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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 18

 aprile 2019

Saggi e rassegne

Luisa Bertolini

Prefazioni di Søren Kierkegaard

 

Un libro fatto di sole prefazioni è certo un’opera paradossale. Era stata un’idea di Jean Paul Richter, sarà un progetto non realizzato di Carlo Dossi, una proposta giocosa di Jorge Luis Borges, ma nessuno si era provato per davvero a renderlo concreto; del resto Kierkegaard ha dimestichezza con il paradosso e il libro lo pubblica veramente. Prefazioni (Forord) esce da Reitzel a Copenhagen il 17 giugno 1844 e ha come sottotitolo Lettura ricreativa per determinati ceti a seconda dell’ora e della circostanza e anche un autore: Nicolaus Notabene. Fa parte della serie di pseudonimi che Kierkegaard usa da Enten-Eller (Aut aut, 1843) a Stadi sul cammino della vita (1845) alla Postilla conclusiva alle “Briciole filosofiche” (1846). La storia del testo è molto complessa e si intreccia con gli altri scritti di Kierkegaard, come spiega Dario Borso nella presentazione dell’edizione italiana, presentazione intitolata, forse anch’essa con gusto ironico, “Prefazione” del curatore. Nella vera Prefazione a Prefazioni l’autore fittizio racconta l’origine del testo: felicemente sposato, Nicolaus vuole dedicarsi al lavoro letterario, ma la moglie è incredibilmente gelosa: fare lo scrittore da sposato – dice – è la peggiore infedeltà. Nulla la convince se non la sola proposta di non scrivere un libro, di scrivere solo prefazioni «nell’idea forse che fosse impossibile scrivere una prefazione senza scrivere un libro» (KIERKEGAARD 1996, p. 62). Prima però di questo racconto Kierkegaard, anzi, Nicolaus Notabene si lascia andare a una bellissima descrizione di che cos’è una prefazione, che è essenzialmente diversa da un libro, che non deve farsi libro, non deve trattare di un argomento, non deve parlare di nulla, o almeno, se lo fa, deve fingere, divagare, deve essere «una parvenza», «un finto movimento».

Con ciò la prefazione è determinata in chiave puramente lirica, e determinata secondo il suo concetto, quando invece nel senso volgare e tradizionale è una cerimonia al passo coi tempi e gli usi. Una prefazione è stato d’animo. Scrivere una prefazione è come affilar la falce, è come accordare la chitarra, come bagolar con un bambino, come sputar giù dalla finestra. In che modo non si sa, ma ti prende la voglia, voglia di provare il brivido dell’avventura letteraria, voglia di scrivere una prefazione, voglia di questi leves sub noctem susurri. Scrivere una prefazione è come suonare alla porta di uno per beffarlo; è passar davanti alla finestra d’una signorinella e fissare il selciato, è menar fendenti al vento col bastone, è far tanto di cappello pur senza salutare nessuno. Scrivere una prefazione è come aver fatto qualcosa che autorizza ad esigere una certa attenzione; è covare uno scrupolo che induce alla confidenza; è invitare al ballo ma non muoversi, è stringere colla gamba sinistra, tirare la briglia a destra, sentir dire al trottatore: prrrf… e farsi un baffo del mondo intero; è stare al gioco senza patirne il minimo inconveniente, è trovarsi sul colle di Valdbly e guardar passare le oche selvatiche. Scrivere una prefazione è come esser giunti con la diligenza alla prima stazione, sostare nell’oscura rimessa col presentimento di ciò che apparirà, veder socchiudersi la porta e con essa il cielo, scorgere davanti a sé la strada maestra che non finisce mai, intravvedere il mistero attraente della foresta, il perdersi ammaliante del sentiero; udire il corno del postiglione e l’invito soave dell’eco, udir lo schiocco secco della frusta e il ripetuto fremere del bosco, e il gaio conversar de’ viaggiatori. Scrivere una prefazione è come esser giunti, stare nella sala accogliente, salutare il sembiante agognato della nostalgia, sedere alla poltrona, caricare la pipa, accenderla – e avere un’infinità di cose da raccontarsi. Scrivere una prefazione è avvertire su se stessi i primi segni dell’innamoramento. L’anima dolcemente inquieta, l’enigma è formulato, ogni accaduto accenna alla sua soluzione. Scrivere una prefazione è come scostare il ramo del gelsomino e scorger quella che sotto il pergolo segretamente sta: l’amor mio. Proprio così, questo è scriver prefazioni! E com’è chi le scrive? Va e viene tra la gente buffone d’estate e burlone d’inverno, è bongiorno e arrivederci in un’unica persona, sempre allegro, senza crucci e cuor contento, veramente un fannullone scriteriato, peggio, un essere immorale, ché lui non va alla borsa per rastrellar denaro, ma solo l’attraversa; non parla alle assemblee generali, perché l’aria sa troppo di chiuso; non propone brindisi in qualche circolo, perché bisogna darne avviso parecchi giorni prima; non fa pubblicità al Sistema; non versa quote per il debito pubblico, e nemmeno si preoccupa; va per la vita come per via un apprendista ciabattino, zufolando, e stesse pur lì il cliente ad aspettare gli stivali, deve portar pazienza sinché rimane l’ultima pista ghiacciata da provare o la minima curiosità da soddisfare. Così, proprio così è chi scrive prefazioni! (KIERKEGAARD 1996, pp. 52-54)

