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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 08

 aprile 2014

Saggi e rassegne

Luisa Bertolini

Lo Humour di Paolo Bellezza

5690. Il Dossi è citato come umorista a pag. 45 e 125 del libro «Humour» di Paolo Bellezza – Strenna a beneficio del Pio Istituto dei rachitici Milano 1900. Stampato a Milano da Pietro Agnelli. (Carlo Dossi, Note Azzurre)

Nella lettura degli scritti di Carlo Dossi ho trovato questa nota ironica che mi ha incuriosito e spinto alla ricerca di questo libro, ormai quasi introvabile. Dossi cita Paolo Bellezza parlando di sé in terza persona e soltanto in relazione a sé stesso con tono distaccato e superiore. Non manca di rilevare la destinazione del libro-strenna a favore dei bambini rachitici, «scherzo tragico della matrigna natura» (sott. mia) – come scrive con evidente cattivo gusto nella presentazione al lettore il sindaco letterato, Gaetano Negri, sostenitore di Bava Beccaris1.

Dossi certamente se ne intendeva di umorismo, era stato lui stesso umorista fin dai primi suoi scritti, aveva sostenuto il carattere necessariamente umorista della nuova letteratura e aveva fatto dell’umorismo una categoria estetica, un fondo a cui attingere per numerosi progetti di creazione letteraria e di raccolta storica. Al libro di Bellezza non dedica nemmeno una riga: forse ha solo scorso l’indice, ma più probabilmente ha smesso di leggere dopo poche pagine. Il testo infatti appare a prima vista un insieme di esempi – taluni anche non pertinenti – di umorismo nella letteratura, non pretende l’approfondimento teorico, colleziona citazioni.

Ci sembra però interessante riprenderlo in mano, anche su indicazione di Daniela Marcheschi che sotto il titolo Filosofia/Scritti sull’Umorismo dal 1860 al 1930, pubblica nella rivista “Kamen” una selezione di testi che rivelano un particolare momento di fioritura della discussione attorno al nostro tema. In particolare per Bellezza la scrittrice indica nel filosofo francese Léon Dumont, in Enrico Nencioni e in Alice Werner la premessa della sua riflessione, accenna alle critiche che Pirandello rivolge alle sue tesi e conclude l’introduzione alle pagine di Bellezza affermando che il suo maggior merito consiste nell’includere sotto la rubrica dell’umorismo alcuni autori russi come Gogol, Turgenev e Dostoevskij.

Certamente Paolo Bellezza è una figura che spicca per originalità nel panorama culturale lombardo degli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento. Nasce a Milano nel 1867, si iscrive per errore, anziché al Politecnico, all’Accademia scientifico-letteraria, dove si laurea in letteratura latina. Ottiene poi il diploma per l’insegnamento del tedesco, del francese e dell’inglese e la conoscenza di queste lingue gli permette di analizzare le traduzioni dei Promessi Sposi e di seguirne la fortuna nelle letterature europee, motivo che lo spinge a studiare anche il russo. Su Manzoni scrive un numero sterminato di saggi e una parodia delle teorie lombrosiane applicate alla critica letteraria, Genio e follia di Alessandro Manzoni (vedi il saggio di Barbara Ricci in questo numero). Sintomo dell’ampiezza dei suoi interessi è anche la pubblicazione, nel 1932, di una raccolta di novelle indo-americane. Muore, solo e dimenticato, nel 1950 (SCARPAT 1951).

Lo scritto Humour (che citerò con l’iniziale H) conferma il carattere variegato della sua formazione, una certa disinvoltura nel trattare un tema teorico al tempo largamente dibattuto e la conoscenza delle tesi sull’argomento nella filosofia e nelle letterature europee. Il libro si colloca all’interno di una discussione su alcuni temi classici dell’estetica dell’umorismo – distinzione tra comico e umoristico, umorismo antico e moderno, sublime rovesciato – e su alcuni spunti che derivano dagli studi psicologici di impianto positivistico. Il dibattito costituisce l’immediato retroterra della più nota polemica tra Croce e Pirandello.

Il punto di partenza del libro è dato naturalmente dalla necessità di definire il termine: anzitutto Bellezza traduce subito humour con ‘umorismo’e con questo siamo già al centro della discussione. Hyppolite Taine – nota l’autore – afferma che la stessa parola humour da noi è intraducibile: «è una specialità dei popoli nordici, a un di presso come la birra che il palato di noi meridionali trova alquanto aspra e non saprebbe adottare come bevanda ordinaria» (H, p. 6). Ma su questo tornerò in seguito.

