logo fillide

il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 19

 ottobre 2019

Saggi e rassegne

Massimo Bertoldi

Goldoni, Il servitore di due padroni: Sacco, Reinhardt, Strehler

Truffaldino è il servo furbo e imbroglione oppure sciocco e pasticcione. Nel corso del Cinquecento da personaggio funzionale allo svolgersi dell’intreccio diventa maschera autonoma, riconoscibile per un costume bianco e ampio con strisce nere; poi si sdoppia dando vita al primo Zanni, il servitore astuto e autore di intrighi complessi, e il secondo Zanni, sciocco e ingenuo, con il compito di divertire il pubblico con lazzi e giochi mimici che richiedono notevoli capacità ginniche e acrobatiche come quelle di Arlecchino.
Nel suo percorso storico la maschera di Truffaldino ha incontrato diverse e singolari contraffazioni. Spicca quella di Giorgio Strehler che antepone al titolo de Il servitore di due padroni, di cui è protagonista Truffaldino, il nome di Arlecchino che perciò scalza l’altro servo dal podio delle gerarchie interne. Come si vedrà, l’azione del regista non è casuale. Deriva dalla combinazione di elementi di ordine teatrale e culturale, strettamente debitori della genesi della commedia goldoniana.

Goldoni e Sacco

Il servitore di due padroni è un canovaccio scritto nel 1745, rappresentato nel 1749 e pubblicato con adeguati aggiustamenti nel 1753 presso Paperini. Goldoni lo aveva elaborato su esplicito invito di Antonio Sacco (o Sacchi), un attore di statura internazionale noto in scena con il nome di Truffaldino. Nello specifico aveva richiesto il rifacimento di un copione francese di successo, Arlequin de deux maîtres di Jean Pierre des Ours de Mandajor. Nella rielaborazione goldoniana la struttura drammaturgica rimane ancorata al canovaccio tradizionale con dodici personaggi (due coppie di innamorati, due vecchi, due Zanni, una servetta e tre personaggi secondari), impegnati nello scioglimento di un intreccio romanzesco ricco di travestimenti e falsi morti, tutto sviluppato sul gioco dei travestimenti e degli equivoci soprattutto alimentati da Truffaldino nel momento in cui si divide tra i due inconsapevoli padroni. Il suo modo di essere è dualistico, sciocco e astuto, aggraziato e goffo, tranquillo e agitato. La forza comica dei lazzi e l’ampio ventaglio di espressioni mimico-gestuali imprimono all’intrigo narrativo un carattere marcatamente giocoso e aderente alla teatralità del mondo dell’Arte.

«La commedia – scrisse Goldoni ne L’autore a chi legge – si potrebbe fare senza di lui (Truffaldino)». Sottolineò inoltre il rispetto letterario del «vero carattere del villano» incarnato dalla maschera: «sciocco allor che opera senza pensamento, come quando lacera la cambiale; astutissimo, quando opera con malizia, come nel servire a due tavole comparisce» (GOLDONI 2011, pp. 110-111). Sorta di coautore del testo, Sacco, quando affronta questo personaggio metà italiano e metà francese, non solo gli trasmette quegli elementi arlecchineschi, acrobatici e ballettistici sui quali si era formato come attore, ma opera una sorta di sdoppiamento-contraffazione in funzione di precise strategie di mercato: al cospetto di un pubblico italiano Truffaldino mantiene il suo nome autentico mentre all’estero diventa Arlecchino. Perché questo? Perché lo spettatore straniero, conosciuto dall’attore a fronte delle sue numerose tournée dal Portogallo alla Russia, suppliva agli impedimenti linguistici con la preferenza per le acrobazie e i lazzi, che però attribuiva alle performances del più celebre Arlecchino. E lo stesso vale quando Sacco recita in Europa il Servitore goldoniano e apre la strada alla sua grande fortuna scenica, segnatamente nell’area tedesca dove il testo è valorizzato non come opera del commediografo veneziano, del quale si preferisce il repertorio delle commedie di carattere, bensì come manifesto delle maschere.

