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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 02

 aprile 2011

Saggi e rassegne

Luisa Bertolini

Comico e finitezza in Jean Paul Richter (seconda parte)

Il sublime, dunque, diventa per Jean Paul l’occasione per formulare alcune osservazioni sulla teoria di Kant. «In che consiste – si chiede – la sublimità ideale? Kant e al suo seguito Schiller rispondono: in un infinito che i sensi e la fantasia rinunciano a dare e a comprendere, mentre la ragione lo crea e lo tiene saldamente» (RICHTER 1994, p. 116; p. 105). Il rimprovero è, almeno parzialmente, ingiusto: Kant non dimentica mai il piano estetico e la necessità di esibizione del sublime, ma Jean Paul mette l’accento sulla percezione sensibile e propone una curvatura alle determinazioni kantiane nella direzione della sensibilità (cfr. PINNA 2007 che accentua la distanza da Kant).

Il giudizio che coglie il momento sublime è per Richter, come per Kant, legato al gioco delle facoltà, alla funzione dell’immaginazione che si rapporta all’infinità delle idee della ragione, ma l’articolazione del concetto non segue le nervature del trascendentale, attinge direttamente all’archivio delle immagini poetiche della sua pratica letteraria, senza escludere alcune intelligenti osservazioni sugli esempi tipici della letteratura estetica del Settecento (la piramide egizia, l’interno maestoso della chiesa di San Pietro, esempi che ricorrono anche nella Critica della facoltà di giudizio). Il sublime matematico sarà allora colto dall’occhio che intuisce la dimensione quantitativa dell’estensione, mentre il sublime dinamico sarà percepito dall’orecchio colpito dalla forza del suono. Il sublime poi non è necessariamente legato alla forza del segno: «un battito delle ciglia di Giove è ben più sublime di un movimento di un suo braccio o di tutto il suo corpo» (RICHTER 1994, p. 116; p. 106). Allo stesso modo – lo aveva notato già Solger – può diventare sublime il silenzio, «quello di un’aquila in volo planato o quello del mare prima della tempesta o quando dopo il fulmine attendiamo il tuono» (RICHTER 1994, p. 117; p.107).

Nel gioco delle facoltà il fulcro si sposta così dalla ragione alla fantasia (per Oehlenschläger la fantasia addirittura sostituisce la ragione, cfr. OEHLENSCHLÄGER, 1980, n. 27, p. 24): essa non solo funge da sensorium commune che raccoglie e unifica «le cinque lastre diverse dei sensi» e continuamente opera accanto ad essi (RICHTER 1972), ma è Bildungskraft, vera e propria facoltà creatrice che, con il suo alfabeto geroglifico, riesce a rendere intuibile all’uomo mortale l’infinito della ragione, riesce a cogliere nel sensibile il sovrasensibile (su fantasia e metamorfosi cfr. BENJAMIN 1997). Come tale essa ha un compito più elevato della stessa immaginazione (Einbildungskraft) che noi uomini condividiamo con gli animali i quali, come noi, sognano e hanno paura (RICHTER, Vorschule, II Programm). La sua creatività geniale si esprime nel linguaggio della poesia che riesce a ricreare, in un magico gioco di specchi, l’equilibrio tra interno ed esterno. Con questo Jean Paul sembra voler portare a compimento le “metacritiche” di Herder – suo diretto maestro – e di Hamann – un autore al quale si ispira per molti aspetti dello stile e della composizione letteraria (un solo esempio: l’accumulo delle prefazioni e delle dediche) – che avevano trasformato gli apriori della Critica della ragion pura nei suoni e nelle lettere geroglifiche della lingua più antica (HERDER 1993, HAMANN 1967, HAMANN 1977).

Ma il sublime viene immediatamente intaccato dal comico: lo ha notato Theodor Vischer, l’esegeta di Jean Paul più vicino alla sua teoria: «dal sublime al ridicolo c’è un solo passo», «il ridicolo è il nemico mortale secolare del sublime e lo è in misura ancora maggiore in quanto non proviene dal di fuori, ma è il sublime stesso a portarlo nel proprio grembo» (VISCHER 2000, p. 119; p. 155). Richter ne è perfettamente consapevole, anche se non troviamo in lui la stessa affermazione teorica a proposito del comico. La troveremo più avanti, nella definizione del “comico romantico”, dell’umorismo; e la troviamo – come scrive ancora Vischer – esemplificata nelle sue stesse opere: «sentimenti realmente grandi e belli vi risultano infatti collocati, all’interno di uno stesso soggetto, in un’affinità talmente immediata con l’umana stoltezza o con l’infinita irrilevanza del caso, da dovere per forza tollerare che si rida di loro» (VISCHER 2000, p. 124; p. 163).

