Certamente il tema del comico e dell’umorismo – come abbiamo dovuto constatare più volte in questa rivista – resiste alle definizioni e alla sistemazioni teoriche moltiplicando le categorie necessarie e le figure da analizzare, ma in Homo ridens di Peter L. Berger la fragilità dell’esperienza del comico – materia che dilegua appena la si cerca di afferrare, come nella bella immagine che egli cita da Bergson, della schiuma del mare che si dissolve tra le dita del bambino che cerca di raccoglierla – diventa pretesto per una collocazione eccentrica di questa tematica rispetto all’intero sapere. L’autore è consapevole, come dichiara nell’introduzione, che questa scelta potrà essere oggetto di critica, non solo per questo, ma anche perché la disamina delle teorie che prende in considerazione appartiene spesso a campi che esulano dalla sua specifica competenza di sociologo.
Partiamo proprio da qui, dalla questione della collocazione disciplinare del tema del comico: si direbbe – afferma l’autore – questione filosofica, ma si affretta subito ad aggiungere che i filosofi hanno dato un contributo assai modesto all’indagine del fenomeno. Non si tratta solo di questo, pur discutibile, punto di vista: Berger prosegue distinguendo anche teoricamente l’ambito del comico dai giudizi sulla verità, sul bene e sul bello. L’umorismo, scrive, può essere usato per finalità buone o malvagie, ma la comicità si colloca al di là del bene e del male e la sua indagine non fa parte né della gnoseologia, né dell’etica e nemmeno dell’estetica.
Invero i filosofi – a cui l’autore dedica un capitolo specifico – hanno sempre collocato la trattazione del comico nell’ambito della poetica e, quindi, dell’estetica. Questa classificazione però è importante; non risolve certo i numerosi problemi teorici che Kant riassume della sua terza Critica ma, se non altro, definisce il piano di un’analisi che risale al brutto senza sofferenza della maschera comica nella definizione della commedia data da Aristotele. Essa, a sua volta, non può svolgersi sul piano astratto della teoria, ma deve di continuo confrontarsi con l’indagine sul linguaggio della letteratura e delle arti e sul linguaggio in generale. Nemmeno appare chiara in Berger la distinzione tra comico e humor – nella traduzione italiana tra comico e umorismo, il che implicherebbe una qualche precisazione terminologica – che assegna l’umorismo al soggetto e il comico all’oggetto.
Questa collocazione dalla parte dell’oggetto permette all’autore di rilevare la presenza del comico, anzi: la sua invadenza, in tutte le culture, la sua universalità al di là della relatività di ciò che fa ridere. L’indagine procede con l’utilizzo di una categoria della sociologia di Alfred Schütz: il comico viene descritto come una «sfera limitata di significato» che compare all’interno della realtà dominante, un ambito circoscritto nello spazio e nel tempo, nel quale la logica è sospesa, in analogia con il sogno, con la sessualità, con il gioco e con la percezione estetica. Naturalmente l’analogia non esclude le differenze, ma ciò che interessa all’autore è stabilire questa alterità del comico rispetto alla vita ordinaria, la sua disposizione in un altrove.
La storia della filosofia occidentale che si apre – come è noto – con l’aneddoto della servetta che ride di Talete il quale, immerso nelle cose celesti, cade nel pozzo. L’origine della donna in Tracia serve però a Berger per un’ulteriore analogia: «si dà il caso – scrive Berger – che la Tracia sia la regione dove si suppone sia nato il culto di Dioniso» (p. 43). La conclusione, decisamente affrettata: i riti dionisiaci sarebbero quindi all’origine della dimensione comica dell’esperienza umana.
La filosofia – sostiene l’autore – non ha dedicato grandissima attenzione al comico; del resto nemmeno Berger dedica grande attenzione alla filosofia. Il discorso prende avvio con l’analisi del passo del Filebo (50a) nel quale Platone afferma che nel nostro ridere mescoliamo piacere e dolore. Ridiamo di chi crede di essere più ricco, più forte e di maggior valore di quello che è, ma questa ignoranza di sé, terribile negli uomini forti e di potere, diventa nei deboli fonte del ridicolo. Noi proviamo allora nei confronti dell’amico che si rivela nella sua debolezza la voglia di ridere del suo male che è nel contempo un dolore dell’anima. Berger riduce questa interessante osservazione al tema del ridimensionamento, dell’abbassamento, che è certo elemento fondamentale del comico, ma sorvola sulla riflessione centrale che coglie nel riso il lato amaro, che è forse all’origine della riflessione moderna sull’umorismo.
