L’insulto, secondo la definizione fornita dal Dizionario Treccani una «grave offesa ai sentimenti e alla dignità, all’onore di una persona (per esteso, anche a istituzioni, a cose astratte), arrecata con parole ingiuriose», può essere considerato anche come un vero e proprio genere letterario, praticato fin dall’antichità. Ce lo dimostra il libretto Come insultavano gli antichi – edito, con testo a fronte, per i tipi dell’editore genovese Il Melangolo nella raffinata serie nugae –, che raccoglie un breve ma esaustivo campionario di insulti tratti dai più grandi autori dell’antichità greco-romana, a cui segue un elenco di improperi in lingua greca e latina. La curatela è di Neleo di Scepsi: ovviamente siamo di fronte a uno pseudonimo, dato che il filosofo ellenistico noto per aver ereditato la biblioteca del Peripato fu attivo nel III sec.; dietro questo nome fittizio si cela Francesco Chiossone, giovane esperto di filosofia antica e curatore appassionato di classici greci e latini.
Le brevi citazioni non sono ordinate secondo un criterio cronologico o tematico, ma sono raccolte in rigoroso ordine alfabetico: il libello si apre quindi con l’appassionato invito a bere del celebre fr. 33 di Alceo, paradigma della simposialità poetica, per poi concludersi, novanta pagine dopo, con due testimonianze terenziane, in un carnevale linguistico-comico che muove dalla lirica greca arcaica (oltre al poeta di Mitilene anche Ipponatte e Teognide, ma anche un’insospettabile Saffo), attraversa poi la commedia attica, quindi il vivace sperimentalismo linguistico di Plauto, per approdare infine al liber catulliano e al salace epigramma di Marziale. Troviamo quindi nemici di guerra, avversari politici, amanti fedifraghi, ma anche nemici personali o amici che hanno tradito.
Passiamo ora in rassegna alcuni degli autori qui raccolti, di cui approfondiremo le peculiarità stilistiche e contenutistiche, cercando di enucleare così una semantica dell’insulto nell’antichità classica. Se l’epos era stato e seguitava ad essere il luogo deputato all’encomio e alla lode, la poesia giambica era invece il luogo dello psógos e della iambikè idéa, poiché la poesia stessa diventava strumento di lotta, dovendo combattere e mettere alla berlina i nemici. Occorre ripetere e sottolineare lo statuto fortemente letterario della poesia giambica e come essa sia per eccellenza poesia del “ruolo”: quest’ultimo talvolta può addirittura essere svelato e la stessa violenza dell’attacco può essere delegata, senza che questo sia dichiarato, alla persona loquens.
All’appello non può quindi mancare Ipponatte: affrontando questo poeta ci scontriamo con l’inveterato luogo comune del poeta “pitocco”, dato che il poeta di Efeso si autopresenta come un poveretto e visto che la sua tematica tocca i livelli bassi della società. L’aggressione e l’insulto sono peculiari del suo mondo poetico, mentre la sua biografia presenta scoperti e sospetti parallelismi con quella di Archiloco, autore che ci saremmo invece aspettati di ritrovare in questa selezione. La sua produzione è pervasa interamente dall’ideologia giambica: la tradizione lo vuole rivale dello scultore Bupalo, reo di aver rappresentato il poeta con fattezze ripugnanti: in molti frammenti (Atenide nel fr. 70 W. = 69-70 D.; fr. 120 W. = 121 D.; fr. 121 W. = 122 D.; fr. 1 W. = 17 W.; fr. 12, 70 W. = 122 D.), quest’ultimo viene aggredito esplicitamente con il suo nome, mentre in molti altri c’è da credere che il bersaglio sia lui. Consueto è l’armamentario dell’invettiva: se in un frammento egli viene definito “nemico degli dèi” (fr. 70 W. = 69 D.), in un altro addirittura incestuosamente “giace con la madre” (fr. 12, 70 W. 0 20, 69 D). La sua lingua ionica attinge con larghezza al lessico lidio, prelevando con giudizio dagli strati del popolo, ma cementando il tutto in un artificioso ionico letterario. Inoltre, una parte cospicua del suo corpus è costituita da citazioni operate dai grammatici, a cui dobbiamo la sopravvivenza di molti frammenti, scelti dai medesimi per i termini peregrini ivi contenuti: basti considerare che in più di 200 frammenti, gli hapax sono una settantina. Con Ipponatte rileviamo un primo, ma significativo nesso tra turpiloquio e strenua creatività linguistica.