Procedendo in modo più analitico: certamente possiamo tradurre il termine inglese humour con umorismo, ma nella consapevolezza che l’ambito semantico non è esattamente lo stesso. Come scriverà Pirandello, citando il critico Alessandro D’Ancona, il termine – che ci proviene dall’inglese – ha però un’origine latina: significa corpo fluido, liquore, umidità o vapore, ma anche fantasia, capriccio o vigore. Nell’italiano si trova già nel Cinquecento, nel nome stesso della Accademia degli Umorosi a Bologna e a Cortona, e nel Seicento nel nome dell’Accademia degli Umoristi a Roma in un significato imparentato con quello attuale di umorismo. In italiano però ‘umore’ necessita di un aggettivo per qualificarsi: ‘buono’ o ‘cattivo’ umore, e lo stesso termine ‘umorismo’ ha assunto, accanto al significato ristretto che Pirandello si propone di definire nel suo saggio, una determinazione estremamente ampia e vaga (cfr. PIRANDELLO 1992, pp. 5ss.).

La traduzione della parola coinvolge quindi immediatamente la teoria dell’umorismo, ma Bellezza si rifiuta di darne una definizione, preferendo indicare una famiglia di significati imparentati:

Gli è che l’umorismo consiste di più elementi che difficilmente si possono indicare in una formula sola e distinta: meglio che una tendenza, è un complesso o una categoria di tendenze le quali, pur avendo in comune certi motivi, possono eplicarsi ciascuna indipendentemente, dando luogo ad altrettante forme o manifestazioni che sono tutte, ma in maniera diversa, umoristiche.

È più facile allora dire cosa l’umorismo non è: non è storiella, barzelletta, non è arguzia, grazia, verve. Esso – scrive Bellezza indicando ciò che distingue l’umorismo dal comico – «sorge dal contrasto, ma il contrasto è […] tra il dolore e la gioia, tra una situazione triste e una circostanza buffa», si colloca tra il riso e il pianto, ma non si lascia andare alla commozione, alle geremiadi o all’invettiva (H, p. 7). Il contrasto tra gioia e dolore non basta certo alla definizione; è necessario che l’umorista ne sia intimamente compreso, che a questo contrasto si ispiri e si informi tutta la sua opera, che addirittura se ne compiaccia. Tra molti altri esempi l’autore cita una poesia del Porta, la Lettera a un amis, sulla gotta che abitualmente lo tormentava:

Son staa in lecc des dì di infilaa
Con la gotta in tutt duu i pee,
Ho traa sgar, ho bestemmiaa
Per dò mila caroccee

E la pell […]
L’era squass pussee tirada
Che ne quella di tambor
[…]
I deliqui, i convulsion
Me ciappavan senza requi,
Son rivaa a far compassion
Fina a un pret che viv d’esequi.

Di seguito cita il vecchio Manzoni: «rido di me piangendo», e Leopardi: «son qui preso a calci da tutti, sputacchiato, deriso: Pure mi avvezzo a ridere, e ci riesco». Aggiunge anche Jean Paul Richter che definisce l’umorismo «la malinconia di un animo superiore, che giunge a divertirsi persino di ciò che lo fa soffrire» (H, pp. 16-17). Nelle righe seguenti sembra però che l’umorismo consista nella capacità di resistere al dolore e ancor meno convincente risulta il passaggio in cui Bellezza riassume il canone degli umoristi nel principio del ‘chi si accontenta gode’. La favola del ragno e della gotta di Gasparo Gozzi chiude il capitolo: il ragno, che vive in un palazzo dove i servi distruggono ogni giorno le sue tele, e la gotta, che dimora nella capanna di un contadino che la lascia sola e annoiata quando lavora nei campi, si scambiano le abitazioni; nella capanna nessuno si cura più delle tele del ragno, mentre la gotta, che è andata a intanarsi nei piedi di un vecchio signore, riceve mille carezze con ogni sorta di unguenti. Ma proprio questo breve racconto rivela che il carattere umoristico non deriva dal semplice accontentarsi e allude a un meccanismo più complesso.

Bellezza crede di risolvere il problema con lunghe citazioni dai romanzi di Dickens e della Eliot, che ripropongono il contrasto tra disperazione, cinismo e ironia: «così – conclude il nostro autore – presso lo scrittore umorista s’alternano e si combinano gli elementi più diversi: il patetico s’innesta sul buffo; una situazione comica si disegna sullo sfondo cupo della tristezza» (H, p. 29).