Goethe lo iscriverà per 19 serate nella programmazione del teatro di corte di Weimar, tra il 1791 e il 1817. Letto in chiave antiborghese e popolare, il Servitore tradotto in lingua tedesca dall’attore e commediografo Friedrich Ludwig Schröder arriva nel 1794 a Berlino con il titolo Der Diener zweier Herren e diventa rapidamente un classico di puro divertissiment impreziosito di elementi farseschi e balletti assimilabili anche al teatro musicale. Dalla seconda metà del XIX secolo il canovaccio staziona come punta di diamante nel repertorio di due grandi comici quali Emil Pohl che lo propone a Berlino nel 1845 e Heinrich Ludwig Schmelka che lo recita ripetutamente dal 1850 al 1860. Un’analoga identificazione tra l’attore e la maschera di Truffaldino impegna l’austriaco Hugo Thimig nella sua operazione di mediazione con la cultura comica austro-tedesca: mantiene infatti i panni della maschera tradizionale di Hanswurst per recitare il servo goldoniano sul palco del prestigioso Burgtheater di Vienna in una sequenza di brillanti esibizioni dal 1888 fino alla morte (1930). Hugo si presenta in scena senza maschera, con cappello calato a metà fronte, indossa giubba scura e pantalone a sacco fino a metà polpaccio, la giacca che nasconde un addome prominente copre un camicione bianco.

Se è questa la cifra connotativa di come viene assunto Il Servitore-Der Diener nei paesi dell’area tedesca nell’Ottocento, una foto, che immortala il figlio Hermann nel 1923 impegnato nello stesso ruolo del padre Hugo, illustra un grande cambiamento: il ventre ora è asciutto, il costume è quello tradizionale di Arlecchino con un cappello a larghe falde ornato da una vistosa piuma. Il mutamento, piuttosto evidente, rivela gli effetti di un rinnovamento connesso all’idea di Commedia dell’Arte che investe l’attore, la scenografia, il teatro nel suo insieme.

Goldoni e Reinhardt

L’anello di congiunzione tra il Truffaldino anziano e quello giovane è dato dal lavoro del regista Max Reinhardt sul canovaccio goldoniano, che rientra in un progetto di più ampia riconsiderazione del mondo delle maschere. Ne Il teatro che io ho in mente, sorta di programma artistico scritto da Reinhardt nel 1902 in corrispondenza dell’inizio della sua lunga e fortunata carriera di regista, si legge:

Io conosco la capacità di gioco dell’attore e talvolta non mi dispiacerebbe affatto, in questi nostri tempi eccessivamente disciplinati, salvare qualcosa della vecchia Commedia dell’Arte, solo per ridare di tanto in tanto all’attore la possibilità di improvvisare e di uscire dai ranghi. (REINHARDT 1902, p. 156)

L’obiettivo è il superamento del rigore e dell’impersonalità espressiva propria del teatro naturalistico, per «restituire all’attore il diritto di mostrarsi da tutti i lati e di operare in più direzioni, restituendo il piacere di recitare, di trasformarsi». Da questo assunto si enuclea il repertorio dell’eclettico e versatile regista viennese che spazia dai classici (Shakespeare, Sofocle, Eschilo, Goethe) ai contemporanei (Wedekind, Schnitzler, Hofmannsthal, Shaw, Pirandello). La Commedia dell’Arte impegna Reinhardt «di tanto in tanto». Nel 1911 trasferisce sulla scena girevole del Deutsches Theater di Berlino la fiaba teatrale Turandot di Carlo Gozzi con la nuova traduzione di Karl Vollmoeller e le musiche di Ferruccio Busoni (che comporrà anche il libretto della sua Turandot rappresentata a Zurigo nel 1917 in dittico con un altro suo lavoro legato all’Arte, Arlecchino o delle finestre). Alla performance degli attori impegnati nelle parti di Pantalone, Tartaglia, Brighella e Truffaldino, Reinhardt accorda il registro espressivo del comico in senso più verbale che gestuale, in contrapposizione alla staticità drammatica propria della principessa cinese e del principe Calaf.