Nemmeno Aristotele ha sorte migliore: egli affermerebbe che l’esperienza comica è indolore, se la si paragona alla tragedia, «perché garantisce una maggiore astrazione dalla realtà empirica dell’esistenza umana» (p. 46), tesi che l’autore prima definisce corretta e, dopo due righe, sbagliata (traduzione?). In ogni caso risulta difficile leggere nel testo della Poetica (V, 1449a) la “maggiore astrazione”.
Il passo, nella traduzione di Manara Valgimigli (ma potete consultare anche la traduzione di Donini), è il seguente:
«La commedia è, come dissi, imitazione di persone più volgari dell’ordinario; non però volgari di qualsivoglia specie di bruttezza [o fisica o morale], bensì [di quella sola specie che è il ridicolo: perché] il ridicolo è una partizione speciale del brutto. Il ridicolo è qualche cosa come di sbagliato e di deforme, senza essere però cagione di dolore e di danno. Così, per esempio, tanto per non uscire dall’argomento che trattiamo, la maschera comica: la quale è qualche cosa di brutto e come di stravolto, ma senza dolore».
Questa volta è esclusa qualsiasi commistione o mescolanza con il dolore, perché l’attenzione di Aristotele è rivolta alla commedia, al comico puro, e la definizione del comico come parte del brutto ci permette di inserire il discorso nell’ambito dell’estetica e di avviarne il confronto con il bello e il sublime. Ma in Aristotele possiamo trovare altri spunti di riflessione sul nostro tema e in particolare sul motto di spirito, come ci spiega Guido Morpurgo-Tagliabue nel libro Linguistica e stilistica in Aristotele a proposito delle metafore verbali, definite come «un mero scambio di termini, un gioco di parole, che crea sensi e non sensi e provoca sorpresa». Questo gioco del linguaggio con sé stesso è, secondo Morpurgo-Tagliabue, all’origine di una complessa tradizione estetica che, facendo leva sul tema dell’ambiguità verbale, dell’arguzia e del wit, costituisce una corrente importante nelle poetiche della modernità.
La filosofia medievale viene liquidata da Berger con l’affermazione che l’approccio del mondo classico al comico, «sostanzialmente infastidito e turbato da scrupoli morali» (p. 47) continua col primo cristianesimo e con il pensiero della scolastica. In nota però lo stesso Berger si vendica in anticipo delle possibili critiche riportando una stroncatura del suo libro da parte di una fantomatica studiosa, di nome Dorothy Hartmund, che gli rimprovera di non aver mai sentito parlare di De ridenda gentium di Duns Scoto, di un elegante saggetto Sic e fortasse di Abelardo e dei Risibilia di Tommaso. A proposito di quest’ultimo cita anche un ipotetico saggio di tale Edith O’Malley, The Women Behind Thomas del 1990 (“Journal of Feminist History”, 3) che cerca di dimostrare che i Risibilia e altre opere di Tommaso sono un plagio degli scritti della badessa Placida di Rimini. Si tratta invero di una burla: una presa in giro degli studiosi accademici della filosofia medievale e, insieme, delle studiose femministe della storia della filosofia: tutti i titoli sono inventati, come i nomi degli storici. Peccato! la badessa da Rimini ci aveva, sul momento, certo incuriosito.
Anche Berger riconosce la presenza del comico nel Medioevo, ma l’assegna esclusivamente al carnevale «una festa che è filiazione diretta dell’orgia dionisiaca» (p. 47). Ma avrei un’obiezione anche su questo: Giovanni Kezich, nel suo recente studio sul carnevale (Carnevale re d’Europa, cfr. la recensione nel n. 10 di questa rivista) risale alle origini antiche e pagane delle mascherate d’inverno, ma con più cautela ne indaga le affinità con i riti propiziatori del raccolto (Carmina Arvalia).
Ecco invece, agli albori dell’età moderna, il «capolavoro di umorismo» (p. 48): l’Elogio della follia di Erasmo. Certamente un capolavoro e certo la satira che la Follia personificata rivolge contro gli intellettuali, i filosofi e – aggiungerei – gli stessi esponenti del clero, è pungente e riuscita e rivela, nell’ottica del rovesciamento, un punto di vista profondo sulla natura delle cose. Anche la conclusione del libro sulla follia della croce, che stranamente Berger non cita in questo contesto nella prospettiva della sua teologia del comico, risulta centrale nel pensiero moderno all’epoca della riforma.