Per il momento Richter si limita a parlare di rovesciamento, tema classico della tradizione comica che egli ritrova nella scrittura degli umoristi anglo-irlandesi, da Swift a Sterne, che del sublime rovesciato avevano già fatto esercizio nel trattato sulla retorica della satira, il Perì Báthous, firmato dallo Scriblerus Club.

Per Jean Paul l’opposto del sublime, definito da Kant come l’assolutamente grande, è l’assolutamente piccolo, e questa è la prima determinazione del comico. Secondo il traduttore italiano dei programmi della Vorschule che riguardano il comico, l’umorismo e il Witz, Eugenio Spedicato, la definizione è «volutamente apodittica e misteriosa», ma forse – sempre secondo questo stesso autore – la si può comprendere alla luce dei dibattiti del tempo sul concetto di infinito e delle discussioni settecentesche sul valore epistemologico del telescopio e del microscopio: si pensi ai Viaggi di Gulliver di Swift, a Micromegas di Voltaire, ma soprattutto alla leibniziana divisibilità infinita di un mondo che in ogni frammento contiene a sua volta il mondo intero (cfr. SPEDICATO 1994, 52ss.).

A Jean Paul interessa quel frammento in cui si costituisce il contrasto tra finito e finito, il quale dà luogo però all’insensatezza infinita, all’assurdità infinita (unendliche Ungereimtheit). Non si tratta di un giudizio morale, tanto meno di un semplice errore, di un contrasto logico o di un semplice accostamento: non finiremo mai di ridere con tutti gli strani accostamenti che vi sono sotto il cielo. Bisogna che la situazione sia data all’intuizione e che avvenga un “prestito del nostro punto di vista”; riproduco tutto il passo:

Quando Sancio, per una notte intera, si tiene sospeso su una fossa poco profonda, perché suppone che un abisso stia spalancato sotto di lui, il suo sforzo, data la supposizione, è pienamente sensato, e anzi egli sarebbe un pazzo proprio se ardisse di sfracellarsi. Perché, ciononostante ridiamo? Qui viene il punto decisivo: noi prestiamo al suo sforzo il nostro giudizio e il nostro punto di vista, e da questa contraddizione generiamo l’infinita assurdità. (RICHTER 1994, p. 120; p.110)

Questo è il nucleo centrale della teoria jeanpauliana del comico ed è anche il passo che più ha avuto fortuna nella letteratura critica: viene parzialmente ripreso da Bergson e citato da Freud e confluisce nella teoria di Pirandello. Ma è anche il passo che ha suscitato più discussione da parte della critica. Jean Paul riformula questa tesi altre due volte schematizzando quelli che egli definisce i tre momenti del comico:

– il contrasto oggettivo: la contraddizione tra la tensione o l’essere della persona ridicola con il rapporto intuito sensibilmente (lo sforzo di Sancio sopra una buca poco profonda);

– il contrasto sensibile: questo rapporto (il nostro sguardo su Sancio);

– il contrasto soggettivo: la contraddizione tra i precedenti che noi gli affibbiamo in seconda istanza mediante il prestito della nostra anima e del nostro punto di vista1.

Alcune pagine più avanti riprende il concetto con i termini seguenti:

– la nostra serie vera;

– l’altrui serie vera;

– la serie illusoria che noi prestiamo agli altri2.

Al primo punto: nessun abisso, al secondo: una fossa; al terzo: è semplicemente una fossa. Così commenta il critico Kommerell che ritiene sbagliata la partizione di Richter e sostiene che noi non prestiamo affatto il nostro punto di vista a Sancio (in effetti lo prestiamo alla situazione, al comportamento, certo non a Sancio che con sollievo si rialzerebbe e se ne andrebbe per i fatti suoi). Accade piuttosto qualcos’altro: due rappresentazioni separate – “nessun abisso” e “si tiene sospeso sopra un abisso” – vengono intuitivamente unificate nella rappresentazione comica di un gesto sbagliato. Il linguaggio gestuale di una situazione che erroneamente si crede vera e la stessa situazione vera si fondono in un’unica intuizione, con un solo contrasto. Quindi il secondo punto appare a Kommerell pleonastico, come del resto aveva già notato Theodor Vischer (KOMMERELL 1977, pp. 403-404, VISCHER 2000, p. 135; p. 181; per una lettura completamente diversa cfr. PROFITLICH 1970).

