Tutti i giorni sotto qualunque regime, bisogna vivere, bisogna parlare, bisogna ridere.
Italo Calvino
Me ne frego fu definito da Angelo Fortunato Formìggini «Il bel motto italico […] che portò, esso solo, il fascismo alla vittoria» (FORMÌGGINI 1923, p. 19). Siamo nel 1923, Benito Mussolini è capo del governo, il filosofo Giovanni Gentile al Ministero della pubblica istruzione, Margherita Sarfatti ha dato il via con la mostra alla galleria Lino Pesaro di Roma alla nuova corrente pittorica che diverrà “Novecento”, il Gran Consiglio del fascismo è già stato costituito, il dissenso interno protetto, tollerato e insieme domato, la sinistra divisa, i liberali affascinati dai metodi autoritari, l’opposizione nel paese repressa con brutale violenza, il partito fascista è al potere e riuscirà a rimanerci anche l’anno seguente nonostante la grave crisi di consenso seguita all’uccisione di Giacomo Matteotti.
Fa parte essenziale di questa affermazione politica il lessico del fascismo: parole, concetti e immagini che Mussolini elabora nella sua carriera politica e che David Bidussa ritiene – al di là delle affermazioni di un possibile ritorno del fascismo e della disinvoltura eccessiva con cui si usa il termine ‘fascismo’– ancora parte del nostro linguaggio e del nostro immaginario, parole che sono tornate come «parole gridate», non più «parole sussurrate», legittimate soltanto dalla «forza del grido» (BIDUSSA 2019, p. XIX). «Passare sul corpo più o meno decomposto della Dea Libertà» scrive Mussolini: questo, scrive Bidussa, è il significato di me ne frego, espressione dissacrante e beffarda, ma di una beffa che sta dalla parte del potere violento. Per comprendere il significato letterale di me ne frego possiamo ricorrere invece alla spiegazione di Giuseppe Fumagalli, bibliotecario e bibliografo: «questo poco pulito intercalare – scrive l’erudito facendoci pensare ad altre simili espressioni volgari – è particolarmente comune nella parlata dei romani i quali se ne vantano come di una caratteristica della loro olimpica indifferenza e superiorità: “Noi Romani l’aria der me ne frego l’avemo imparata a Cristo”» (FUMAGALLI 1921, p. 622). La fonte è la raccolta di Proverbi romaneschi di Giggi Zanasso (Luigi Antonio Gioacchino Zanazzo) del 1886. L’espressione quindi precede D’Annunzio e Mussolini e, se si vuole, anche Salvini, ma nel suo uso politico risale proprio al poeta: «non sdegnò – continua Fumagalli – di valersene Gabriele D’Annunzio il quale in uno dei molti suoi concitati proclami intitolato Il Sacco di Fiume, con la data 11 gennaio 1920, dice:
Me ne frego è scritto nel centro del gagliardetto azzurro che l’altra notte consegnai ai serventi delle mie mitragliatrici blindate, tra i pinastri selvaggi della collina, al lume delle torce e delle stelle, mentre la piccola schiera dei volontari dalmati cantava il vecchio canto del Quarantotto, grande come il tuono d’organo nelle navate di Sebenico o di Spalato. Il motto è crudo. Ma a Fiume la mia gente non ha paura di nulla, nemmeno delle parole (ivi, p. 623).
Poi adottato dagli arditi, da Mussolini e dai fascisti, accompagnato dalla testa di morto, il me ne frego diventa l’emblema del militarismo del ventennio, riprodotto sui distintivi e sui manifesti, ricamato sugli indumenti e fuso sul metallo dei pugnali. Diventa anche un inno:
Il motto pregiudicato e schietto
Fu detto da un baldo giovanotto
Fu trovato molto bello
se ne fece un ritornello
E il ritornello allegro fa così
Me ne frego non so se ben mi spiego
Me ne frego con quel che piace a me
Me ne frego non so se ben mi spiego
Me ne frego con quel che piace a me
Me ne frego però ritorna con senso rovesciato, come segno di protesta e di beffa – questa volta non come esaltazione goliardica e attivistica di indifferenza verso i principi morali – in La Ficozza Filosofica del fascismo e la Marcia sulla Leonardo, libro di denuncia contro la politica culturale del regime di Angelo Fortunato Formìggini, che ci propone anche una sua «libera e improbabile versione latina»: mihi confricor, con cui conclude un capitolo della storia della sua attività editoriale (CASTRONUOVO 2005, p. 8). Nonostante che il Comm. Prof. A. F. Formìggini, laureato in filosofia del ridere nella R. U. di Bologna – come è stampato sulla copertina il nome dell’autore –, ci prometta un «Libro edificante e sollazzevole», il suo me ne frego nasconde dietro l’ironia l’amarezza di una sconfitta (sul carattere antieroico, progressivamente isolato, in un certo senso ebraico, dell’umorismo di Formìggini cfr. le interessanti osservazioni di Ezio Raimondi nel saggio I “Classici del ridere”, in BALSAMO, CREMANTE 1981).
