In margine alla ricostruzione della leggenda di Fillide nella tradizione antico francese e dell’analisi del Lai d’Aristote di Henri de Valenciennes, scritta da Mattia Cavagna per il primo numero della rivista (CAVAGNA 2010), esaminerò qui di seguito alcuni scritti che hanno contribuito alla conoscenza di questa tradizione letteraria e iconografica. Lo propongo senza pretese di completezza e nella speranza di nuovi contributi sull’argomento.
Per riportare alla memoria la trama vedi anche il Manifesto della rivista.
Dopo la prima edizione critica del Lai, curata da Maurice Delbouille, pubblicata nel 1951, Raffaele De Cesare interviene con uno studio documentatissimo sulla presenza nella letteratura italiana del Duecento e nella letteratura italiana e francese dal Duecento al Cinquecento della vicenda di Aristotele cavalcato, di cui il poemetto – allora ancora attribuito a Henri d’Andeli – costituisce una delle espressioni artisticamente più elaborate.
De Cesare cita innanzi tutto i nomi della figura femminile: accanto al nome di Fillide troviamo Siralin, Perrones, Campaspe, Candace e persino Alcibiade (al femminile). Il racconto, di provenienza orientale – ma su questo l’autore interverrà in termini più analitici nel saggio successivo – si diffonde in Europa a partire dalla Francia; in Germania era già noto alla fine del XIII secolo grazie ai versi dell’anonimo scrittore di Aristoteles und Phyllis e all’Alexandreis di Ulrich von Eschenbach (1283/1287); anche in Italia – sostiene De Cesare – doveva essere conosciuto già dalla seconda metà del Duecento. Lo attesta un’allusione del Li livres dou Tresor di Brunetto Latini (1262/1266), tradotto subito in italiano (l’attribuzione di questa traduzione è stata oggetto di divergenze tra i critici). Riportiamo interamente il passo citato:
In questa maniera perdono ellino [gli uomini] il loro senno, sì che non vagliano nulla, sì come Adamo fe’ per sua femina, per cui tutta l’umana generazione è in pericolo, e sarà sempre, David che per la beltà di Betsabea femina fece omicidio e adulterio, Salomone suo figliuolo adorò gli idoli, e falsò sua fede, per amore di una Idumea, Sansone discoperse alla sua amica la sua forza, ch’egli avea nei capelli, e perdè poi la forza e la vita, e morì egli e tutto lo senno. Di Troia com’ella fu distrutta sa ogni uomo e d’altre terre, e molti principi che sono distrutti per falso amore. Anche Aristotele, così grandissimo filosofo, e Merlino, furono ingannati per femine secondo che le istorie contano.
Aristotele viene poi ricordato accanto a questi esempi illustri – con l’aggiunta di Virgilio – in un sonetto attribuito a Chiaro Davanzati, Or tornate in usanza buona gente (pubblicato da Comparetti, cfr. n. 4, p. 185), nel poema allegorico l’Intelligenza, dove Aristotele cavalcato figura scolpito nel palazzo di Alessandria d’Egitto: «Aristotil che portò la sella» (cit. p. 187), e nel commento alla propria traduzione francese del De Consolatione Philosophiae di Pierre de Paris. Di questo testo De Cesare ci dice di un manoscritto copiato in Italia per un signore genovese (n. 4, p. 188).
Pierre de Paris introduce la nostra storia dopo aver tradotto il passo di Boezio che afferma che una maggior lungimiranza dello spirito permetterebbe agli uomini di cogliere la profonda vanità delle cose:
Quod si, ut Aristoteles ait, Lyncei oculis homines uterentur, ut eorum visus obstantia penetraret, nonne introspectis visceribus illud Alcibiadis superficie pulcherrimum corpus turpissimum videretur? igitur te pulchrum videri non tua natura, sed oculorum spectantium reddit infirmitas (che se, come dice Aristotele, gli uomini usassero gli occhi di Linceo per penetrare ciò che li ostacola, non è forse vero che, esaminati gli organi interni, quel corpo di Alcibiade, bellissimo all’esterno, sembrerebbe bruttissimo) (Consolatio Philosophiae, L. III, § 8)
Nel commentare il passo Pierre introduce la nostra leggenda con alcune curiose variazioni: Alcibiade è diventato donna e l’amicizia di Socrate è attribuita ad Aristotele. Alcibiade seduce dunque con il suo canto Aristotele, il quale, pentitosi, conclude con le parole della Philosophia: «Certo, se io avessi avuto occhi di lince non sarei stato sorpreso né infiammato dall’amore per lei, in quanto avrei visto la sozzura che v’è dentro il suo corpo» (D’ANDELI 2005, p. 113, dove si può leggere l’intero passo).
