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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 19

 ottobre 2019

Interviste

Stefano Bartezzaghi

«L’umorismo buono si annida dentro sé stesso»

Intervista di Maddalena Fingerle

«A che cosa stai pensando?» così inizia un capitolo di Sedia a sdraio. A che cosa stai pensando?

Penso al fatto che si tratta di una domanda temibilissima, perché un conto è pensare e un conto è pensare di pensare. Non sempre si sa a cosa si sta pensando, non sempre si è in grado di renderne conto, non sempre i rapporti di coppia escono indenni dalla formulazione della domanda. Ma nel mio ultimo libro ne parlo perché era obbligatorio farlo: è un libro (anche) sui social network e ogni volta che entro in Facebook il sistema mi chiede, molesto: «a cosa stai pensando?».

In Banalità citi la lettera di Marino a Girolamo Preti del 1624, in cui afferma che la vera regola è «saper rompere le regole a tempo e luogo, accomodandosi al costume ed al gusto del secolo». La critica del Marino è contro i “pedanti” e i “pedantuzzi”, danno fastidio anche a te?

Non lo so, pedanti e pedantuzzi a seconda dei momenti sono insopportabili o benedetti. Quante cose non sapremmo se non ci fosse stato un pedantuzzo a registrarle! Il fatto è che non so quale musa mi spinse a segnarmi quella citazione – davvero tanto tempo fa –: né so cosa mi abbia allora fatto intuire che avrei continuato a ritenerla tanto esplicativa, e importante. La ritengo un annuncio precoce dei parametri fondamentali (e fondamentalmente paradossali) che governano ancora oggi la cultura di massa.

Hai mai scritto qualcosa di umoristico senza volerlo?

Eh, cielo, immagino di sì. Chiunque scriva è a rischio di umorismo involontario. Non è però molto facile venire a saperlo, prima che ti prendano violentemente in giro. A me il ludibrio non è capitato. Me lo sono inflitto da solo per errori di battitura, cose che ricordo con imbarazzo, imbarazzo tale da andarsi a nascondere.

Quali sono i titoli, di libri o film, che ti hanno divertito di più? Non se ne può più di Stefano Bartezzaghi, per dire, non è male.

Ci sono cose mie che posso solo sperare siano risultate divertenti al lettore, ma non posso sperare che lo abbiano divertito quanto me a scriverle. Come lettore e spettatore però siamo su un altro pianeta: i libri di Woody Allen, alcune cose di Achille Campanile (esempio Le vite di uomini illustri), alcuni pezzi di Umberto Eco, l’opera di Charles Schultz, Calvin & Hobbes, Andrea Pazienza. Altan, l’inarrivabile Altan. Hollywood Party, Frankenstein Junior. Ogni singola opera di Corrado Guzzanti, uomo che non conosco di persona e che se dovessi un giorno conoscere di persona abbraccerei fraternamente – immagino, sconcertandolo.

Qual è il lapsus più esilarante che ti ricordi?

Bisogna necessariamente andare sul volgare. Mi hanno raccontato di un articolo uscito in morte di un anziano sant’uomo. Nella prima riga si diceva che fosse spirato solo mezz’ora dopo aver “chiaVato” la cameriera. Mi scuso per la grossolanità, ma il lapsus non è mai altrettanto potente che laddove rende triviale il linguaggio più paludato.

Ci sono parole che fanno ridere? Perché?

Al proposito ognuno ha la sua sensibilità. Certo, nell’infanzia si ride di parole come “bidet” o “mutande”, se ne avverte il carico imbarazzante. Dopo possono risultare ridicole parole considerate “preziose”. Io non riesco a prendere sul serio chi usa “intrigante” non nel senso di “subdolo” e “losco” ma nel senso di “affascinante” e “avvincente”. Ma so che è un problema mio.

Non hai l’impressione di disturbare, quando, come dici tu, le parole giocano tra loro?

Ma no, a loro non dispiace. Poi non è che succeda ogni tanto: succede assolutamente sempre, e secondo me le parole si disturbano di più se dei loro giochi privati non si accorge nessuno. Non si nascondono davvero, li fanno sempre in modo che si possano vedere. Invece ogni volta che uno dice “il mio anagramma”, “il mio palindromo” o addirittura “il mio calembour” a me viene da scuotere la testa. Non c’è proprio nulla da vantarsi nel notare le meraviglie delle parole.

I giochi di parole sono davvero intraducibili e solo adattabili?

Eh sì, salvo grandi colpi di fortuna. Il gioco di parole si può definire come ciò che resiste alla traduzione da una lingua all’altra, fermo restando che un bravo traduttore può sempre provare a lavorarci.

Esistono frasi non fatte?

Sì, esistono. Esiste il conio, esiste l’accostamento inedito, esiste la cosa che nessuno ha mai osato, o almeno usato, dire. Ma non è così significativa, io credo. È una combinazione in più, e va benissimo, è giusto rallegrarsi di averla trovata: ma può funzionare solo sullo sfondo delle cose che si sono dette di già.

Quali sono le cose su cui, secondo te, non si può scherzare? E i luoghi in cui non si può ridere?

È una materia molto delicata, ma non penso che si possa delimitare preventivamente. Almeno in teoria si può ridere e scherzare di tutto: la legittimità è sempre funzione delle circostanze. Il crisma dell’illegittimità è sempre deciso da qualcuno: di volta in volta, sacerdoti, uomini di potere. Ma certo un limite mi pare rappresentato dallo scherno, cioè dal ridere del dolore altrui.

Ci regali un palindromo sull’umorismo?

Semplice semplice: «e di riso si ride». L’umorismo buono si annida dentro sé stesso; quando ride dell’altro è perché trova nell’altro cosa ridere di sé.

E un acrostico con “Fillide”?

Forzando I Limiti, Limiti Inavvertibili Dovrebbero Evidenziarsi.

[Numero 19 – ottobre 2019]