Al di là della difficoltà di individuare con precisione questi tre diversi momenti negli esempi che Jean Paul analizza e, più in generale, in tutte le possibili situazioni comiche, credo si possa mettere in relazione questa tripartizione con quanto l’autore afferma subito dopo: che cioè, a seconda del prevalere di uno di questi contrasti, si generano i diversi generi del comico. La commedia antica vedrà allora una prevalenza del rapporto oggettivo, di fronte al quale il soggetto rimane estraneo e la dimensione soggettiva si risolve nell’imitazione, mentre il comico romantico richiederà un più diretto coinvolgimento dell’io (e il prevalere della serie illusoria alluderà infine forse all’ironia romantica). Del resto lo stesso Jean Paul nell’introdurre il capitolo successivo riprende in nota la distinzione tra contrasto oggettivo e contrasto soggettivo, lasciando cadere ogni ulteriore distinzione.

La vera novità della teoria di Jean Paul consiste secondo il critico Eduard Berend nell’aver individuato l’essenza della situazione comica nel fatto che ognuno pensa di essere nel giusto, che sia quindi necessario il prestito del punto di vista (BEREND 1909, p. 224), come dimostra l’impossibilità di deridere noi stessi nel momento in cui compiamo l’azione: è necessaria almeno una certa distanza temporale perché l’io possa attribuire il suo giudizio all’io precedente.

Nel continuo scivolare dei piani del discorso in bilico tra i tentativi di fissare alcuni punti fermi della teoria e l’accumulo dei riferimenti e degli esempi della vita e della letteratura, Jean Paul ci spinge a riflettere sulla fonte del piacere del comico e sul legame tra piacere e dolore, sull’alternarsi tra questo e quello: tra il dispiacere apparente per il minimo dell’intelletto altrui e il piacere reale per il nostro potere di giudizio (una notazione che richiama per simmetria le determinazioni del sublime kantiano).

In questo contesto l’autore critica le teorie fisiologiche del riso e la teoria di Hobbes che fa discendere il piacere comico dall’orgoglio e dal senso di superiorità. «Il riso – commenta – non ci ispira il sentimento della nostra elevazione (spesso, forse, il contrario), ma semmai quello dell’abbassamento altrui». Coloro che ridono sono bonari e spesso si lasciano prendere in giro, i bambini ridono e le donne «e Arlecchino, che si ritiene una nullità, ride di tutto, mentre il fiero mussulmano di niente» (RICHTER 1994, p. 129; p.121). Il comico richiede poi libertà e intelligenza e, con questo, si colloca nell’umano (ridiamo degli animali intelligenti con un credito di antropomorfismo).

Ma l’acutezza delle osservazioni di Jean Paul deriva dalla consapevolezza che il comico lo si possa solo riconoscere: così, se si devono indicare le differenze tra comico e satira oppure tra comico e Witz, non si devono semplicemente tracciare le linee di confine e stabilire delle gerarchie, ma riconoscere le peculiarità, scoprire quando un elemento trapassa nell’altro, indicare quando vi è mescolanza. Ci si accorge allora che «il ridicolo resta eternamente al seguito della finitezza spirituale». Poco dopo Jean Paul cita sé stesso, anzi cita un capitolo mai scritto del suo romanzo Flegeljahre nel quale Vult si rammarica, per celia naturalmente, del destino che lo attende in paradiso, essere perfetto tra i beati, senza scherzi, beffe e risate. Ma non deve rammaricarsi, commenta l’autore: «alla finitezza, infatti, sia essa l’oggetto o il soggetto dell’intuizione, il gioco ingannevole dello scambio comico resta sempre aderente, solo che il gioco si svolge a un gradino più alto; anche di un angelo si può ridere, se si è l’arcangelo» (RICHTER 1994, p. 131; p.124, cfr. anche OEHLENSCHLÄGER 1980, pp. 30-31: il ritorno dall’infinito al finito aumenta la nostalgia per l’infinito).