Il pensiero moderno ha dedicato al comico e all’umorismo molta attenzione. Descartes fornisce un’attenta analisi fisiologica del riso e si sofferma sul carattere improvviso della scoperta e della meraviglia che innesca l’accelerazione del flusso sanguigno, tesi che verrà ripresa e approfondita da Kant. L’indicazione del rapporto tra mente corpo e l’individuazione della sorpresa sono valutati positivamente dal nostro autore, ma il piano dell’analisi fisiologica non gli interessa. In poche pagine gli cerca di riassumere in breve l’ampia letteratura sul tema del comico e dell’umorismo che, a partire da Hobbes e poi ancora per tutto il Settecento, dà ampi contributi alla teoria. In questa serie di studi, a partire da Hutcheson, compare la tesi del comico come risposta alla percezione di qualcosa di incongruo.
Questa ipotesi diventa il punto centrale della teoria di Berger che la ritrova in Kant, Jean Paul Richter e Hegel. L’analisi del pensiero di questi autori si esaurisce però nel riportare la citazione della frase kantiana sull’aspettativa tesa che d’un tratto si risolve nel nulla, di alcune barzellette raccontate nella Critica della facoltà di giudizio, dell’obiezione di Jean Paul alla tesi kantiana secondo cui anche qualcosa che sorge dal nulla può sortire un effetto comico e della definizione hegeliana della contraddizione tra la gravità del mondo reale e la levità del mondo parallelo creato dalla comicità. Nessuna parola spende l’autore sui temi centrali della riflessione sul comico, sull’umorismo e sul Witz che ha inizio con gli scrittori inglesi del Settecento e con Jean Paul: sul linguaggio del comico e la destrutturazione del racconto, sulla duplicazione e frantumazione dell’Io, sulla finitezza, sul sublime rovesciato, sulla presenza del corpo, corrispondente alla categoria del “basso”, del Bathous (l’opposto di Hypsos, del gruppo degli Scriblerus inglesi), sul prestito del punto di vista. Ma rimaniamo all’incongruo e a un’osservazione di Jean Paul: l’incongruo non può risultare da un semplice accostamento di cose lontane: non finiremo mai di ridere con tutti gli strani accostamenti che vi sono sotto il cielo.
La “scuola dell’incongruo”, come la definisce Berger, prosegue con Kierkegaard e Bergson, secondo il quale l’incongruo che suscita il riso è quello tra organismo vivente e meccanismo della vita materiale (tesi che però l’autore ritiene eccessivamente schematica). L’analisi della filosofia si conclude sbrigativamente con l’affermazione del suo sostanziale fallimento nell’affrontare il tema del comico:
La filosofia, dopo tutto, è il tentativo colossale di abbracciare tutto il reale in un ordine razionale. Il comico, per sua natura, si sottrae a quest’abbraccio. Se esiste una maniera di afferrarlo per via razionale, deve trattarsi con ogni probabilità di qualche variante di quella ragione del cuore di pascaliana memoria. Ecco perché un buon numero di filosofi moderni hanno collocato il fenomeno sotto la rubrica dell’estetica, sebbene l’esperienza estetica risulti considerevolmente diversa. Non appena il filosofo cerca di afferrare il comico con le mani questo si muta in schiuma, come nella parabola bergsoniana del bambino che gioca sulla spiaggia.
Con questa citazione si chiarisce il motivo per cui Berger non vuole inserire l’analisi del comico nell’estetica: per lasciare aperta una collocazione del tutto diversa che dovrebbe aprire ad un altro ordine di realtà che per il momento non viene definito, ma solo alluso e accennato. La componente cognitiva del comico, che Berger ribadisce a conclusione della sua disamina della storia della filosofia – ma in maniera non troppo coerente con le affermazioni citate sopra -, rinvia a un suo supposto carattere oggettivo, esterno, che caratterizzerebbe la condizione umana in rapporto all’ordine dell’universo. La citazione di Baudelaire, un poeta e non un filosofo – sottolinea l’autore – conclude la rassegna: il riso è essenzialmente umano, segno di grandezza infinita rispetto agli animali e di miseria infinita rispetto all’Essere assoluto. Ma il saggio sull’essenza del riso e sulla caricatura del poeta francese richiederebbe un approccio più analitico: nella distinzione tra “comico significativo” e “comico assoluto” Baudelaire introduce molti spunti di riflessione sulle diverse determinazioni del comico, sul riso infantile, sul grottesco, sulla mescolanza nell’umorismo tra la burla e la buffoneria meridionale e la capacità nordica di percepire nello sdoppiamento, nell’ignoranza di sé un rapporto con l’assoluto che sa ridere dell’umanità intera (per un’analisi della concezione di Baudelaire, cfr. anche CIVITA 1984, pp. 103ss.).
