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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 01

 settembre 2010

Saggi e rassegne

Luisa Bertolini

Comico e finitezza in Jean Paul Richter (parte prima)

«Le opere di Jean Paul Richter, il più grande allegorista fra i poeti tedeschi, non sono appunto come le camere dei bambini e degli spiriti?»
(BENJAMIN 2001, p. 223; pp. 363-364)

L’accostamento di comico e sublime, di satira e sentimentale, di basso e alto, è forse l’elemento più caratteristico della scrittura di Jean Paul Richter (Wunsiedel 1763 – Bayreuth 1825). Compare improvviso nella descrizione dei paesaggi, percorre sentimenti, pensieri e dialoghi, è spesso alla base della stessa invenzione narrativa e linguistica. Si radica nel suo stesso stile di vita, nella sua «preferenza per i superlativi, comunque essi siano, per l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, insomma per i massimi e per i minimi». Lo dice lui di sé stesso nella Selberbeschreibung (RICHTER 1997, p.38; p. 1083). L’infinitamente grande allude al sublime e l’infinitamente piccolo al comico e in questa storia di sé l’autore si pone subito all’opera, mettendo in pratica l’affermazione programmatica: «se non ricorro allo scherzo non riesco a raccontare niente di me» (in CAMBI 1997, p. VI). Si mette in cattedra e, fingendo di essere “il professore della storia di sé stesso“, scrive tre lezioni che raccontano le vicende della sua infanzia, alla ricerca di un’identità che si perde nelle piccole cose di cui è fatta la provincia tedesca di fine Settecento e inizio Ottocento, ma le guarda da fuori, come in un cannocchiale a rovescio.

Sublime e terribile è invece il famoso Discorso del Cristo morto che dall’alto dell’universo dichiara l’inesistenza di Dio, spesso estrapolato dal romanzo Siebenkäs e pubblicato come scritto a sé. È il sogno di Firmian (uno dei tanti alter-ego di Richter), il protagonista, spiantato avvocato dei poveri, ma anche autore lui stesso della digressione. Gli è parso, in sogno, di risvegliarsi in un camposanto, destato dall’orologio della torre della chiesa che suona le undici. Descrive il muoversi tremolante delle ombre dei morti, il risvegliarsi dei bambini nelle loro bare, la ferita al posto del cuore dell’ultimo morto che giace, appena sepolto, nella chiesa, travolta dal terremoto e in bilico sull’abisso del nulla, in un cosmo stritolato nelle spire del serpente dell’eternità. «Su in alto, nella volta della chiesa, c’era il quadrante dell’Eternità, senza numeri, lancette di sé stesso: il solo indicatore era un dito nero e i morti cercavano di leggervi il tempo». Il Cristo morto proclama alle ombre (ma nessuno getta ombra) la disperazione della morte di Dio, la ricerca dell’occhio divino che lo ha fissato «con un’orbita vuota e senza fondo» (RICHTER 1998, p. 304; p. 273). È forse l’eco di un sogno infantile, nostalgia della fede e bisogno di trascendenza – così è stato scritto –, e a questo “primo fiore” ne segue un secondo, rappacificato, nel quale l’anello dell’eternità si colora in un arcobaleno, ma le pagine del nichilismo rimangono, indelebili.

Di contro, l’infinitamente piccolo si raccoglie in un pugno … di mosche, in un altro ricordo infantile dell’autobiografia: l’autore racconta di aver costruito una vera e propria casa d’argilla per le mosche, grande poco più di un pugno di un uomo, ma dotata di ballatoi, balconcini e stanzette e persino di un ristorante dipinto di rosso in riquadri. Le finestrelle e, dall’alto il vetro che chiude il comignolo, lasciavano intravedere la felicità domestica delle mosche che salivano e scendevano per le scale (RICHTER 1997, p. 37; p. 1081).