Queste righe su Vult nostalgico della finitezza chiudono l’indagine sul comico e preparano il passaggio al comico romantico, cioè all’umorismo. Il comico, definito come contrasto tra finito e finito, come messa alla gogna di stoltezze e di uomini stolti, rimane legato al regno dell’intelletto e del mondo oggettivo; ora esso lascia il posto al contrasto tra la finitezza nella sua globalità e le idee della ragione: bersaglio dell’umorismo è allora l’insensatezza del mondo intero. Il passaggio è apparentemente farraginoso: nell’umorismo noi prestiamo la finitezza (contrasto soggettivo) all’idea (contrasto oggettivo) e troviamo davvero il sublime rovesciato (das umgekehrte Erhabene) dove il finito si applica all’infinito.

Nella sua qualità di sublime alla rovescia, introducendo il contrasto con l’idea, l’umorismo non annichila l’individuale bensì il finito. Esso non conosce né stoltezze né uomini stolti, ma solo la stoltezza e un mondo insensato; a differenza del volgare burlone, con le sue stoccate, l’umorista non mette mai in risalto la follia degli individui. […] L’umorista preferirà accogliere sotto la sua protezione i singoli stolti e imprigionare lo sbirro della gogna con tutto il suo pubblico, perché quel che preoccupa il suo animo non è lo scenario della follia di questo o quel concittadino, ma la follia stessa degli uomini, cioè l’universalità. (RICHTER 1994, p. 132-133; p. 125)

A questo punto si comprende la definizione di umorismo come comico romantico: la nuova prospettiva richiede l’intera compagine della teoria romantica con i suoi concetti di totalità, infinità, soggettività e sensibilità, a ciascuno dei quali Jean Paul dedica un paragrafo.

Totalizzante è l’idea umoristica che scaraventa dalla rupe tarpea l’intero genere umano, ma – capace di sentimento – è mite e tollerante verso le follie dei singoli e qui Jean Paul cita Swift, Sterne, Voltaire, Rabelais e infine, sopra tutti, Shakespeare. Nell’elenco figura anche Leibgeber, il personaggio del Siebenkäs e della Clavis, che – a differenza dell’avvocato dei poveri, suo doppio – presenta il suo umorismo universale senza rivolgere i suoi biasimi a nessuno in particolare.

Tale idea infinita è anche annientante: scende all’inferno, anche se per spianare la via verso il cielo; somiglia – scrive – a Merope, l’uccello che sale in cielo volando al contrario, girato dalla parte della coda, un’immagine questa che forse egli ricava dalla lettura del De natura animalium di Eliano, una fonte di storie paradossali che ben conoscevano gli scrittori delle memorie di Scriblero. «Danzando sulla testa – continua il nostro -, questo acrobata beve il nettare dal basso verso l’alto» (RICHTER 1994, p. 136; p. 129), come dal basso all’alto salivano i fiumi d’oro della mitologia. Lo nota Jean Paul a proposito – e naturalmente per contrasto – della generosità di un altro suo personaggio, l’aeronauta Giannozzo che, sorvolando velocemente l’Europa delle corti e dei piccoli centri borghesi, guarda dall’alto della sua mongolfiera le miserie del mondo. Ma la superiorità e il disgusto – come nota Eugenio Bernardi nella postfazione all’edizione italiana – non riescono a rimanere puro divertimento: «il divertimento potrebbe esserci se Giannozzo, salito fra le nuvole, diventasse una persona diversa e non continuasse ad infuriarsi per tutte quelle meschinità e quelle scelleratezze perpetrate dai suoi simili che già sulla terra lo mandavano in bestia e che di lassù, con l’allargarsi dell’orizzonte, appaiono ancor più assurde e scoraggianti» (BERNARDI 1981, p. 161).

L’immagine di Giannozzo è davvero la chiave dell’estetica di Richter. L’uomo, scrive Jean Paul, che osserva il mondo terreno dal mondo ultraterreno (pensa qui agli antichi teologi) lo vedrà piccolo e vano e nel suo ridere vi sarà dolore e grandezza. L’umorista nasconde nel suo comportamento ilare un certo grado di serietà: egli «porta la maschera tragica, se non sul volto nella mano» (RICHTER 1994, p. 136; p.129): ecco perché – continua – nel Simposio di Platone, Socrate considera la disposizione al tragico tutt’uno con la disposizione al comico. Questa serietà parziale conferma di nuovo che il comico, inteso come concetto più generale, si contrappone al sublime e non al patetico.