L’autore più presente in questo libello è senza ombra di dubbio Aristofane, di cui il curatore seleziona ben nove testimonianze. La commedia aristofanea è segnatamente contraddistinta dall’insistita presenza della corporeità (del sesso e del ventre), elemento estraneo alla nostra cultura e che non poco imbarazzo ha generato nella critica moderna. Il genere comico appare, infatti, come la sede privilegiata per l’abolizione delle – pur presenti – norme di decoro e per la realizzazione di ogni licenza fino alla volgarità, retaggio di antichi culti agrari. L’ipertrofia di alcune parti anatomiche come il ventre e il fallo, se da un lato configura l’uomo nei suoi istinti primari e sottolinea anche scenicamente il realismo corporeo, dall’altro ha una funzione oppositiva rispetto alla tragedia, che proponeva al contrario un’immagine idealizzata ed eroica dell’uomo. I continui, ripetuti riferimenti alla realtà corporea dovevano costituire un immediato terreno di intesa con il pubblico, nonché produrre effetti di forte comicità; se nelle commedie più antiche la scurrilità appare funzionale all’attacco contro la corruzione, man mano che si affievolisce l’impegno politico di Aristofane, questa diviene spesso gratuita, come ad esempio nel Pluto, dove essa svolge un ruolo ormai marginale. Al realismo corporeo è affidata anche la mediazione di ogni problema dell’esistenza, nonché la funzione di esprimere metaforicamente determinate situazioni: il corpo come metafora, dunque.
L’efficacia e il successo dello spettacolo comico, insieme al variegato impiego delle strutture formali, è determinato anche da un uso sapiente ed originale delle risorse linguistiche. Queste ultime, nella produzione comica aristofanea, sono contrassegnate da una spiccata varietà dei registri espressivi e da una notevole rete metaforica: un’immagine, un’invenzione verbale o un gioco di parole possono generare e guidare un intero movimento scenico. Molteplici sono gli ambiti a cui attinge il ricco patrimonio metaforico del poeta comico ateniese; tra questi spiccano quelli dell’agricoltura, delle attività marinaresche e dello sport. Il ripetuto e, per certi versi, scontato riferimento alla sfera sessuale può declinarsi in vario modo, realizzandosi in plurime formulazioni: si vedano ad esempioLisistrata 1173; Pace 1339; 1348; Donne all’assemblea 1091; Rane 48, ove l’atto sessuale viene fatto allusivamente corrispondere ora all’atto di “lavorare la terra”, ora invece a quello di “vendemmiare” o “raccogliere fichi”, o ancora alle azioni di “remare” e di “montare su una imbarcazione”. Un ulteriore meccanismo del riso tipicamente aristofaneo si produce dal doppio senso, dall’interpretazione equivoca di un’espressione oppure del valore concreto o astratto di un’immagine. Per questa modalità si vedano questi due passi delle Nuvole (vv. 488 ss. e vv. 186 e ss.). La parodia di testi letterari, in particolar modo della tragedia, si contrassegna infine come un ulteriore elemento caratteristico dell’archaia e, nello specifico, della produzione comica di Aristofane: intere sequenze o singoli versi possono essere riprese e deformate comicamente. Un esempio, tra i tanti possibili: l’allusiva ripresa euripidea del patetico verso 367 dell’Alcesti ai versi 890 ss. degli Acarnesi. Anche in quest’ultimo caso, la dimensione del gioco verbale appare cifra caratteristica della strategia comica di Aristofane.