Certe volte il presagio del sublime si esaurisce nel sentimentale e diventa oggetto di una satira sferzante. Questo accostamento si realizza, ad esempio, nel doppio dei gemelli protagonisti di Flegeljahre, Walt e Vult, che hanno nomi eguali ed opposti come i loro caratteri e sono nati nelle due parti opposte della casa che appartengono a due feudi diversi. Gottwalt, il cui nome significa “Dio provvede”, è lo spirito sognatore e romantico fino al sentimentalismo; Quod Deus vult, l’opposto gemello, che porta il nome del vescovo della Cartagine di Genserico (al massimo sarà una femmina, dice il padre in attesa del suo parto: o “quel che Dio vuole”), ne gela, dispettoso e beffardo, ogni slancio verso il sublime. Nel dialogo tra i due che ricordano i momenti comuni dell’infanzia, della famiglia e della scuola, romantico e comico si contrappongono con nettezza: l’arcadia di Walt, ma anche i suoi sogni paurosi, e gli scherzi e i dispetti di Vult, con lo specchietto che orienta i raggi del sole sul volto del pastore nella chiesa, e poi le botte del padre.

Allo stesso modo – ma è solo un altro esempio – ai discorsi impegnati di Firmian, l’autore del Cristo morto e di altri scritti (che sono gli scritti dello stesso Jean Paul che egli attribuisce al suo personaggio), si oppone stridente la chiacchiera banale della moglie Lenette che lo irrita non solo a parole, ma anche aggirandosi in casa per pulire e perfino quando smette e rimane in silenzio. E in queste descrizioni del mutarsi lento di uno stato d’animo, di un sentimento, la scrittura di Richter è davvero magistrale nella finezza della penetrazione psicologica.

La stessa opera teorica di Richter si costruisce man mano sullo sfondo dei romanzi che talora sembrano quasi un terreno di sperimentazione della teoresi, mentre, a sua volta, l’opera estetica, la Vorschule der Ästhetik, apparsa nel 1804, riprende dai romanzi molti esempi, metafore e riferimenti: «da questo punto di vista – scrive Fabrizio Cambi – Jean Paul si presenta come esegeta di sé stesso, preciso descrittore del suo ricco laboratorio i cui strumenti si rivelano meno stravaganti e disordinati di quanto la narrativa lasci supporre» (CAMBI 1998, P. 86). Nondimeno rimane difficile analizzare con ordine questo lavoro filosofico dello scrittore umorista che procede senza un preciso ordine di inventario, con giochi di prestigio e ritorni rapsodici, riferimenti a volte oscuri e conclusioni dialettiche più simili a impennate poetiche che a risoluzioni argomentative. Del resto l’opera estetica di Jean Paul, la Vorschule, è programmaticamente solo un’anticamera dell’estetica: il proscholium, cioè «il luogo che – come ci spiega nella prefazione alla seconda edizione – una cortina separava dall’aula del corso vero e proprio. Qui il maestro (proscholus) preparava e istruiva gli allievi in contegno, vestitura e arte di presentarsi al maestro al di là della cortina» (citato in SPEDICATO 1994, p. 15; nel testo tedesco: pp. 15-16). Tutta l’opera è una premessa, come nei romanzi e nei racconti, nei quali l’autore rimanda la trattazione della vicenda perdendosi in divagazioni che moltiplicano le prefazioni e si prolungano in postille e postfazioni, in cui egli stesso interviene in prima persona e spesso dialoga con i personaggi di quello o di altri suoi scritti. Eppure i capitoli che hanno come titolo VI, VII, VIII e IX Programm contengono la riflessione più importante e più citata della tradizione filosofica sul tema del comico, dell’umorismo e del Witz, e il principale merito teorico di Jean Paul consiste proprio nell’aver dato dignità a questo ambito di riflessione e nell’averlo collocato al centro dell’estetica o, meglio, nella sua anticamera.