Ma la caratteristica fondamentale dell’umorismo, del comico romantico è la soggettività. In questo concetto convergono le riflessioni dell’estetica jeanpauliana: contro la poesia nichilista, basata sull’enfatizzazione dell’io e sulla negazione del mondo, e contro la poesia materialistica, che copia pedissequamente la natura, Richter propone qui, sorprendentemente, di fondare la figura dell’umorista sul concetto romantico di soggettività. L’io dell’umorista, spiega, si colloca nella scissura tra finito e infinito, non in posizione estranea, come nella commedia, ma portando la scissione in sé stesso. Un io allora ben diverso da quello fichtiano, oggetto della satira della Clavis, un io che è chiamato in causa solo per poterlo raddoppiare, moltiplicare, frantumare:

Ecco perché presso tutti gli umoristi l’io recita il ruolo di protagonista, e, quando può, inscena nel suo teatro comico persino le sue relazioni personali, benché al solo fine di distruggerle attraverso la poesia. L’io che scrive è il buffone di corte, il quartetto italiano di maschere. (RICHTER 1994, p. 139; pp. 132-133)

La centralità metafisica dell’io umorista spiega allora la centralità dei paragrafi sul comico e sull’umorismo e la consapevolezza – come Jean Paul spiega nella prefazione alla prima edizione della Vorschule e Kommerell sottolinea nell’introdurre l’analisi della teoria dell’umorismo – che questo è proprio il “suo” pensiero, il suo contributo originale alla teoria estetica.

La fonte epistemologica dell’umorismo di Jean Paul è chiaramente lo scetticismo nichilista che egli cerca continuamente di combattere, ma che spesso riaffiora nella forma di un ateismo senza speranza. La tesi di Spedicato che l’umorismo jeanpauliano sia una teodicea alternativa, essenzialmente un modo per lenire il dolore che proviene dalla presenza del male, coglie certo un momento essenziale della filosofia di Jean Paul che definisce la distanza tra umorismo e ironia romantica.

Lo dimostra anche la trattazione del paragrafo sulla sensibilità umoristica nel quale Richter afferma la necessità di prendere le mosse dalla sensibilità (Sinnlichkeit), dalla tavolozza ricca di colori della finitezza, che si rapporta non al regno analitico e severo dell’intelletto, ma alla linea di confine che separa la ragione dalla follia. «L’umorismo – conclude – è come gli antichi chiamavano Diogene: un Socrate forsennato» (RICHTER 1994, p. 145; p. 140). Ma qui siamo sul suo terreno: seguono indicazioni pratiche sul linguaggio, su ciò che significa finitezza per chi scrive, su come tradurre una narrazione asettica in sensibilità umoristica e in uno stile letterario unico. La teoria filosofica del comico come finitezza non può che risolversi nella descrizione del particolare e dell’individuale, a conferma della tesi iniziale che del comico non può darsi una definizione, che tanti sono gli stili dell’umorismo quanti gli scrittori umoristici.

BIBLIOGRAFIA

(nelle citazioni i numeri di pagina della traduzione italiana sono seguiti dai rimandi alle pagine dell’originale)

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SPEDICATO E. (1994), Teodicea del riso, in RICHTER 1994

Note

1 «den Widerspruch, worin das Bestreben oder Sein des lächerlichen Wesen mit dem sinnlich angeschauten Verhältnis steht, nenn’ ich den objektiven Kontrast; dieses Verhältnis den sinnlichen; und den Widerspruch beider, den wir ihm durch das Leihen unserer Seele und Ansicht als den zweiten aufbürden, nenn’ ich den subjektiven Kontrast.» (SW, V, p. 114).

2 «Der Elementargeist der komischen Lust-Elemente ist der Genuß dreier in einer Anschauung vor- und festgehaltenen Gedankenreihen, 1) der eignen wahren Reihe, 2) der fremden wahren und, 3) der fremden von uns untergelegten illusorischen.» (SW, V, 114).