Definizione lirica appunto, ma che già ci dà qualche indicazione. Il passo – scrive Ludovica Koch – è caratteristico sia come figura di pensiero, un pensiero quindi che non procede, non avanza, che vuole appunto fermarsi all’attesa, alla prefazione; non intende affatto costruire un Sistema definitivo; sia come esempio di discorso accumulativo che si perde nell’elenco, «fila, come il ragno, fuori da se stesso, litanie, serie e cataloghi»; sia come modo di invenzione «per situazioni e per concetti» collocati in particolari atmosfere che rendono concretamente l’attesa, la mancanza, la possibilità (KOCH 2001, p. 10). In questo passo predomina però la leggerezza quasi impalpabile di una libertà che sa stare ai confini del mondo, che riesce a non farsi coinvolgere.
Avvertiamo subito però che c’è dell’altro, una sorta di doppia maschera: oltre alla maschera di Kierkegaard che si è nascosto dietro lo pseudonimo latino, anche Nicolaus Notabene ha un obiettivo segreto. Di lui sappiamo assai poco, meno degli altri scrittori che affollano i libri di Kierkegaard. Sappiamo che è un dialettico scaltrito, che vincerebbe anche il diavolo, ma non certo la moglie, che chiama i suoi sofismi semplicemente: puri dispetti. Eppure l’artificio retorico della prefazione senza libro risulta vincente, almeno nel quotidiano; nello stesso tempo il libro di prefazioni è diventato un libro vero e proprio e sarà consegnato all’editore all’insaputa della moglie, e con il timore di una stroncatura che confermerebbe il giudizio di lei.
Siamo però curiosi di leggere il libro: le prefazioni si presentano come una serie di parodie e di satire che prendono come obiettivo polemico il mondo della cultura e dell’editoria danese e, in particolare, l’ambiente filosofico, nel quale spiccano l’hegeliano Johan Ludvig Heiberg e il suo giovane seguace Hans Lassen Martensen.
Nella Prefazione I Notabene è maschera ulteriore: si finge lo scrittore della strenna natalizia in cui promette un sistema di logica, un sistema di estetica, un sistema di etica e di dogmatica e infine il Sistema; non ci sarà più bisogno di scrivere altro, basterà leggerlo. Si tratta della parodia di un volume collettaneo, curato da Heiberg, dal titolo Urania. Annuario per il 1844, pubblicato nel dicembre del 1843 come cofanetto bordato d’oro, contenente un calendario, quindi strenna per l’anno nuovo. Heiberg vi aveva inserito un suo saggio, L’anno astronomico, all’interno del quale discettava sul rapporto tra quantità e qualità in termini hegeliani. A un certo punto aveva introdotto nel testo la critica a uno scritto di Kierkegaard, che era stato pubblicato alcuni mesi prima con lo pseudonimo Constantin Constantius e con il titolo La ripetizione. Il presunto errore di Kierkegaard sarebbe stato la mancata distinzione tra ripetizione in natura e ripetizione nello spirito e di non aver quindi tolto la ripetizione spirituale nel superamento dialettico che ogni generazione attua rispetto alla generazione precedente.
Kierkegaard però non risponde in modo diretto; come scrive Dario Borso, egli sceglie la parodia: la parodia è appunto una forma di ripetizione, Heiberg ripete Hegel, Kierkegaard ripete Heiberg parodiandolo; non solo: i testi preparatori rivelano che Heiberg non fa che ripetere Hegel, incontrato a Berlino, e Constantin Constantius scrive una parodia di questo stesso viaggio: «K non parla mai della ripetizione né delle critiche mosse da Heiberg al concetto, ma fa una parodia, ossia esibisce una ripetizione e quindi, indirettamente, risponde in tema» (in KIERKEGAARD 1996, p. 13). La parodia consiste nell’esaltazione della strenna, del periodo più indicato per la sua pubblicazione, che è appunto il Capodanno, della necessità di una rilegatura di lusso che permetta persino di appendere il libro all’albero di Natale e, per entrare nel merito, della promessa del Sistema definitivo.
Nella Prefazione II Kierkegaard torna sul tema della ripetizione a proposito dei recensori con una satira dei lettori superficiali che si accontentano del sentito dire, che si adatta molto anche ai nostri tempi: all’uscita di un nuovo libro ci si chiede l’un l’altro se lo abbiamo letto, qualcuno dice che ha sentito che non deve essere un gran che, l’altro l’ha sfogliato in libreria, un altro dice che muore dalla voglia di vederlo, che se lo farà prestare, un altro ancora che si aspettava qualcosa di più e il recensore corre a casa a scrivere:

