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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 14

 aprile 2017

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Luisa Bertolini

Statue colorate e greci daltonici

i colori del bianco

Nel catalogo di una mostra che si è tenuta tra il novembre 2004 e il gennaio 2005 ai Musei Vaticani dal titolo I colori del bianco abbiamo trovato questa bellissima immagine di Paride in completo Missoni. Si tratta della ricostruzione ipotetica della colorazione originaria della statua che si colloca sulla sinistra del frontone occidentale del Tempio di Aphaia di Egina, ora conservato nella Glypothek di Monaco di Baviera. I pantaloni attillati, la giacca forse di pelle, le paragnatidi sollevate, la maglia aderente hanno colori smaglianti; arco, frecce e faretra, riccioli e ornamenti erano fusi in piombo. I curatori della mostra – diretti dall’archeologo tedesco Vinzenz Brinkmann – documentano l’esistenza di resti di cinabro, malachite, azzurrite, ocra ed ematite (LIVERANI 2004).

Certo la ricostruzione del colore sulla base in gesso può dare un effetto di maggiore vivacità e contrasto rispetto a un pigmento steso sul marmo, ma è altrettanto certo che noi continuiamo a stupirci del fatto che le statue antiche fossero colorate: decisamente le preferiremmo bianche. Eppure, che gli scultori e gli architetti greci e romani facessero un ampio uso del colore lo hanno dimostrato studi archeologici risalenti addirittura all’inizio dell’Ottocento. Nel 1814 Quatremère De Quincy aveva fornito una descrizione analitica del Giove di Olimpia, l’enorme statua crisoelefantina seduta su un trono policromo (QUATREMÈRE De Quincy 1814); nel 1830 l’architetto Jakob Hittorff aveva pubblicato un testo sull’architettura policroma dei greci e messo in mostra al Salon di Parigi una serie di acquerelli che rappresentavano la ricostruzione ipotetica di monumenti greci in Sicilia (HITTORFF 1830); nella seconda metà dell’Ottocento poi, anche l’arte cominciava a dialogare con i colori dell’antico: Alma Tadema dipinse alcuni quadri che raffigurano scene del mondo greco in quadri colorati.

Questi studi suscitarono comunque un certo scalpore: l’idea della statuaria bianca aveva il suo fondamento nell’estetica neoclassica di Winckelmann che ammirava con nostalgia le bianche divinità apollinee trasportate o riprodotte nelle corti dell’Europa settecentesca:

Il colore – scriveva – contribuisce alla bellezza, ma non è la bellezza. […] Ma poiché il colore bianco è quello che respinge la maggior parte dei raggi luminosi e che quindi si rende più percepibile, un bel corpo sarà allora tanto più bello quanto più è bianco, e quando è nudo sembrerà più grande di quello che è effettivamente. (WINCKELMANN 2007, p. 116)

Strano però che la stessa opinione fosse condivisa, in pieno Romanticismo, da Hegel, che pur conosceva i nuovi studi archeologici: l’idea a priori del mondo antico, del momento dell’equilibrio tra senso e ragione, individuo e universale, cittadino e Stato, richiedeva l’astrazione del bianco:

L’individualità […] come oggetto della scultura non ha ancora bisogno per il suo modo di apparire della magia dei colori. […] La scultura […] si serve solo delle forme spaziali della figura umana e non del colore della pittura. L’immagine scultorea è nell’insieme monocroma, è fatta di marmo bianco e non di materiale policromo (HEGEL 1976, p. 791).

Anche se vi furono statue dipinte, il filosofo le ritiene inadatte a esprimere la classicità:

Perciò qui in nessun modo è da negare che si incontrano molti esempi di statue dipinte; ma quanto più il gusto si raffinò, tanto più “la scultura si liberò dallo sfoggio di colori a lei non adatto, servendosi invece, con saggia avvedutezza, di luce e ombra, per ottenere maggiore dolcezza, quiete, chiarezza e piacevolezza per l’occhio dello spettatore” (Meyer). (HEGEL 1976, p. 792)

I greci erano daltonici?

