhauer, da Nietzsche, da Carlo Dossi, ben si adatta a descrivere il tono di fondo dell’attività creativa di Savinio, come ha scritto Andrea Grewe che si sofferma sulla compresenza in Savinio di malinconia e umorismo (GREWE 2001, pp. 422-438); e la malinconia, a differenza della tristezza, si alimenta del pensiero (voce “malinconia”, SAVINIO 2017).

Non un riso sguaiato sarà allora l’espressione del volto di Savinio: mentre letizia, malinconia e tristezza risvegliano mille altri ricordi, il riso – scrive in un articolo del 1946 – «spegne la memoria», non è né universale, né umano, deve essere evitato, come ammoniva Epitteto, perché sterile:

il riso è l’espressione più superficiale dell’uomo. Perché il riso non lascia traccia dietro di sé. Perché il riso non è altro se non un momentaneo movimento convulso. Perché spenta la cagione momentanea e superficiale del riso, diventa incomprensibile il segno che il riso lascia sulla faccia. E se si riuscisse a fissare sulla faccia il segno del riso al di là del riso, si avrebbe un’immagine assurda e immorale: l’immagine del momentaneo in ispecie di eterno. Incomprensibile è il segno che il riso lascia sulla faccia. (Non ridere, SAVINIO 2004, pp. 295-296)

Come sempre la presa di posizione del nostro non è univoca: in un altro articolo del 1950, Savinio ribadisce l’ammonimento di Epitteto, ricorda che, quando si ride, è buon costume far schermo alla bocca: «il riso è una brutale confessione. Un torrente che erompe dalla cavità orale, e butta fuori i segreti, le brutture, le vergogne. Violento e stracarico di male, il riso fa paura». Ma subito dopo: «noi diffidiamo degli uomini che non ridono», degli insinceri agelasti che tengono il male dentro di sé (Le grandi risate si fanno all’inferno, SAVINIO 2004, pp. 1358-1359).

Questo riso satanico ci richiama però la definizione del riso di Baudelaire e il segno della risata sulla faccia non può che ricordarci Lautremont, ci rimanda allo humour nero dell’Antologia di André Breton che ne aveva coniato il termine e aveva raccolto sotto questo titolo molti autori da Swift ai contemporanei. Vi aveva inserito uno scritto terribile e surreale del primo Savinio, nel quale egli racconta di un piroscafo che entra dal mare nel salone di una casa, di una famiglia di batraci dal nome Rana, di una sorta di seduta spiritica che cerca di scoprire la fine di una donna in una fabbrica londinese di carne congelata, della risposta dello spirito attraverso l’ombelico della padrona di casa: «siamo occupati fin sopra i capelli. Sgozziamo bambino. Ripassate più tardi» (Introduzione a una vita di Mercurio, in BRETON 1970, p. 308). Si tratta di uno spirito vicino allo stile dei Chants de la Mi-Mort, alle musiche suonate nella Parigi degli anni dieci, a Hermaphrodito, uno humour che Savinio declinerà in molte forme diverse, dalla risata liberatoria al sorriso ironico, ma con il tono inconfondibile della lucidità critica.

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Alberto Savinio, Mausolo (in Luciano di Samosata, Dialoghi e saggi, trad. di Luigi Settembrini, Bompiani 1944, vol. I, p. 91)

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