Ecco come stanno qui le cose. Quell’amico di campagna non ha letto il libro, ma ricevuto una missiva da uno della capitale, il quale nemmeno ha letto il libro, ma la recensione, scritta a sua volta da uno che non aveva letto il libro, ma udito il commento di quell’uomo degno che l’aveva sfogliato un po’ da Reitzel. (KIERKEGAARD 1996, pp. 71-72)

Ma ancor più: Prefazioni vuol essere anche la parodia del cominciamento hegeliano della Logica: essere, nulla e divenire. In Prefazione VII Nicolaus, dopo aver criticato l’abitudine moderna di scrivere un undicesimo libro che altro non fa che riassumere i dieci precedenti e averne indicato la superficialità con una bella serie di metafore che culmina nell’immagine di un aquilone senza filo, afferma di aver paura della mediazione, che gli fa l’effetto di una sega che si affila, del brontolio di Santippe, del rumore di puleggia; al solo nominar la parola, si sente soffocare e abbattere: com’è possibile ricavare il Divenire dalla mediazione dell’Essere e del Nulla, dalla somma delle loro mancanze? (cfr. KIERKEGAARD 1996, p. 114). La prefazione si conclude con una citazione da Hamann che prevede il rovesciamento: lo scrittore non vuole soldi e preferisce pagare i suoi lettori.
L’altro polo dell’ironia, l’abbassamento socratico, è visibile già nello pseudonimo Nicolaus Notabene che diventa N. N.: basta esporre la targhetta N. N. medico curante, per esser tale, ma anche nb: nota bene, che è solo una sigla. La Prefazione VIII è tutta giocata sull’idiozia del suo autore che propone una rivista filosofica danese dal titolo “Meditazioni filosofiche”, una rivista che gli spieghi finalmente cos’è la filosofia, visto che era fallito il tentativo di Heiberg di avviare una rivista filosofica in Danimarca, una rivista a cui, tra l’altro, lo stesso giovane Kierkegaard aveva mandato un articolo per la pubblicazione. Nicolaus è preoccupato: il clima – dice – è migliorato, grazie proprio a Heiberg, l’interesse filosofico si è esteso, ma lui sa di non essere Heiberg, è semplicemente N. N.
Il programma però è articolato: parte dal dubbio, non certo quello vertiginoso di Cartesio, ma da uno più modesto: che tutti i filosofi capiscano quello che dicono e che quindi glielo spieghino. Costruisce così un programma di coinvolgimento di sottoscrittori e collaboratori, la cui adesione si basa proprio sull’idiozia e l’ostinazione dello scrittore. La filosofia più importante e più diffusa dell’epoca è quella hegeliana, ma il povero Nicolaus non la capisce: non nega che tale filosofia abbia spiegato tutto, sa però di non averla capita lui. Prova con coloro che sono andati oltre Hegel: «appena costoro spiegheranno con un piccolo telegramma dove sono arrivati» ne sarà convinto, ma poi li legge e trova che tutte le frasi sono di Hegel: ma non avevano oltrepassato Hegel? Hegel non aveva concluso la filosofia?
L’esercizio retorico che segue gioca con la dialettica triadica: io sono tanto idiota – afferma Nicolaus – da non capire la filosofia, la filosofia è tanto intelligente da non afferrare la mia idiozia; i contrari si mediano nella superiore unità, la comune idiozia.