Tanto per cominciare, la definizione del comico come sublime rovesciato propriamente non è una definizione. Definizioni di ciò che fa ridere (Definitionen des Lächerlichen) è il titolo del § 26 della Vorschule der Aesthetik, nel quale l’autore afferma che ciò che fa ridere sfugge alla definizione dei filosofi, perché la sensazione che gli è peculiare assume tutte le forme possibili della deformazione, materia inesauribile corrispondente al numero delle linee curve. Ciò che fa ridere è un Proteo, il dio eternamente sfuggente per via delle sue continue trasformazioni, «persino insidioso per chi ardisce di legarlo a una delle sue metamorfosi». Con questo siamo già dentro lo stile argomentativo di Jean Paul che, mentre afferma l’impossibilità della definizione, introduce di soppiatto due termini densi di riferimenti per la letteratura comica: deformazione e metamorfosi.

Sulla definizione del riso Jean Paul aveva dalla sua i maestri della retorica latina. In primo luogo Cicerone, che aveva dedicato al tema del ridicolo un’intera sezione del secondo libro del De oratore (i capitoli LIV-LXX), e che aveva posto come premessa l’impossibilità di definire delle regole del discorso spiritoso e aveva imputato di insulsaggine i tentativi fatti in tal senso dagli scrittori greci nei trattatelli dal titolo Perì gelóion. Si era quindi limitato alla classificazione: prendendo avvio dalla distinzione tra la garbata ironia che fa da sfondo al discorso (cavillatio) e lo spirito mordace e satirico (dicacitas) che produce i motti arguti (salsa dicta), aveva distinto in questi ultimi quelli che derivano dall’uso della parola (dictum, verbum) e quelli che mettono sotto gli occhi l’azione (res). Nonostante qualche accenno alla tesi che indica come caratteristica essenziale del comico la disillusione dell’aspettativa, Cicerone aveva ribadito che le figure retoriche che vengono analizzate in questo contesto valgono sia per il discorso spiritoso che per quello serio. Quintiliano, nel III capitolo del Libro VI dell’Istitutio oratoria, aveva ripreso tutti i passaggi dell’analisi di Cicerone e concluso che non esiste esercizio, né maestro per questo genere di espressioni.

Dopo aver citato Cicerone e Quintiliano a sostegno dell’impossibilità di una teoria del riso, Jean Paul procede alla distruzione critica delle definizioni proposte in sede filosofica: gli obiettivi polemici sono Aristotele, Kant e l’estetica romantica. Ad Aristotele invero riconosce di aver visto lontano (lo definisce un Argo del colpo d’occhio e un Gerione di dottrina, RICHTER 1994, p. 113; p. 102) e di aver indiviuato la traiettoria giusta nell’affermazione che il ridicolo nasce da un’assurdità (Ungereimtheit) innocua. «La commedia – aveva scritto Aristotele nella Poetica – è […] imitazione di persone moralmente inferiori, tuttavia non secondo ogni vizio, ma [suo oggetto] è la parte ridicola del brutto. Il ridicolo è infatti una sorta di errore (amártema) e una bruttezza senza sofferenza né tale da fare danno, come, per un esempio di immediata evidenza, la maschera comica è qualcosa di brutto e di stravolto senza sofferenza» (1449b, nella traduzione di Donini). Ma Jean Paul non coglie il tema del brutto e liquida velocemente Aristotele affermando che non tutte le insensatezze innocue sono comiche.

Tagliente e polemica è invece la critica a Schiller il quale aveva definito la poesia comica come un degradare l’oggetto oltre la realtà stessa, come se una realtà degradata e deforme potesse allietarci, se già la prosa della vita ci intristisce. Della tesi di Schlegel, Schelling e Ast cita solo la definizione della commedia come «esposizione della libertà ideale infinita, dunque della vita negativa infinita o della determinabilità e arbitrarietà infinita» (ma cfr. SPEDICATO 1994) e non ne vuole nemmeno discutere. Certo l’autore della Clavis fichtiana non poteva accettare una definizione tanto ariosa e vuota.