Nel 1923 Formìggini è già «Editore in Roma», editore della Tassoniana, miscellanea di studi storici e letterari pubblicata nel 1908 con la Prefazione di Giovanni Pascoli, e di varie collane: Profili, monografie di personaggi famosi della storia, scritti da autori importanti e di diversissimo orientamento, tra i quali Massimo Bontempelli, Concetto Marchesi, Attilio Momigliano, Silvio Spaventa ed Ernesto Bonaiuti; Biblioteca di Varia Cultura; Poeti Italiani del XX Secolo; Filosofi Italiani, diretta da Felice Tocco (solo Telesio, per le difficoltà di finanziamento sorte in seguito); Apologie delle varie religioni; Classici del ridere con più di una quarantina di titoli già prima del 1923 (la collana completa arriverà a 105 titoli, cfr. l’elenco nel sito della Fondazione Franco Fossati), e che lo stesso editore a ragione giudica «er mejo fico der mio bigonzo» (FORMÌGGINI 1923, p. 30). Tra questi classici troviamo l’Ulenspiegel di Charles De Coster, tradotto da Umberto Fracchia, i Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, tradotto da Aldo Valori, e il Tristano Shandy di Laurence Sterne, reso in italiano da Ada Salvatore. Ha anche pubblicato alcune riviste, tra le quali, per undici anni, la “Rivista di filosofia”, organo della Società filosofica italiana, e soprattutto l’ICS, “L’Italia che scrive”, che chiama anche l’X. Si tratta di un periodico bibliografico, sempre aggiornatissimo, che recensisce tutto quanto si scrive nel nostro paese e contiene pezzi caustici e satirici, presentazioni brevi e vivaci, rubriche varie. Il bollettino raggiunge le diecimila copie vendute e, a tratti, persino trentamila. Il primo numero era uscito il 1° aprile 1918, eravamo ancora in guerra, ma la data suggerisce un primo sorriso dell’editore umorista (la storia del bollettino è delineata in TORTORELLI 1996, che descrive le vicende di alcuni importanti collaboratori, tra cui Ettore Lo Gatto, Ernesto Bonaiuti e Giorgio Falco, le difficoltà legate al controllo del regime, ma anche i limiti di alcuni settori di analisi).
Del resto umorista Formìggini lo era stato fin da studente, quando compose la parodia dantesca intitolata La Divina Farsa; quando si laureò a pieni voti con una tesi in diritto ariano a semitico che, a suo dire, nessuno lesse; quando si laureò una seconda volta in filosofia con la Filosofia del ridere; quando iniziò la sua carriera editoriale con le pubblicazioni tassoniane in una festa che celebrava, con un banchetto a Fossalta, la simbolica restituzione della secchia rapita ai bolognesi da parte dei modenesi. Lo racconta l’autore in La Ficozza Filosofica del fascismo e la marcia sulla Leonardo, da cui ho tratto la prima citazione. “Ficozza” è un termine romanesco che indica un bernoccolo, una protuberanza sulla fronte di chi riceve una grossa botta. Ancora disponibile verso la politica di Mussolini, Formìggini concentra le sue critiche su Giovanni Gentile: «Gentile è una tegola caduta sul capo del fascismo, o, per meglio dire, è la ficozza, l’ἐγχύμωσιϛ, prodotta dalla tegola» (FORMÌGGINI 1923, p. 178). La marcia sulla Leonardo è un’operazione ordita da Gentile per impadronirsi di un istituto creato dal nostro editore come emanazione dell’ICS, ma autonomo, un consorzio editoriale chiamato inizialmente Istituto per la propaganda della cultura italiana, poi Fondazione Leonardo per la cultura italiana su proposta di Gentile. Il primo presidente è il fisico e senatore Orso Mario Corbino, poi l’on. Ivanoe Bonomi, il presidente onorario è Ferdinando Martini. Il progetto, a cui aderiscono molti editori italiani, comprende la continuazione delle Guide bibliografiche e, nella seduta del comitato direttivo del 21 ottobre 1922, Formìggini ripropone un’idea che aveva già in mente in tempo di guerra, una Grande Enciclopedia Italica in diciotto volumi, presenta una proposta analitica sostenuta dalle note finanziarie e si impegna con un contributo in denaro di tasca sua.