D’altra parte, in altro ambito, sempre nell’Ottocento, troviamo un’altra strana teoria: alcuni autori

hanno affermato che i greci non vedevano il blu, rilevando la mancanza nelle lingue classiche di un termine per indicare questo colore. Per primo il ministro inglese William Ewart Gladstone – diventato famoso non solo per la sua politica liberale, ma anche per la borsa che porta il suo nome, che peraltro è anche il nome del cane di Sherlock Holmes – sostenne in uno studio sull’età omerica, pubblicato nel 1858, che gli arditi accostamenti cromatici di Omero forse gli ridiedero la vista, ma al prezzo di una rinuncia a una normale percezione cromatica. Gli esempi erano quelli classici del mare colore del vino, dei capelli di Ulisse che rammentano il giacinto, del sangue nero.

Moritz Geiger aggiunse: non solo Omero, ma tutti gli antichi avevano una diversa sensibilità ai colori, analizzabile alla luce dell’evoluzione darwiniana: la percezione dei colori si sarebbe perfezionata nel tempo e avrebbe permesso di cogliere frequenze d’onda sempre più alte (cfr. GEIGER 1867). Hugo Magnus, un famoso oftalmologo del tempo, si mostrò pronto a fornire a queste teorie la base scientifica: una parte del nostro occhio, nelle aree periferiche della retina, non è sensibile ai colori, segno di un’evoluzione non ancora conclusa, indizio che ci permetterebbe di dire che ciò che oggi è vero per una parte dell’occhio, un tempo ne era la norma.

Già nell’Ottocento però il filosofo Anton Marty pose delle obiezioni articolate e decisive a questa bizzarra teoria: uno dei suoi principali argomenti riguarda la confutazione della tesi del perfetto parallelismo tra esperienza e linguaggio, contestata peraltro dal fatto che i greci usavano pigmenti blu (cfr. SPINICCI 1991, pp. 79ss.). A questo si aggiungono gli studi filologici dei testi antichi sul tema del colore che hanno rilevato la maggiore sensibilità dei greci e dei latini alla luminosità, piuttosto che alla tinta, ossia alla tavolozza che noi diamo per scontata per averla trovata fin dalla nostra infanzia nelle scatole dei colori.

BIBLIOGRAFIA

HGEL Georg Wilhelm Friedrich (1967), Estetica, trad. it. a cura di Nicolao Merker, vol.II

HITTORFF Jakob Ignaz (1830), De l’architecture polychrôme chez les Grecs, ou restitution complète du temple d’Empedocle dans l’Acropolis de Sélinunte

IANNELLI Francesca (2015), Policromia e soggettività nella filosofia di Hegel: i colori della storia e lo sviluppo dello spirito, “Revista Eletrônica Estudos Hegelianos” 12, 20 (in rete)

LIVERANI Paolo (a cura di) (2004), I colori del bianco. Mille anni di colore nella scultura antica, De Luca Editori d’Arte, Città del Vaticano – Roma

LIVERANI Paolo, SANTAMARIA Ulderico (a cura di) (2014), Diversamente bianco – la policromia della scultura romana, Edizioni Quasar

MARTY Anton (1879), Die Frage nach der geschichtlichen Entwicklung des Farbensinnes, Gerold, Wien

QUATREMÈRE DE QUINCY Antoine Chrysostome (1814), Le Jupiter olympien, ou l’Art de la sculpture antique, Paris

SPINICCI Paolo (1991), Il significato e la forma linguistica. Pensiero, esperienza e linguaggio nella filosofia di Anton Marty , Franco Angeli, Milano

WINCKELMANN Johann J. (2007), Storia dell’arte nell’antichità (1764), trad. it. di M. L. Pampaloni. Abscondita, Milano