Ma veniamo ora a un’altra caratteristica modalità dell’oltraggio, la pratica dello psógos, il biasimo, l’invettiva personale affidata al coro ed agli attori: qui oscenità e giochi di parole si intersecano. I nomi dei personaggi che si vogliono attaccare vengono storpiati o reinventati: cogliamo qui un importante nesso tra insulto e creatività verbale, già riscontrato in Ipponatte. Scorriamo ora qualche esempio: lo stratego Laches può mutarsi in Labes, per alludere alle ruberie ed ai furti che avrebbe commesso (da labeîn, che significa appunto “prendere”). Callia, nipote di Hipponikos, era noto per la sua smodata passione per le donne: nella dimensione del gioco verbale aristofaneo diviene figlio di Hippóbinos, con allusiva associazione al verbo bineîn “fottere”. Cleone, turbolento demagogo pesantemente aggredito da Aristofane nei Cavalieri, può essere soprannominato Paphlagṓn, che rinvia a paphlázein, “ribollire” e a paphlásmata, “fanfaronate”. Ricorrenti sono pure i fittizi patronimici in -ides o -ades, di chiara ascendenza epica e, proprio per questa ragione, risibili se riferiti a personaggi ignobili o infami. Un’altra maniera in cui nello spettacolo comico si declina l’aggressività verbale diretta verso i personaggi pubblici è quella di metterne in dubbio l’origine, ponendo in discussione l’appartenenza alla comunità ateniese. Si veda questo passo tratto dalla parabasi delle Rane (675 ss.), dove Cleofonte, accanito oppositore del partito oligarchico nell’ultima fase della guerra del Peloponneso, fa risuonare sulle sue «labbra bastarde la rondine Tracia», perché nato da una schiava tracia. Non è casuale che venga evocata la Tracia, regione periferica sentita come barbara dal resto della comunità ellenica: si delinea qui con chiarezza una geografia dell’insulto. Altrove ad essere presi di mira e derisi sono alcuni tratti dell’aspetto fisico, assunti come segno di malvagità o di vizio, come la presunta cisposità di cui sarebbe stato affetto il demagogo Archidemo (Rane 416 ss., 586 ss.). Inoltre, ricorrente è la derisione di presunte perversioni sessuali: si va da Alcibiade, accusato in modo ricorrente di essere un “culaperto” (Acarnesi 716) o all’”infame Arifrade”, che «insozza la lingua in turpi piaceri», reo di essere dedito a pratiche di sesso orale (Cavalieri 1274 ss.).
L’onomastica stessa di alcuni personaggi, inoltre, può divenire indicazione antonomastica del vizio e del carattere negativo incarnato da essi. L’aggressione giambica, per un retaggio arcaico, può assumere anche la forma della maledizione nei confronti di personaggi nocivi per la città (come Pisandro nei Cavalieri, di cui ci si augura esplicitamente che vada in malora). L’invettiva può appuntarsi su atti, presunti o reali, di viltà o corruzione.
La vigorosa ricchezza linguistica è dunque strettamente collegata all’efficacia comica e la policromia dei differenti registri linguistici appare finalizzata a uno riso quasi sempre intelligente. Pur costituendo una testimonianza fondamentale per la nostra conoscenza della lingua attica colloquiale, il suo registro di fondo è quello di un sermo urbanus . Abbondano modi di dire d’uso comune, così come volgari doppi sensi di derivazione popolare; alcuni personaggi comici parlano un greco maccheronico, come il Triballo degli Uccelli o l’arciere scita nelle Donne alle Tesmoforie, mentre altri riproducono mimeticamente la parlata retoricamente ornata dei giovani aristocratici; si assiste anche alla parodia di linguaggi settoriali, come il gergo sofistico, parodizzato nei Cavalieri. Si segnalano, inoltre, l’impiego di dialetti per personaggi provenienti da regioni diverse dall’Attica, come i commercianti degli Acarnesi e nella Lisistrata , ricca di parlata laconica.