Più complesso e aggrovigliato è il riferimento a Kant: Jean Paul riassume, all’inizio del capitolo, la teoria kantiana del riso, sottopone questa tesi alla critica, ma subito dopo introduce la sua “definizione” del comico come sublime rovesciato che implica un confronto serrato con la Critica della facoltà di giudizio. Rimaniamo per ora alla teoria del comico: nel § 54 Kant aveva assegnato questo ordine di riflessioni all’ambito di ciò che provoca godimento (was vergnügt, ciò che piace nella sensazione) a differenza di ciò che piace nel giudizio (was gefällt). Kant distingue i giochi che procurano tale godimento in giochi di fortuna, giochi di suoni (la musica) e giochi di pensieri (ciò che fa ridere), esclude però subito i primi e li collega nel comune carattere della mutevolezza e vivezza delle sensazioni: la speranza, il timore, la gioia, la collera, lo scherno si susseguono e si scambiano a ogni momento il loro ruolo. Si tratta di un diletto che deriva dal libero gioco delle sensazioni, che coinvolge il corpo e il suo benessere, che usa le idee dell’anima per curare il corpo. Scrive Kant: «Il riso è un affetto che nasce dalla conversione improvvisa in nulla di una tesa aspettativa» (KANT 1999, p.168; p. 225). Esso nasce dal rilassamento corporeo che segue la tensione precedente, quindi nasce su un piano fisiologico, animale, ma è tanto importante per l’uomo che il filosofo lo aggiunge alla speranza e al sonno che Voltaire considerava come contrappeso dato dal cielo per sopportare le pene della vita. Del resto, afferma Kant, il riso non pregiudica i superiori sentimenti del rispetto e del gusto.

Jean Paul non è d’accordo: primo, scrive, perché non ogni nulla provoca tale effetto; secondo, perché spesso si ride quando l’aspettativa del nulla si risolve in qualcosa; terzo, spesso l’aspettativa viene a cadere fin dall’inizio in molte manifestazioni comiche. In breve la definizione kantiana gli sembra tautologica. Quindi, senza tener conto dell’analisi del comico di Kant, propone di partire dalla ricerca del concetto opposto: l’inverso del ridicolo allora non è né la tragedia né il sentimentale che possono convivere con il comico (e qui pensa a Shakespeare e a Sterne, e forse anche a sé stesso), ma il sublime. E su questo riprende in mano la terza critica e procede ad un’accurata analisi del sublime.

[ continua nel prossimo numero della rivista ]

Bibliografia

(nelle citazioni i numeri di pagina della traduzione italiana sono seguiti dai rimandi alle pagine dell’originale)

RICHTER J. P. (1994), Il comico, l’umorismo e l’arguzia, trad. it. a cura di E. Spedicato, Il poligrafo, Padova (Vorschule der Ästhetik, in Sämtliche Werke, hg. von N. Miller, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 2000, I, V, in seguito abbreviato in SW)

RICHTER J. P. (1997), La storia di se stesso, trad. it. a cura di Fabrizio Cambi, Tipografia Editrice Pisana, Pisa (Selberbeschreibung, in SW, I, VI)

RICHTER J. P. (1998), Setteformaggi, trad. it. a cura di Umberto Gandini, Frassinelli, Città di Castello (Siebenkäs, in SW, I, II)

BENJAMIN W. (2001), Il dramma barocco tedesco, in Opere complete, trad. it. a cura di Enrico Gianni, II, Einaudi, Torino (Ursprung der deutschen Trauerspiel, Gesammelte Schriften, unter Mitwirkung von T. Adorno end G: Scholem, hg. von R. Tiedemann und H. Schweppenhäuser, I, I, Suhrkamp 1974).

CAMBI F. (1997), “La mia biografia è solo un idillio”. La ricerca dell’io tra finzione e verità, in RICHTER 1997.

CAMBI F. (1998), Realtà e umorismo nella Vorschule der Ästhetik di Jean Paul, in Il cacciatore di silenzi, Studi dedicati a Ferruccio Masini, a cura di P. Chiarini, II, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma.

KANT I. (1999), Critica della facoltà di giudizio, trad. it. a cura di E Garroni e H. Hohenegger (Kritik der Urteilskraft, in Kant’s gesammelte Werke, hg. von der Königlich Preussischen Akademie der Wissenschaften, Georg Reimer, Berlin 1913)

SPEDICATO E. (1994), Teodicea del riso, in RICHTER 1994.