Per il Trecento De Cesare cita prima di tutto il trattato morale Del reggimento e dei costumi delle donne (1310/1320) di Francesco da Barberino che rovescia la prospettiva del dispregio verso il sesso femminile, facendosene invece difensore: la Donna e il Cavaliere discutono sulla superiorità da attribuire alla «femmina» oppure all’uomo e la Donna conclude affermando che la femmina non è più debole dell’uomo per essere «signioreggiata» ma perché «con sottigliezza sa vinciere» (p. 193). Aggiunge il Contrasto delle donne di Antonio Pucci, testo connesso alla tradizione francese e che ebbe notevole fortuna nei secoli XIV e XV.
Po’ ch’Aristotel ebbe innamorato,
Gli disse: «in zambra, se tu vuo’ il mio amore,
Prima da me vo’ che sia cavalcato».
Egli assentì: ed ella il suo signore
Avea da parte fatto star celato,
Sì che vide ‘l maestro, e vide ch’ella
Il cavalcava con freno e con sella
Costei fé me’ che mai donna facesse,
Perché al signor non restava di dire,
Ch’a le lusinghe d’amor non credesse,
Se ‘l non volesse anzitempo morire;
Ed Alessandro volle che ‘l vedesse,
Perché mai poscia nol volesse udire.
Lo ‘mperador le volle me’ che prima
E disse a lui ciò che si convenia.
Il saggio prosegue spostandosi nella Francia del Trecento dove «la nostra leggenda continuava il suo fortunato cammino aumentando la sua già imponente diffusione» (p. 195). Dalla tarda canzone di gesta Li bastard de Bouillon, in cui appunto il protagonista ricerca la moglie che gli sfugge e lo schernisce (Aristotele e Virgilio vengono citati a conferma della malizia femminile), De Cesare passa al poema La fonteinne amouroeuse di Guillame de Machaut, e poi ai due scritti di Jehan Le Fevre, il Matheolus (traduzione di un poemetto latino) e Le livre de Leesce che confuta l’antifemminismo della traduzione precedente. Ormai l’exemplum di Aristotele si associa a quello di Virgilio nella cesta, come testimonia anche il Joli buisson de jonece di Jean Froissart e il Miroir de mariage di Eustache Deschamps.
Forse però le osservazioni più interessanti di De Cesare si riferiscono alla tradizione italiana alla quale ritorna nel prosieguo analizzando la novella De falsitate mulieris di Giovanni Sercambi (1374 circa, cfr. sezione TESTI). La storia è più articolata: è la moglie di Alessandro, madonna Orsina, ad architettare la beffa facendo innamorare Aristotele della sua bella cameriera Viola. Anche la conclusione è diversa e comprende la vendetta del filosofo. De Cesare cita poi l’anonimo Storia di Alessandro Imperadore (di incerta datazione), facente parte di alcune versioni dei Fioretti della Bibbia, e il Quadriregio di Federico Frezzi della fine del secolo o dell’inizio del successivo.
Il Quattrocento non esaurisce la fortuna della leggenda, ne vede anzi un’ulteriore diffusione in testimonianze letterarie e iconografiche: al catalogo già composto da Andries Borgeld e Fr. Moth, De Cesare aggiunge le canzoni seguenti: Sovente in me pensando come amore di attribuzione incerta, Spirto gentil da quel gremio sciolto di Niccolò Malpigli e Nel tempo che reluce il carro d’oro di Francesco di Bonanno Malecarni (1441). Ma l’operetta più importante del secolo è la nota Historia duorum amantium di Enea Silvio Piccolomini (1444) che nelle prime pagine del racconto di Eurialo, innamorato di Lucrezia – «quasi a rafforzare nel personaggio l’ardore di intraprendere la prova» (p. 214) – allude alle vicende amorose che coinvolsero grandi personaggi, tra i quali Virgilio e Aristotele.