L’elemento patetico e la sua negazione con la presa in giro del sentimentalismo è al centro del capitolo sugli animali intitolato Serraglio umoristico. Al motivo centrale Bellezza sovrappone molti altri elementi: il primo, diffusissimo, è l’affermazione della superiorità etica del comportamento di alcuni animali rispetto a quello degli uomini. Un esempio è nel racconto di Carlo Dossi, Amore di figlia, dove l’umorismo è dato dal contrasto tra il fedele bracco Febo, «accucciato alla soglia dell’estinto padrone, molli le orecchie, melancònico il muso tra le zampacce. E presso il muso, una scodella di zuppa, intatta» e la figlia piangente che si ritira in camera sua, «siede allo scrittojo, elegge un fogliuzzo dalla nera orlatura, intinge nel calamajo la penna; quindi in bel carattere inglese: “Mio diletto biondone; /auf! finalmente…“» (cito direttamente DOSSI 1981, pp. 68-69). Altro topos della letteratura umoristica consiste nell’affidare all’animale la possibilità di uno sguardo estraniato sul mondo, di una visione dall’esterno delle miserie umane, come nel caso dei gatti di Ghislanzoni e di Rajberti che descrivono ironicamente l’affannarsi degli uomini. Il loro punto di vista corrisponde a quello del Giannozzo di Richter che, sorvolando velocemente l’Europa delle corti e dei piccoli centri borghesi, guarda dall’alto della sua mongolfiera i contrasti del mondo. Ma l’ostinazione nell’evitare la teoria porta l’autore a inserire altri esempi che appaiono incongrui, più patetici che umoristici, come il caso del gatto soriano del Nievo che rimane attaccato al cadavere e poi al luogo dove è seppellito il suo compagno di odi e di amori, il cane Marocco.

Più pertinente è l’analisi della sensibilità umoristica, «una sensibilità squisita, delicatissima, quasi morbosa» (H, p. 59), un eccesso di sensibilità su cui scherzare – riassunta nel verso del Porta che la attribuisce al suo Marchionn: «mi che poss vedè a piang nanca per rid» (335, v. I) -, su cui disperare come in Cecco Angiolieri, da mascherare con il cinismo e l’indifferenza, da sospendere come fa Manzoni che interrompe bruscamente una situazione commovente. Poco più avanti Bellezza ripropone il concetto dell’infinitamente piccolo con cui Hogarth, Sterne e Jean Paul Richter avevano definito l’umorismo, ma che troviamo anche in altri saggi del periodo (cfr. la conferenza di poco tempo prima dell’italiano Arcoleo, ARCOLEO 1885):

È l’umorismo veramente tra i generi letterari quello che si potrebbe definire “dei minimi termini”. Nulla è troppo poco per lui; esso sa trar partito da tutto, anche da ciò che è più tenue, esiguo e quasi impalpabile; per questo riesce così difficile farne l’analisi. Esso si rannicchia, lasciatemi dire, in una parentesi, in un paragone; e quanto più modesta forma esso prende, e più vivo si sprigiona e torna più piccante. (H, p. 69)

Gli esempi che seguono continuano però a mettere a fuoco il carattere patetico dell’umorismo nei motivi della prigionia e dell’amore, mentre il capitolo sulle bizzarrie torna al centro della definizione e propone una serie di esempi nei quali il linguaggio gioca con se stesso, come nel caso della proposta di riforma della lingua dello scrittore americano George Derby che propone di sostituire agli aggettivi dei numeri: «sto 70, ma mia madre, poveretta sta solo 15» (H, p. 94). Un altro aspetto che Bellezza giustamente individua come caratteristico di questa forma letteraria è la tendenza alla digressione e qui l’autore cita ovviamente The Life and Opinions of Tristam Shandy di Sterne che nel titolo promette di narrare la vita e le avventure del protagonista, ma che da subito si aggroviglia nelle interminabili disquisizioni storiche, filologiche e filosofiche sul nome che il genitore gli vuole dare e prosegue con questo ritmo di capitolo in capitolo con titoli stravaganti e bizzarri.