L’assemblea del 21 febbraio 1923 stravolge tutto: Amedeo Giannini, Cinereo Giannini – scrive nelle dediche ironiche della Ficozza –, piccolo Giano bifronte, su indicazione di Gentile, organizza la presenza di un notevole numero di nazionalisti che votano un nuovo Consiglio direttivo escludendo Bonomi, Corbino, Almagià e Chiovenda, i principali collaboratori del nostro. Formìggini no, solo perché è socio onorario, ma subito dopo lo obbligheranno a dimettersi. Sono queste le prime avvisaglie dell’odio che il potere fascista eserciterà contro tutte le attività dell’editore ebreo, dalla collezione della Casa del ridere, alla Biblioteca circolante e persino contro la sua casa privata sul Campidoglio, demolita dal “piccone risanatore”, provocando la sua reazione individualissima: il suicidio, il 29 novembre 1938, con un volo dalla Ghirlandina di Modena.
I me ne frego ripetuti nel libro del 1923 sono rivolti a Giannini e a Gentile, definito, nelle dediche e più volte nel testo, il «cigno di Castelvetrano», il «canoro palmipede» (p. 176), il filosofo del «mi ghe l’ho dentro» (p. 17). La satira non è soltanto politica, ma entra anche nel merito della filosofia dell’atto puro: negli «arzigogoli della dialettica gentiliana» (p. 172) Formìggini individua un io creatore che sembra approdare a esiti opposti:
Veramente, quell’io e quel non io, quell’oggetto estraneo al soggetto che lo pensa, che addirittura lo crea, senza cui non sarebbe, e che ritorna ad ogni voltar pagina di Gentile e dei suoi fonografi, è una cosa un po’ monotona e melanconica anzi che no. Questo calamaio in cui io intingo la penna, il quale non è, in sé, ma che è in quanto io lo penso, lo creo dentro di me, e che quando uscirò da qui non resterà più qui, ma potrò portarmelo via con me, nascosto dentro l’astuccio del mio io […]; questo calamaio che entrerà nell’io di altri studiosi che verranno dopo di me; questo vuoto che c’è fuori me, dentro di me; questo viver tra i fantasmi che ciascuno si pone; questo esser diverso ora da quello che si era un minuto fa; questo vivere di una psicologia alla giornata […]; questo fluttuare dell’io che si mette la camicia nera» (p. 174).
Questa critica, che ricorda la satira dell’io fichtiano da parte Jean Paul Richter, è accompagnata da pagine di delusione e rabbia, ma verso la fine del libro ritroviamo il carattere gioviale di Formìggini e la sua filosofia del ridere. Il ridere è caratteristica eminente dell’umanità ed elemento diagnostico dell’individuo: «dimmi di cosa ridi e ti dirò chi sei». I Classici del ridere dovranno continuare a proporre tutti i tipi del ridere, da quello allegro e «affratellatore degli animi» (p. 332) a quello maligno o turpe, che è comunque umano. «Gli uomini seri, i filosofi – scrive – non ridono mai: sono misogeli. Alla Larga! Chi non ama ridere non ama l’umanità, perché il ridere è il sigillo dell’umanità. “Il riso l’uom dall’animal distingue” dice padre Rablesio» (p. 335), vale a dire Rabelais.
Il capitolo si conclude con un sospiro di sollievo: all’acrimonia segue la risata dell’editore che si paragona ad Anteo, il quale, toccando terra, riprende le sue energie contro – scrive con lo stile gaddiano di Eros e Priapo – «il manganello dell’Ercole nerocamiciuto di Castelvetrano» (p. 338). Al ministro riserva un dono: una camicia di seta nera ricamata da monacelle di un certo convento con grandi lettere d’oro che ripropongono il «sacro motto che portò il fascismo al potere e che Gentile ha, in una sua classica epistola che sopravviverà alla sua filosofia, dichiarato di far suo: ME NE FREGO» (p. 355). Nei suoi libri futuri aggiungerà un terzo motto:
Amor et labor vitast.
Risus quoque vitast.
Atque mihi confricor.
Gentile stesso scriverà una recensione della Ficozza e l’editore la pubblicherà sull’ICS: senza nemmeno citare il nome di Formìggini e senza parlare del libro, Gentile entra direttamente in argomento e afferma il carattere diabolico del riso. Gli gli uomini seri, gli uomini grandi – scrive –, non ridono, «il riso importa una affermazione immediata dell’individualità, che si pone, quel che ella sia, di contro all’oggetto e trova in sé medesima ogni valore», «nega l’oggetto per affermare unicamente se stesso». Certo non può negare che il riso sia elemento essenziale della vita dello spirito, ma è l’elemento negativo, che deve essere a sua volta superato dialetticamente e cedere di fronte al suo opposto, rappresentato dal divino (GENTILE 1924).