[…] Quid tamen incassum, ait (miser), amori repugno? Num me licebit quod Julium licuit, quod Alexandrum, quod Hannibalem? Viros armatos refero. Aspice poetas: Virgilius per funem tractus ad mediam turrim pependit dum se mulierculae sperat usurum amplexibus. Excuset quis poetam ut laxioris vitae cultorem! Quid de Philosophis dicemus disciplinarum magistris et artis bene vivendi praeceptoribus? Aristotelem (tamquam equum) foemina ascendit, freno cohercuit et calcaribus pupungit. (Perchè infine invano, dice il misero, respingo l’amore? Sarà forse lecito a me ciò che fu lecito a Giulio, ad Alessandro, ad Annibale? Mi riferisco a uomini armati. Guarda i poeti: Virgilio, tirato su con una fune, rimase appeso a metà di una torre, sperando di avere gli amplessi di una donnetta. Qualcuno potrebbe scusare il poeta come fautore di una vita un po’ debole! Ma che cosa diremo dei filosofi maestri di scienze e precettori dell’arte del ben vivere? Ad Aristotele (come un cavallo) una donna montò sopra, lo costrinse col morso e con gli speroni lo punse.)
L’opera ebbe 27 edizioni nel Quattrocento, e fu tradotta in tedesco, italiano e francese.
Seguono numerose testimonianze della letteratura francese, italiana e tedesca (un’intera commedia di Hans Sachs) che in genere si inseriscono nella cosiddetta “querelle des femmes”:
uomini di corte o di studio, poeti o prosatori, si accaniscono nei dibattiti contro il sesso femminile o in suo favore; […] anche la nostra leggenda continua a conoscere una voga importante che nulla ha perduto in rilievo o (per così dire) in mordente nei suoi tre secoli di vita. (pp. 226-227)
Dopo l’elenco delle ricorrenze nella letteratura francese del XV secolo De Cesare conclude maliziosamente con la citazione del capitolo Delle lodi del Fuso (elogio burlesco delle virilità) di Girolamo Ruscelli (morto a Venezia nel 1566):
Aristotil, che ognuno sa quanto fusse
Saggio, nella vecchiezza ad imparare
Di filare, e di torcer si condusse.
Ma perché troppo bene adoperare
Non sapea la conocchia, ch’era usato
Insegnar sol fanciulli, e disputare,
N’era severamente gastigato
Dalla maestra, e lo faceva sovente
Camminar brancoloni ed insellato
Molto interessante anche l’Appendice al saggio che comprende un catalogo di molte testimonianze iconografiche italiane sulla leggenda.
L’interesse di questa recensione risiede nella discussione della tesi di Joachim Storost sull’origine della leggenda (STOROST 1955, STOROST 1956). Storost contesta l’ipotesi che il racconto di Fillide sia l’invenzione di un chierico europeo, annoiato dallo studio dell’Organon di Aristotele, ma anche che la leggenda, di origine orientale, sia stata applicata alle figure di Alessandro e di Aristotele solo in Occidente.
Storost analizza le redazioni arabe della vicenda e distngue due filoni narrativi: il primo, rappresentato dallo Pseudo – Gāhiz (VIII-IX secolo?) e dal Nihāyatu’lirab (metà del X – inizio dell’XI secolo), il secondo rappresentato dai racconti kabili di Si Djeh’a e dal Visir sellato e imbrigliato di Ah’med ibn Hemdem. Limitandoci ai soli personaggi, il primo filone ha come protagonisti un re, una regina, una schiava e un dignitario religioso, il secondo un re, una cantatrice (o odalisca o schiava) e un Visir. Delle versioni occidentali Storost sottolinea la grande varietà delle narrazioni e afferma l’impossibilità di indicarne una fonte unica occidentale. Analogamente l’iconografia e, in particolare, l’affresco di San Gimignano e la pittura sul soffitto di una grande sala dello Steri di Palermo, sembrano indicare una diretta provenienza orientale.
Se poi la leggenda viene intesa come l’illustrazione di un passo del Libro VII dell’Ethica Nicomachea, Storost contesta che questo testo antico fosse conosciuto in Occidente all’inizio del XIII secolo. L’argomentazione di Storost è molto analitica e articolata, ma la conclusione è che la leggenda deve essere stata recepita in Occidente in più luoghi e in più versioni. Storost è poi indotto a sottolineare la funzione della Sicilia nella recezione della tradizione araba (a questo proposito cita, oltre alla pittura di Palermo, anche la leggenda della tomba di Sant’Aristotele a Palermo).