L’universalità del comico viene qui considerata soltanto in relazione a un assoluto trascendente in senso religioso e confermata da un breve excursus sulle religioni orientali. Più interessante appare il riferimento all’approccio psicologico e antropologico di Helmuth Plessner che, sulla scorta di alcune riflessioni fenomenologiche di Max Scheler, ha individuato nel riso e nel pianto uno scarto nell’equilibrio tra mente e corpo, l’irrompere della fisicità e, nello stesso tempo, il permanere dell’intenzionalità: l’uomo, a differenza dell’animale, si abbandona al riso e al pianto, mantenendo la coscienza di quello che sta facendo. La “risata umoristica” – secondo la definizione di Marie Collins Swabey che delimitava così l’ambito della sua ricerca all’elemento cognitivo della comicità – riceve in questo modo una fondazione antropologica (non semplicemente psicologica, ma nemmeno estetica) e il discorso può così proseguire nella disamina degli usi del comico, declinati nella funzione aggressiva e di sublimazione del desiderio in senso freudiano.
L’analisi delle elaborazioni sociali del comico segna il passaggio dall’ homo ridens all’ homo ridiculus, e si avvale, tra l’altro, delle ricerche storico-antropologiche dello studioso olandese Zijderveld, suo ex allievo, sulla storia della follia. Berger riferisce dei folli vaganti – anche questi eredi a suo dire di Dioniso – che percorrevano nel Medioevo le strade dell’Europa mettendo alla berlina, nei loro riti rovesciati, i ruoli sociali, il potere religioso e quello laico. Un contesto che comprende il carnevale, il risus paschalis, le danze macabre, i buffoni di corte e che si prolunga, secondo Berger, nella figura del clown del moderno circo. Ma non si tratta, a parere dell’autore, di una semplice valvola di sicurezza posta in atto o tollerata dalla società: il comico allude qui ad un mondo altro, che mette a rischio la vita ordinaria e rivela la vicinanza con il magico, il religioso e il sacro.
L’interludio sull’umorismo ebraico sarebbe un’ulteriore conferma di questa vicinanza del comico al religioso. Lo confermerebbero le sue origini, che risalgono alla propensione dei rabbini a fornire spiegazioni nella forma di concise parabole, e il suo sviluppo, senz’altro favorito dalla posizione eccentrica e marginale degli ebrei nella storia della civiltà occidentale che diede a queste comunità un punto di vista contemporaneamente esterno e interno alle società europee e, successivamente, alla società americana, favorendo il disincanto e lo scetticismo. Resta però da dimostrare la connessione tra atteggiamento scettico, disposizione al comico, capacità di raccontare barzellette su cibo famiglia affari antisemitismo e Dio stesso, elaborazione di una satira raffinata e distruttiva, critica del linguaggio e, appunto, vicinanza al sacro. Non che questa connessione non sia in linea di principio possibile, ma l’intento di Berger sembra avanzare l’istanza di una vera e propria fondazione o, per lo meno, ne afferma la fecondità teorica capace di uno sguardo nuovo sulla materia trattata.
La seconda parte del libro di Berger si articola nella disamina delle varie manifestazioni del comico offrendo indicazioni bibliografiche e nuovi spunti di riflessione che richiedono un’analisi critica. I capitoli sul «comico come svago», cioè sull’umorismo bonario di cui Wodehouse è il massimo rappresentante, sul «comico come consolazione» della “tragicommedia” di Charlie Chaplin, di Don Chisciotte e della letteratura yiddish, sul «comico come gioco intellettuale», caratteristico del Witz, si presentano come una descrizione articolata della letteratura comica e umoristica, della quale vengono riportati passi molto divertenti. Vorrei soffermarmi invece sul capitolo che prende in considerazione la satira e, in particolare, la satira di Karl Kraus.
Berger dedica particolare attenzione al testo pacifista Gli ultimi giorni dell’umanità, di cui alcune parti erano state rappresentate già durante la prima guerra mondiale, ma che venne pubblicata definitivamente nel 1922 con la riproduzione sul frontespizio della famosa cartolina che raffigurava Cesare Battisti sul patibolo e il boia sorridente con la didascalia: Il volto dell’Austria. L’opera teatrale, scrive Berger, non è mai stata messa in scena nella sua interezza, osservazione corretta, ma val la pena di citare la riduzione teatrale di Luca Ronconi all’hangar del Lingotto di Torino nel dicembre del 1990: nonostante la riduzione a un terzo, lo spettacolo, suddiviso in scene rappresentate contemporaneamente, offre 18 ore di recitazione. Il testo è un insieme di citazioni parodiche di discorsi reali, di opinioni espresse da militari e personaggi famosi, di articoli di giornale, di resoconti di guerra (in particolare della giornalista Alice Schalek, entusiasta del clima della prima linea), di chiacchiere al caffè e in strada, che trasportati sulla scena rivelano la futilità del linguaggio del pettegolezzo in un paese che sta precipitando verso la catastrofe. Nelle ultime pagine del libro il mondo finisce in un boato cosmico e nel silenzio si ode la voce di Dio: “io non l’ho voluto”, le stesse parole che pare avesse pronunciato Francesco Giuseppe allo scoppio della guerra. Berger si affretta a concludere che per un verso Kraus esagerava, che il regime austroungarico non era poi così male, che ogni società ha la sua dose di orrori, che «la satira dal punto di vista epistemologico è, per così dire, neutrale» (p. 252), che la sua forza retorica non implica la sua giustezza. Sì, certo, non vogliamo accusare La modesta proposta di Swift di immoralità, ma possiamo ben accettare la stretta connessione di satira e moralità nel caso dell’impegno civile politico e morale di Kraus.