Gentile riproporrà poi il suo me ne frego senza bisogno del regalo della camicia di Formìggini. Rivendicando il carattere antipacifista della dottrina politica e sociale del fascismo, Giovanni Gentile alla voce “Fascismo” sull’Enciclopedia italiana (voce firmata Benito Mussolini) scriverà:
L’orgoglioso motto squadrista me ne frego, scritto sulle bende di una ferita, è un atto di filosofia non soltanto stoica, è il sunto di una dottrina non soltanto politica: è l’educazione al combattimento, l’accettazione dei rischi che esso comporta; è un nuovo stile di vita italiano. Così il fascista accetta, ama la vita, ignora e ritiene vile il suicidio; comprende la vita come dovere, elevazione, conquista: la vita che deve essere alta e piena; vissuta per sé, ma soprattutto per gli altri, vicini e lontani, presenti e futuri.
Poco più avanti ritornerà sul motto esaltando l’«audacia» e l’«impeto» dei legionari fiumani, il «non rifuggire dalla beffa agli avversarî»:
Me ne frego (cioè, nulla m’importa di morire) è il motto volgarmente ma efficacemente espressivo di tale stato d’animo. Grande, sui giovani, il fascino di quelle rapide azioni di guerra, di quei canti, di quella baldanza, di quel sacrificio cruento e lietamente affrontato, di quel religioso raccoglimento nel momento dell’appello ai caduti. Non è necessario chiedere, sempre, gli scopi ultimi di tutto questo. Era, non poco, l’avventura in sé stessa, l’azione per l’azione, specialmente nei più giovani che, cresciuti al lontano rombo della guerra, sono portati a concepirla e desiderarla come un bel gioco; e, non avendola potuta fare a suo tempo, cercano di farla ora, come e dove possono. C’è nel fascismo, specialmente delle origini, qualcosa che trascende la politica e i suoi problemi ed è, senz’altro, gioventù, gioventù italiana, gioventù di dopoguerra, gioventù che trabocca, quasi ringiovanimento della nazione. La rivoluzione fascista è, per metà, opera loro.
Questo Gentile lo scriverà nel 1932, ma le parole della retorica attivistica suonano false e cupe, in un nuovo ironico e nero rovesciamento della beffa, soprattutto in un’enciclopedia il cui primo progetto risale proprio a Formìggini.
La citazione di Calvino in esergo è tratta dalla voce “Barzellette” di Marie-Anne Matard Bonucci in Dizionario del fascismo, a cura di Victoria de Grazia e Sergio Luzzatto, Einaudi, Torino 2002, vol. I, p. 148.
FORMÌGGINI Angelo Fortunato (1923), La Ficozza Filosofica del fascismo e la marcia sulla Leonardo, A. F. Formiggini editore in Roma
(1984) Parlare fascista. Lingua del fascismo, politica linguistica del fascismo, “Movimento operaio e socialista”, N.S., anno VII, 1
BALSAMO Luigi, CREMANTE Renzo (1981), Angelo Fortunato Formiggini: un editore del Novecento, Il Mulino, Bologna
BIDUSSA David (2019), Vocabolario italiano, in Benito Mussolini, Me ne frego, a cura di Id., Chiarelettere, Milano
CASTRONUOVO Antonio (2005), Libri da ridere, Stampa alternativa, Viterbo
FUMAGALLI Giuseppe (1921) Chi l’ha detto?, Hoepli, Milano
GENTILE Giovanni (1924), recensione a Angelo Fortunato Formìggini, La Ficozza Filosofica del fascismo e la marcia sulla Leonardo (seconda edizione), “L’Italia che scrive”, VII, 12, p. 225
TORTORELLI Gianfranco (1996), «L’Italia che scrive» 1918-1938. L’editoria nell’esperienza di A.F. Formiggini, Franco Angeli, Milano
Fascismo, voce dell’Enciclopedia italiana, 1932
L’elenco dei Classici del ridere nel sito della Fondazione Fossati: http://www.lfb.it/fff/editoria/test/c/classiciridere_formiggini.htm
Frontespizio di Angelo Fortunato Formiggini, La ficozza filosofica del fascismo, seconda edizione ritoccata e allargata con un buon paio di appendici e con fregi e disegni di diversi autori, Roma 1924 (Modena, Tip. Ferraguti). L’immagine raffigura Gentile che butta il libro nel cesso, indicato dalla scritta 00, numero che l’autore assegna al libro nella collana dei Classici del ridere.