Dopo una breve analisi della psicologia degli umoristi, che consiste in un lungo elenco di fissazioni morbose e di malattie psichiche dei più grandi umoristi della storia, il libro ritorna al tema del contrasto tra situazioni drammatiche – naufragi, terremoti, miseria, fame, difetti fisici, malattia e pazzia – e la capacità del narratore di descriverne il lato paradossale, di enuclearne un elemento di comicità. In questo contesto gran parte delle citazioni si riferisce a Mark Twain, «umorista della fame e del cannibalismo per eccellenza» (H, p. 135), ma non mancano episodi tratti da Nievo, Daudet, Richter, Gogol, Dostoevskij e Dickens. Di quest’ultimo Bellezza riferisce il contenuto A Madman’s Manuscript, il racconto del pazzo, consapevole e felice di esserlo, che decide di uccidere la moglie che lo ha sposato solo per la sua ricchezza e che, incinta, potrebbe mettere al mondo un altro matto. Il pazzo prende in considerazione l’ipotesi di un incendio – uno spettacolo certo adatto alla pazzia – ma preferisce spaventarla, minacciarla con un lento crescendo. La moglie muore impazzita dalla paura, il fratello di lei che protesta viene strozzato, la casa – riassume il nostro autore – ad un tratto è piena di gente, il segreto viene scoperto: «ero matto! E mi hanno chiuso in questa gabbia; hanno paura dei matti! I matti sono furbi! Io mi glorio di esser matto!». L’argomento si completa con la trattazione dell’umorismo macabro, dell’umorismo capace di ridere anche di fronte alla morte come nell’ammiratissimo Shakespeare e del Galgenhumor di Swift. Non manca un capitolo sull’arte incentrato sul tema della danza macabra.

I capitoli conclusivi si presentano come un bilancio dell’umorismo nelle letterature moderne, «dico “nelle letterature moderne” – scrive l’autore – per la ragione semplicissima che gli antichi non conobbero l’humour» (H, p. 205; il cap. XIV è ristampato in “Kamen”, n. 36). La ragione addotta è che

il mondo degli antichi era ristretto, come nello spazio, così – per conseguenza – nelle idee, nelle cognizioni, ne’ sentimenti; scarsi erano perciò in proporzione que’ contrasti (di concetti e di fatti), da’ quali – come s’è detto e veduto a sazietà – scaturisce precipuamente l’umorismo.

Bellezza si richiama qui alla tesi della mancanza dell’umorismo nella letteratura antica sostenuta da Enrico Nencioni nel saggio L’ umorismo e gli umoristi, uscito su “Nuova Antologia” nel 1884. Nella fretta di arrivare all’esposizione dell’umorismo dell’amico Carducci, Nencioni aveva proposto una breve definizione dell’umorismo come «naturale disposizione del cuore e della mente a osservare con simpatica indulgenza le contraddizioni e le assurdità della vita» (NENCIONI 2011, p. 73), come sentimento e meditazione scettica e tollerante – ma più sentimento che meditazione – sul contrasto tra le miserie della vita reale e le aspirazioni verso l’ideale, come sentimentalismo trafigurato in poesia. Seguiva la decisa negazione dell’umorismo degli antichi, ad eccezione di Aristofane e di Luciano – ma quali eccezioni, commenterà Fraccaroli -, e una breve carrellata sugli autori umoristici dal Rinascimento in poi. Del resto la negazione dell’umorismo degli antichi era convinzione diffusa e radicata nella tradizione estetica che risaliva a Richter (cfr. anche ARCOLEO 1895).

Il saggio di Nencioni aveva suscitato la risposta di Giuseppe Fraccaroli, Per gli umoristi dell’antichità, pubblicato nel 1885, che non solo affermava l’esistenza di un umorismo antico, ma rivendicava al popolo greco il primato di questo approccio al mondo (FRACCAROLI 1885, p. 18) e portava gli esempi di Democrito, Socrate, Platone, Luciano, Aristippo e Diogene.

Bellezza cita anche il racconto di Alberto Cantoni, Humour classico e moderno (di cui dà conto anche Pirandello) che contrappone e sovrappone i due umorismi personificati in un vecchietto allegro e un ometto insicuro che, sotto la statua di Donizetti a Bergamo, rivelano analogie e differenze nel racconto della gita al mercato di Clusone.

Bellezza prosegue con una disamina degli scritti umoristici nelle varie letterature europee che sorprendentemente – a differenza dell’affermazione teorica che assegna alle letterature nordiche il primato dell’umorismo – riferisce di contributi decisivi in tutti i paesi europei. Il libro si conclude con un capitolo sulla letteratura inglese a cui spetta, secondo l’autore, la palma dell’umorismo, ma le ultime parole sono riservate a Shakespeare e a Manzoni.