Le obiezioni di De Cesare prendono le mosse dall’osservazione che la pittura di Palermo appartiene all’ultimo venticinquennio del Trecento e che l’Ethica aristotelica era già conosciuta all’inizio del Duecento. Non esisterebbero dunque nella tesi dello Storost elementi storici sicuri e incontrovertibili, ma solo considerazioni meramente congetturali; in ambito congetturale però la tesi contiene molti elementi acuti e plausibili soprattutto per quanto riguarda la pluralità delle trasmissioni narrative.
Nella seconda parte del saggio De Cesare apporta alcune precisazioni al suo lavoro precedente e altre indicazioni che arricchiscono il catalogo iconografico.
Marco Infurna raccoglie in questo piccolo libro:
– il testo dell’edizione critica di Corbellari del 2003 (conforme alla trascrizione del manoscritto D, scelto da questo autore come manoscritto di base, con qualche lieve modifica di cui rende conto nella Nota al testo)
– la traduzione italiana
– tre Exempla (Jacques de Vitry, Étienne de Bourbon, l’Exemplum della raccolta anonima di Arras)
– il passo di Pierre de Paris del commento a Boezio.
L’introduzione propone al pubblico italiano un’approfondita disamina del testo, una discussione critica della tradizione della saga e un’interpretazione storica ed estetica del Lai. Dopo aver riportato un breve elenco delle varie versioni Infurna si pone una domanda fondamentale: perché Aristotele?
Scartata la tesi di Bédier sull’invenzione dell’episodio da parte del chierico irritato, Infurna rende conto di alcune versioni orientali, ma accetta l’attribuzione della vicenda ad Alessandro e Aristotele come invenzione occidentale, citando De Cesare.
Discute la datazione del Lai, collocandola dopo il 1228 e mantenendo provvisoriamente l’attribuzione a Henri d’Andeli. Entrando nel merito della scelta della figura di Aristotele, Infurna suggerisce come motivi principali l’irrisione verso il maestro di cui il Medioevo ha una visione romanzesca e le resistenze da parte dei filosofi e dei teologi alla diffusione dell’aristotelismo. In quel contesto va sottolineata la fortuna dello scritto pseudoaristotelico, Secretum secretorum (X secolo), traduzione latina (inizio XII secolo) di un trattato arabo di medicina, fisiognomica, astrologia e magia. Il testo è concepito come una lettera scritta da Aristotele ad Alessandro con consigli per garantire il potere e la stabilità del regno dopo la conquista della Persia e, tra questi consigli, il richiamo alla castità. Questo elemento ritorna nelle varie versioni del Romanzo di Alessandro.
È questa tradizione romanzesca – scrive Infurna -, in cui convivono e si fondono cultura clericale e spirito cortese, che deve aver attratto il racconto orientale entro la propria costellazione; e del resto il carattere comico e satirico del racconto si prestava bene, attribuiti i ruoli di protagonisti ad Aristotele e Alessandro, a introdurre un elemento tutto sommato giocoso e dissacrante in un corpus come quello del Romanzo di Alessandro, che la natura del suo eroe aveva già aperto a più registri. (p. 23)
Il Lai costituisce un momento ulteriore di questa tradizione, respinge la misoginia e traspone il racconto «con arguzia e levità nel codice della fin’amor» (p. 25). Qui l’analisi di Infurna sottolinea il carattere cortese, la finezza, la misura, il tono conversevole, privato, intimistico dell’incontro d’amore tra Alessandro e l’amata. Viene raccontata con raffinata ironia anche la vendetta, preparata dall’allusione precedente in cui il maestro Aristotele avverte l’allievo Alessandro che, se non si ravvede, potrà essere portato a pascolare in un prato come un animale e conclusa nel rovesciamento comico dell’argomentazione aristotelica:
Se delle pene d’Amore
Dovette sopportare il peso
Colui che fu maestro d’ogni scienza
A maggior ragione lo sopporteremo noi,
di lui assai meno dotti. (vv. 571- 575)
Alla dimensione cortese contribuiscono gli inserti lirici delle canzoni da ballo e della canzone di tela che Infurna mette in rilievo in contrapposizione alla lettura di Corbellari che individuava nel poemetto l’esito di un contrasto tra clero e cavalieri, anima e corpo, cultura e natura, istinto e ragione. Egli poi conclude con i dubbi sull’attribuzione a Henri d’Andeli – dubbi che saranno confermati dagli studi della critica e dalla definitiva attribuzione a Henri de Valenciennes (1230 circa).