Il libro è quindi all’insegna dell’ironia, di quell’ironia cui aveva dedicato un’articolata analisi nella tesi di dottorato, Sul concetto di ironia in riferimento costante a Socrate, pubblicata presso Philipsen Forlag il 16 settembre del 1841. Ma l’ironia di Kierkegaard non è quella di Socrate, è piuttosto l’«ironia contemplativa o teoretica», «l’occhio sicuro che sa cogliere lo storto, l’assurdo, il vano dell’esistenza» e che si identifica con il dileggio, con la satira e la presa in giro (KIERKEGAARD 1989, p. 199). Affidarsi all’ironia può essere solo un primo passo, un inizio della ricerca che dal concreto sale all’astratto, un momento subordinato: l’ironia si ferma alla porta, si colloca appunto nella prefazione, non può avanzare la sua osservazione, deve limitarsi al momento del negativo.
Il passo successivo dell’ironista conduce verso quella che Kierkegaard chiama, con linguaggio ancora hegeliano, negatività infinita e assoluta, un interrogare vano, perfettamente interpretato dall’invocazione alle Nuvole di Aristofane, esseri femminili che possono assumere tutte le forme, ma che non hanno contenuto. «Si può interrogare con l’intenzione di ottenere una risposta – scrive – implicante la pienezza desiderata […], oppure si può interrogare non per interesse alla risposta, ma per risucchiare con la domanda il contenuto apparente e lasciare allora un vuoto. Il primo metodo presuppone ovviamente un pieno, il secondo un vuoto; il primo è il metodo speculativo, il secondo l’ironico» (KIERKEGAARD 1989, 42).
La descrizione del Socrate ironista diventa particolarmente impietosa nell’analisi del Simposio, dove il tema dell’amore diventa appunto amore per quello che non si ha, desiderio, nostalgia, in un percorso che porta verso un’astrazione sempre più alta, in un crescendo che Socrate gestisce senza mai smascherarsi, puntando sulla seduzione e sull’incantamento, vampiro che ha succhiato il sangue dell’amante tormentandolo e rendendolo dipendente, e che alla fine rimane solo, in mezzo ai convitati ubriachi, con gli occhi fissi su se stesso, sintesi astratta di comico e tragico, «sintesi negativa nel nulla» (KIERKEGAARD 1989, p. 54). Il passaggio successivo, sappiamo, non sarà la sintesi, ma il salto.

Per il momento, nel concludere il libro di prefazioni, Kierkegaard rimane nascosto, mascherato dallo pseudonimo; la parodia e l’invettiva lo mantengono nella distanza dell’ironia, «buffone d’estate e burlone d’inverno», ci lascia sulla soglia con questo libriccino delizioso. Del resto forse un libro fatto solo di prefazioni poteva scriverlo solo lui.

 

BIBLIOGRAFIA

KIERKEGAARD (1989), Sul concetto di ironia in riferimento costante a Socrate, trad. it. a cura di Dario Borso, Guerini e Associati, Milano
KIERKEGAARD (1996), Prefazioni, trad. it. a cura di Dario Borso, Rizzoli, Milano
KOCH Ludovica (2001), Introduzione a Søren Kierkegaard, Stadi sul cammino della vita, trad. it. di Anna Maria Segala e Anna Grazia Calabrese, Rizzoli, Milano