Si veda ora questo celeberrimo passo delle Nuvole (vv. 1083-1100), in cui il termine eurúprōktos, designante la passività sessuale omosessuale che si estrinseca nella subita penetrazione anale, occorre per ben 6 volte in 16 versi, designando dapprima adulteri casanova, poi retori politici, per culminare infine con lo stesso pubblico ateniese seduto a teatro. Notiamo, inoltre, come la forma espressiva proceda per accumulazione.
∆ίκαιος Λόγος. τί δ᾿ ἢν ῥαφανιδωθῇ πιθόµενός σοι τέφρᾳ τε τιλθῇ
ἕξει τινὰ γνώµην λέγειν τὸ µὴ εὐρύπρωκτος εἶναι;
Ἄδικος Λόγος. ἢν δ᾿ εὐρύπρωκτος ᾖ, τί πείσεται κακόν;
∆ίκαιος Λόγος. τί µὲν οὖν ἂν ἔτι µεῖζον πάθοι τούτου ποτέ;
Ἄδικος Λόγος. τί δῆτ᾿ ἐρεῖς, ἢν τοῦτο νικηθῇς ἐµοῦ;
∆ίκαιος Λόγος. σιγήσοµαι. τί δ᾿ ἄλλο;
Ἄδικος Λόγος. φέρε δή µοι φράσον·
συνηγοροῦσιν ἐκ τίνων;
∆ίκαιος Λόγος. ἐξ εὐρυπρώκτων.
Ἄδικος Λόγος. πείθοµαι.
τί δαί; τραγῳδοῦσ᾿ ἐκ τίνων;
∆ίκαιος Λόγος. ἐξ εὐρυπρώκτων.
Ἄδικος Λόγος. εὖ λέγεις.
δηµηγοροῦσι δ᾿ ἐκ τίνων;
∆ίκαιος Λόγος. ἐξ εὐρυπρώκτων.
Ἄδικος Λόγος. ἆρα δῆτ᾿
ἔγνωκας ὡς οὐδὲν λέγεις;
DISCORSO FORTE – E se dovessero ritrovarsi una testa di rafano nel didietro e lo depilassero con la brace? Tutto per averti dato ascolto! Avrà un argomento per dimostrare che non è un culaperto?
DISCORSO DEBOLE – E anche se fosse un culaperto, che cosa ci sarà di male?
DISCORSO FORTE – E cosa ci può essere di peggio?
DISCORSO DEBOLE – Cosa avrai da dire allora, se ti batto su questo punto?
DISCORSO FORTE – Basta. Starò zitto.
DISCORSO DEBOLE – Rispondimi dunque: da che gente vengono gli avvocati?
DISCORSO FORTE – Dai culaperti.
DISCORSO DEBOLE – Esatto. E i tragici?
DISCORSO FORTE – Dai culaperti.
DISCORSO DEBOLE – Bene. E i politici?
DISCORSO FORTE – Dai culaperti.
DISCORSO DEBOLE – E allora, ti sei accorto che i tuoi argomenti non esistono?
Traduzione di Dario del Corno
Esaminiamo ora ancor più nel dettaglio i meccanismi dell’insulto messi in opera da Aristofane. La sua mordace satira stigmatizzò ogni tipo di eccentricità ateniese e colpì attraverso la caricatura i più importanti uomini politici del suo tempo: Pericle e Cleone, Alcibiade, Nicia ed Iperbolo, insomma i pilastri della democrazia ateniese e delle sue istituzioni. Una ricorrente modalità dell’oltraggio è la messa alla berlina della proverbiale mascolinità ateniese: negli Acarnesi, ad esempio, il poeta ateniese Antimaco cerca di procurarsi una pietra per aggredire un cittadino ubriaco che lo aveva precedentemente assalito, ma in luogo di questa non trova nient’altro che un caldo e fumante escremento, cosicché il coro si augura che il personaggio fallisca il bersaglio e colpisca il poeta comico rivale Cratino: ecco affacciarsi il motivo scatologico.