Il catalogo dell’iconografia di Fillide in l’Italia inizia con l’affresco nel palazzo contiguo alla Loggia dei Cavalieri di Treviso. Il dipinto risale alla fine del XIII secolo; nel 1902 venne spostato nel Museo Comunale di Treviso; durante la seconda guerra mondiale venne però distrutto da un bombardamento. L’indicazione è di De Cesare che inizialmente lo considerava irrecuperabile: era stato invece fotografato da Storost, come scrive lo stesso De Cesare nel saggio successivo. Altri esempi importanti – sempre limitatamente all’Italia – sono gli affreschi di San Gimignano, di Colle Val d’Elsa e di Città di Castello, un disegno di Leonardo riportato da von Marle, un affresco di Rosso Fiorentino e la pittura palermitana dello Steri.
Questi saggi riguardano invece un’immagine – poco citata nella bibliografia su Fillide – che appartiene al ciclo pittorico di Castel Pietra, presso Calliano, nelle vicinanze di Rovereto, in Trentino. Il castello è composto da un nucleo fortificato romanico, appoggiato su un masso roccioso, e da alcune sale di epoca gotica. La sua funzione era di sorvegliare, assieme al vicino Castel Beseno, la via imperiale che seguiva il corso dell’Adige e appunto a Calliano ebbe luogo nel 1487 un’importante battaglia tra le truppe imperiali e i veneziani.
Gli affreschi della Sala grande di questo castello sono stati scoperti nel 1926 e restaurati negli anni 1990-1991, studiati e datati da Antonio Morassi.
Laura Dal Prà descrive il restauro e l’intero ciclo dipinto, ne analizza i temi e rende conto delle attribuzioni nel contesto della cultura artistica del Quattrocento. Le pitture ritraggono Orlando, un paggio che gioca con un orso, il Giudizio di Paride, una dama che suona l’arpa, un suonatore di liuto, Sansone che uccide un leone, una grande scena di caccia, una dama con un uomo nella gabbia e Fillide che cavalca Aristotele. L’amore, la caccia, la guerra e il gioco vengono ricondotti dall’autrice all’ambiente cortese e collegati agli altri cicli pittorici profani del Trentino e dell’Alto Adige che testimoniano «una cultura composita a cavallo tra mondo italiano e quello d’Oltralpe, debitrice della tradizione cortese medievale ma già aperta alle novità dell’era rinascimentale».
I dipinti risalgono al periodo 1468-1482, se non addirittura al 1468-1478 (secondo Morassi) e sono in parte attribuiti al pittore veronese Bartolomeo Sacchetto e alla sua scuola. Dal Prà nota anche la presenza di diversi autori, di diverso livello, ma accomunati dalla descrizione paesaggistica ricca di particolari e dalla precisione nella definizione dell’abbigliamento.
Per quanto riguarda il riquadro di Fillide Dalprà nota che Aristotele è «indebitamente coronato» e collega l’immagine a un’illustrazione del cosiddetto Hausbuchmeister (inizio del XVI secolo) e a una riproduzione della scenetta nel Goldenes Dach di Innsbruck per opera di Kölderer su commissione di Massimiliano I.
Silvia Spada Pintarelli e Angela Mura riprendono la descrizione in un capitolo del libro Le vie del gotico, pubblicato nel 2002. Le autrici discutono sull’attribuzione sottolineando il carattere unitario della bottega del Sacchetto e propongono, con una serie di argomentazioni, di arretrare la datazione al periodo 1465-1469.
L’analisi iconografica – approfondita per le altre scene rappresentate e, in particolare, per quella della dama con uomo in gabbia – si limita per Fillide a richiamare il precedente dell’Hausbuchmeister e alla citazione di van Marle.
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La Fillide di Castel Pietra – Foto di Motocchio