L’Appendice contiene le poesie di Paolo Bellezza: sonetti e componimenti vari e di vario livello. La costruzione topica consiste nel presentare all’inizio un quadretto in cui sono presenti i personaggi che vengono fatti agire secondo i moduli convenzionali, ma che alla fine rivelano i difetti di provincialismo, di fariseismo, secondo i moduli tradizionali della critica all’italiano medio. Il inguaggio è quello della poesia del tempo, segue le forme del classicismo carducciano e utilizza il caratteristico rovesciamento dell’ispirazione alta, nel richiamo a una musa che proviene dal basso.

BIBLIOGRAFIA

per la biografia:

http://www.treccani.it/enciclopedia/paolo-bellezza_(Dizionario-Biografico)/

SCARPAT Giuseppe (1951), Paolo Bellezza. 25-1-1867 – 10-4-1950. In memoriam, “Lettere italiane” (con il curriculum di Bellezza per la Casa di Riposo in Appiano Gentile)

BELLEZZA Paolo (1898), rec. a Vincenzo Reforgiato, L’umorismo nei “Promessi Sposi” di A. Manzoni, “Giornale storico della letteratura italiana”

BELLEZZA Paolo (1895), rec. a Alice Werner (ed.), The humour of Italy, “Oscella”

Altri autori:

ARCOLEO Giorgio (1895), L’Umorismo nell’Arte moderna, Due Conferenze al Circolo Filologico di Napoli, Detken, Napoli (rist. in parte in “Kamen”, 35, 2009)

CANTONI Alberto (2005), Humour classico e moderno: Grotteschi, liberliber

DOSSI Carlo, Dossi C. (1981). La desinenza in A, a cura di Dante Isella, Einaudi, Torino

DUMONT Léon (1862), Du causes du rire, August Durant – Libraire Éditeur, Paris (v. anche all’indirizzo: https://archive.org/details/descausesdurire00dumogoog)

NENCIONI Enrico (2011), L’Umorismo e gli Umoristi, “Kamen”, 39

WERNER Alice (ed.) (1892), The humour of Italy, Walter Scott, London (v. anche all’indirizzo: https://archive.org/details/humourofitaly00wernuoft)

La nota:

GADDA Carlo Emilio (1988), L’Adalgisa, in Romanzi e racconti, I, Garzanti, Milano

CONTINI Gianfranco, GADDA Carlo Emilio (2009), Carteggio 1934-1963, a cura di Dante Isella, Gianfranco Contini, Giulio Ungarelli, Garzanti, Milano

1 Su Gaetano Negri vale la pena di riportare la nota di Gadda in un racconto dall’Adalgisa, Un «concerto» di centoventi professori. A proposito di «alcune dame dalla pelle di geco» – il che le faceva «coeve di Gaetano Negri» – Gadda precisa nella nota 39:

Gaetano Negri (Milano, 11 luglio 1838 – Varazze, 31 luglio 1902), grecista, esegeta di momenti e di perplessità religiose, allievo del Renan, storiografo (laico) di Agostino e (laicissimo) di Giuliano Apostata, sindaco emerito del comune di Milano (1884-1889), senatore del Regno il 4 dicembre 1890, ferito e decorato al valore nelle campagne contro il «brigantaggio», colto di geologia e di cose naturali, morì per accidente: sdrucciolando (dial. lomb.: scarligando) a un mal passo, e battendo del capo a un peggio sasso, durante una gitarella sui monti. Animo eminentemente altruistico, non appena percepito il lubrico passo, gridò alla moglie a alla figlia che sopravvenivano: “Atenti” (indeclinabile) “che si scarliga!”. Scarligò lui stesso, defunse. Oggi (1943) ricordato da monumento eneo ai Giardini Pubblici di Milano: ed aere perennibus dalle opere. (GADDA 1988, n. 39 p. 476)

Gadda riceve le informazioni da Contini, che – a sua volta – commenta: «non solo l’aneddoto, ma la gaddizzazione clausulare provenivano dal corrispondente fruiburghese» attribuendosi l’invenzione linguistica nello stile del maestro (CONTINI, GADDA 2009, n. 2 pp. 96-97).

Grazie a Giuseppe Faso che ha richiamato la mia attenzione su questa nota.