Questa tipologia di attacchi, così come le ingiurie concernenti le parte intime o i genitali, può colpire poeti rivali, personaggi immaginari, uomini politici, ma anche cittadini ateniesi o spartani e le loro divinità. Come nota Lateiner, l’aggressione comica per essere efficace deve colpire queste vittime degradandole e mettendole in ridicolo, qualificandole con appellativi squalificanti come invertiti, pervertiti sessuali o addirittura sostanze immonde. Si pensi alle sole Nuvole, dove vengono nominati ben 45 individui, e nessuno di questi per essere lusingato.
Un’ulteriore arma dell’arsenale comico (verbale e non) aristofaneo sono le caricature e gli insulti di tipo zoologico: sulla scena ateniese compaiono quindi animali quali serpenti, cani, insetti e pesci. In un passo delle Vespe (1031-5), il solito Cleone, spesso sbeffeggiato per la sua più o meno scoperta e maleodorante attività di conciapelli, viene descritto dapprima come una mostruosa prostituta, poi come un serpente, una foca puzzolente, un ano di cammello e, peggior cosa, come gli sporchi genitali di Lamia, una mostruosa donna-caccola. Si noti anche in questo caso come la modalità dell’insulto proceda per mezzo degli stilemi retorici dell’accumulazione elencatoria e della climax. Nella stessa commedia, ai versi 1300-23, il vecchio Filocleone, dopo essere stato curato dalla mania di partecipare ai pubblici processi, viene condotto a un simposio dal figlio Bdelicleone, che ha intenzione di educarlo alla vita mondana: il suo comportamento è tuttavia inqualificabile: dapprima ringhia ed emette dei sonori peti, espressioni non verbali del disprezzo forti e rumorose, quindi insulta pesantemente i convitati presenti arrivando addirittura a sottrarre la flautista. Il riso nasce sulle bocche del pubblico ateniese proprio per l’impunità scenica conferita alla parola insultante: all’oltraggio verbale (ma non solo) non corrisponde alcuna sanzione, dall’offesa sgorga inarrestabile una nuova offesa.
A colpire sin da subito il lettore non è soltanto la varietà e la ricchezza di contumelie, insulti, improperi e volgarità di ogni tipo qui raccolte, ma soprattutto il fatto che queste non appartengono solamente a generi prettamente scommatici come la commedia (Aristofane, Difilo e Menandro per il mondo greco; Plauto e Terenzio per quello romano) o la lirica, ma si ritrovano anche nelle pagine dei filosofi, nelle arringhe degli oratori o nelle trattazioni degli storici. Infatti, se non stupisce la presenza di autori comici o satirici, lo stesso non può dirsi di un Seneca o addirittura dello stesso Omero. Ci si imbatte perfino in un insospettabile classico come Cicerone, prosatore profondamente sorvegliato: il suo stile ampio e armonioso, caratterizzato di norma da una struttura fortemente ipotattica, così come da una chiara articolazione logico-argomentativa che mette in rilievo le relazioni logiche tra le varie parti del discorso, si abbandona qui a veementi insulti contro chi, di volta in volta, viene preso di mira nelle sue orazioni. Si veda questo primo esempio, tratto dalle Catilinarie, con cui l’Arpinate, attraverso l’ossessivo martellare dell’anafora, delinea un fosco ritratto dell’entourage di Catilina.