Altro tema interessante per un’indagine sul comico è il rapporto che esso intrattiene con l’assurdo e il non-sense. Berger gli dedica un intero capitolo dal titolo L’eterno ritorno della Follia. Il tentativo di collegare assurdo e follia mescola argomenti molto differenti: prende le mosse dal teatro dell’assurdo per approdare al “credo quia absurdum” di Tertulliano con un accostamento e rovesciamento dialettico che permette a Berger di dedurre dall’assurdità del mondo la possibilità della fede. Questo è il tema centrale della terza e ultima parte del libro che si addentra nella teologia del comico. Berger sostiene qui la tesi che il comico è un indizio della trascendenza. La dimostrazione si avvale di citazioni bibliche ed evangeliche, tra le quali ha particolare rilievo l’entrata di Gesù a Gerusalemme in groppa a un’asina e la sua incoronazione per burla da parte dei soldati romani come re dei giudei:
In questa scena la beffa consiste nel trattare Gesù come un finto re dei baccanali, l’immediato precedente della Festa dei folli medievale: come dire che Gesù, immediatamente prima della sua crocefissione, è stato incoronato re dei folli. (p. 271)
L’argomentazione, con l’aggiunta di un’associazione dell’asino con la follia, produce uno slittamento plurimo di significati: dalla burla al baccanale, al Medioevo, alla follia. Questo stile argomentativo mi pare riproposto anche nell’utilizzo di una citazione da Umorismo e fede di Reinhold Niebuhr, nella quale il teologo afferma che umorismo e fede hanno entrambi a che fare con l’incongruo presente nelle nostre esistenze: l’umorismo riguarda le incongruità immediate, la fede quelle essenziali e sono quindi espressioni della libertà dello spirito, della sua capacità di guardare all’incongruo della vita con uno sguardo distaccato. Berger non commenta, come fa spesso, la citazione, che pur tiene ben distinti i due campi dell’umorismo (e non semplicemente del comico) e della fede e corre avanti. Gli ultimi capitoli del libro sono incentrati sulle analogie tra il comico e il religioso: si tratta di sfere limitate di significato, di assetti reali distinti, costituiti in spazi e tempi diversi dalla realtà quotidiana. L’autore si rende conto che queste analogie non possono determinare un passaggio necessario e si limita a indicarne la possibilità, ma conclude che il comico, illuminato e recepito nella fede assume un significato escatologico, diventa testimone di una redenzione a venire, rivelando le incongruenze della ragione.
Questo punto di arrivo chiarisce il motivo per cui Berger cerca di tenere insieme le ragioni del cuore e il carattere cognitivo del comico: tutto il percorso è volto a definire i limiti della ragione, una ragione definita in generale come il soggetto prepotente della filosofia, una ragione astratta che si incarna indifferentemente in tutti i filosofi della storia, a partire da Talete, incapace di vedere quello che gli sta tra i piedi, fino ai filosofi che, dal Settecento a oggi, hanno elaborato articolate teorie del comico, dell’umorismo e del wit. Berger sembra interessato soltanto agli aspetti che di queste teorie mettono in luce la difficoltà di una visione unitaria del fenomeno. Anche la dimensione del comico come percezione dell’incongruo – che ne certo è un aspetto essenziale, ma non unico (si pensi, ad esempio, all’eteroclito nelle osservazioni di Foucault sulla classificazione degli animali dell’enciclopedia cinese di Borges, FOUCAULT 1998, pp. 6ss.; cfr. anche ALMANSI 1986, pp. 35-36) – viene sottolineata solo alla luce della conclusione teologica; così anche il suo presunto carattere oggettivo sembra servire soltanto a dedurne l’indizio della trascendenza.
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