Quid enim mali aut sceleris fingi aut cogitari potest, quod ille non conceperit? Quis tota Italia veneficus, quis parricida, quis testamentorum subiector, quis ganeo, quis nepos, quis adulter, quae mulier infamis, quis corruptor, quis perditus inveniri potest, qui se cum Catilina non familiarissime vixisse fateatur? (Cic. in Cat. II, 7)
(Quale infamia o scellerataggine si potrebbe mai pensare o architettare, che egli non abbia commesso? E sarebbe possibile trovare, in tutta quanta l’Italia, un avvelenatore, un parricida, un falsificatore di testamenti, un bandito, un crapulone, un libertino, un adultero, una donnaccia, un corruttore di giovani, un depravato, un disperato che non ammetta di aver vissuto in stretta intimità con lui?)
Qui la strategia espressiva adottata è ancora quella che procede con l’accumulazione. Oppure questo passo, dalle Filippiche, un feroce ritratto di Antonio, bersaglio delle celebri orazioni.
Hanc vero taeterrimam beluam quis ferre potest aut quo modo? Quid est in Antonio praeter libidinem, crudelitatem, petulantiam, audaciam? Ex his totus conglutinatus est. Nihil apparet in eo ingenuum, nihil moderati, nihil pudens, nihil pudicum! (Cic. Phil. III, 28)
(Ma questo mostro ripugnante, chi sarà capace di sopportarlo e come? Che cosa c’è nell’animo di Antonio se non sfrenatezza, crudeltà, arroganza, avidità? Ecco di che cosa è fatto. In lui non c’è un briciolo di generosità o di moderazione, e non conosce né vergogna né onore!)
La parolaccia si sintonizza spontaneamente con l’inquieta coscienza sessuale degli adolescenti e anche con la loro sete di infrazione e di libertà, perché la parolaccia scandalizza, scopre il nascosto, abbatte le gerarchie, è comica, carnevalesca, sovversiva. La parolaccia, inoltre, sembra di per sé annullare la distanza temporale tra presente e passato; ha qualcosa di attuale: guarda, infatti, direttamente al corpo, la più basilare delle realtà. (GARDINI 2016, p. 79)
Un cospicuo numero di parolacce si ritrova in Catullo, un altro autore del canone scolastico riportato in questo libro (Come insultavano gli antichi, pp. 30.33). Il suo turpiloquio, come nota Gardini, è confinato nella prima e nell’ultima parte del liber, vale a dire nei componimenti più autobiografici; i carmina docta non presentano invece traccia di sconcezza. Le numerose attestazioni parlano chiaro, e basterà fermarsi alle più significative. Procedendo ad uno spoglio del suo vocabolario sessuale, si incontrano parti del corpo (mentula, cunnus, culus) così come verbi che indicano la prassi sessuale e i ruoli ricoperti dall’individuo (futuo e derivati quali confutuo, ecfututa, defututa, diffututa, pedico, irrumo, truso, glubo, fello, perdepso e voro). Sono registrati anche sostantivi quali fututio, irrumator e irrumatio; altri sostantivi sono scortum, scortillum e i due termini greci pathicus e cinaedus. Se il termine mentula, equivalente popolare del nostro popolarissimo “cazzo” ricorre appena due volte in senso letterale, la controparte femminile è attestata solamente una volta sola.
A Catullo assai più che i sostantivi, cioè le parti del corpo, interessano i verbi, cioè la prassi sessuale e i ruoli che l’individuo vi riveste. Il Catullo che si esprime attraverso il turpiloquio si dà identità di uomo libero, ovvero di individuo virile che nel sesso ha sempre un ruolo attivo e così afferma la propria dignità sociale, sia con le donne, sia con gli uomini. Metterlo in bocca (irrumo) o nel culo (pedico) a un altro uomo, infatti, non significa omosessualità (parola che il latino non conosce), ma è dimostrazione di forza e di superiorità; ha una valenza sociopolitica (e lo dimostrano anche gli epigrammi del più tardo Marziale). (…) Chi, adulto e libero, assume ruoli passivi nel sesso, indicato dai due termini greci pathicus e cinaedus (il cui primo significato è quello di ballerino) è figura spregevole, immagine dell’ultima umiliazione, uomo indegno della libertà. (GARDINI 2016, p. 80)
Invece quando canta semplicemente il desiderio, l’istinto erotico o la mera attrazione fisica, il poeta veronese rifugge dalla volgarità: nel carme 56, ad esempio, pur parlando delle proprie erezioni, il poeta evita la parola mentula. Se, come nel grazioso carme 32, si abbandona a qualche volgarità, cerca di compensare inserendo espressioni stilisticamente antitetiche, proprie di un registro sentimentale e introspettivo. Inoltre, Catullo evita i doppi sensi e solo di rado estende metaforicamente il senso delle parole. Nonostante la sua poesia possa apparire in un primo momento come spontanea, fresca e individualistica, questa si proponeva come obiettivo ultimo un profondo rinnovamento dell’etica sociale, difendendo valori come la fides e la giustizia. Ancora Gardini:
L’oscenità di Catullo serve principalmente da strumento di protesta sociale. É una retorica quella di un maschio libero che si oppone al caos storico, alla corruzione politica e alla confusione delle parti. Il rispetto dei ruoli sessuali significa praticamente e simbolicamente rispetto dell’ordine sociale. (GARDINI 2016, p. 81)
La poesia catulliana si caratterizza per la predilezione dello svolgimento vivace e per i toni polemici, che tuttavia non sconfinano mai nell’invettiva personale. Proprio nel carmen 16 di cui il vivace libello riporta i due versi iniziali, il poeta repubblicano, dopo aver esordito minacciando coloritamente di punizioni sessuali i calunniatori Furio ed Aurelio, per poi venire accusato da quest’ultimi di impudicizia, si difende contrapponendo i propri versi lascivi alla sua casta vita. Questo concetto verrà ripreso dall’epigrammista di età imperiale Marziale, che ad esso allude scopertamente in 1.4.
Mentre l’antichità esiste per noi, noi per l’antichità non esistiamo.
Non siamo mai esistiti né mai lo saremo
(Iosif Brodskji)
Lo stesso tema del turpiloquio e, soprattutto, i testi qui raccolti, che sono non solo licenziosi (ovviamente per i nostri occhi e per la nostra tradizione culturale), ma anche peregrini e poco battuti nelle nostre aule scolastiche, sembrano suggerire una più complessa operazione: il compilatore pare quasi articolare un canone alternativo, un pantheon solo all’apparenza minore. Quest’operazione, segretamente agonistica, ci sfida invitandoci a una riflessione sullo statuto del classico in generale. Solitamente le prime nozioni che si apprendono in una lingua straniera sono insulti e parolacce: non così accade per le lingue classiche, che pur possiedono un’antica e consolidata tradizione letteraria dell’insulto, di cui si è cercato di fornire una seppur cursoria disamina.
Il motivo sarà forse da rinvenire nella strenua difesa, anacronistica ma perdurante, di una classicità ideale ma intoccabile, ormai appannaggio solo di specialisti e addetti ai lavori. L’antichità classica, la cui produzione letteraria ci è pervenuta attraverso una combinazione unica di caso e selezione, non è e non deve essere solo un repertorio rassicurante e, per così dire, asettico e muto. Orbene, nell’antichità classica la tradizione letteraria scommatica, come si è cercato di dimostrare, lega indissolubilmente insulto e inventiva linguistica, in una forma che unisce pregnanza, espressività e spericolato sperimentalismo. E in tempi frettolosi e volgari come i nostri, dove l’insulto è ormai modo e misura del vivere comune, non possiamo che rifarci nuovamente e anche in questo ambito ai nostri predecessori, proseguendo un’attiva lampadoforia e ricordando il sempre fecondo, ma mai passivo scambio con l’antichità. Riformulando il celebre adagio, aliquando ridet Homerus. Perché alla fine, novelli Ulissi, torniamo sempre ad Omero.
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