Richiami alla Commedia dell’Arte ricorrono anche ne Il grande divertimento reale di Versailles, breve opera pastorale in musica che fa da cornice e cerniera all’allestimento di Georg Dandin di Molière del 1912. Il personaggio di Tirsi, nel testo originale un paggio da cerimonia, diventa un Arlecchino oscillante tra gaiezza e malinconia. Con questi due spettacoli, il primo un capolavoro fantasmagorico mentre il secondo un esperimento modesto, Reinhardt partecipa al recupero e alla rivisitazione dell’Arte in atto nei percorsi di ricerca dell’avanguardia europea di inizio Novecento. Il mondo delle maschere e dei canovacci è inteso come teatro del ritmo e del movimento, dello stile contro il dominio della parola del testo. La fantasia e l’improvvisazione si contrappongono agli schematismi realistici del teatro borghese e diventano tramite fondamentale per valorizzare la cultura e l’anima popolare che significano, per il regista, affrontare un testo delle maschere in funzione delle potenzialità espressive dell’attore. Ed è quello che succede con il Il Servitore-Der Diener. Non solo: al progetto della messinscena Reinhardt fa corrispondere la scelta di uno spazio teatrale adatto a garantire allo spettatore il pieno godimento dell’esibizione mimico-gestuale. Perciò incarica il regista Rudolf Bernauer di adattare la rappresentazione allo spazio dei Kammerspiele, una sala intima di soli 246 posti inglobata nel Deutsches Theater di Berlino, di gusto rococò, in cui la distanza tra palco e platea è di fatto minima e perciò favorevole alla ricezione di dettagli e sfumature. La sera del 26 ottobre 1907 debutta questa nuova edizione impostata sul ritmo e sul movimento, dall’andamento ludico, con Paul Biensfeldt nei panni di un Truffaldino non troppo lontano dalla comicità clownesca e dai lazzi diffusi da Antonio Sacco nel Settecento. La critica militante lo definisce «mezzo Arlecchino e mezzo acrobata» e ne sottolinea lo stile della marionetta (vedi “Berliner Börsen Zeitung”, 27 ottobre 1907).

Nel 1924 Reinhardt affronta il canovaccio goldoniano e consegna alla storia una delle edizioni più importanti del Novecento. La decisione non è casuale. La commedia goldoniana è scelta per l’inaugurazione del Theater in der Josefstadt di Vienna che il regista aveva comperato nel 1923 e aveva sottoposto a restauro con il contributo del facoltoso banchiere veneziano Camillo Castiglioni. Oggetti di antiquariato e opere d’arte fatte venire appositamente dall’Italia, corridoi tappezzati in seta verde, le pareti in rococò veneziano, il foyer ovale in rosso, formano una rete di citazioni del Teatro La Fenice, scelto a modello dall’architetto Carl Witzmann. È l’ambiente ideale per il pubblico abituale di estrazione nobile e altoborghese, che si riconosce nelle convenzioni sceniche consacrate dalla tradizione e legate a una concezione del teatro come ludico e raffinato intrattenimento, in cui il linguaggio comico, moderato ed elegante, assurge a rassicurante riferimento culturale. Così l’evento della riapertura del Theater in der Josefstadt vuole diventare motivo di festa condivisa da attori e spettatori ai quali Reinhardt riserva una sorpresa tanto speciale quanto gradita. Antepone al testo goldoniano un Prologo scritto per l’occasione dall’amico Hugo von Hofmannsthal. L’espediente, che recupera la formula della “scena della commedia” adoperata dai comici italiani nel XVII e XVIII secolo, si enuclea dalla prima scena del Servitore, dalla quale lo scrittore austriaco recupera i personaggi – Pantalone, il Dottore, Smeraldina, il servo Pandolfo, Truffaldino – affiancati da altri di invenzione tra i quali otto soggetti denominati in ordine di numero ordinale, più una Donna, il Pedante, il Suggeritore, il Direttore di scena.
Nella messinscena la declamazione del Prologo è preceduta da una situazione propria del teatro nel teatro: al suono di una musica mozartiana si alza lentamente il sipario e sul palco si vedono attori e attrici alcuni già in costume, altri in tailleur o con soprabito, altri ancora in frac o in abito da sera; a loro il regista impartisce gli ultimi consigli mentre i tecnici di scena sistemano le ultime cose. La situazione è da retropalco nascosto da una tenda che all’improvviso si alza, cogliendo gli interpreti impreparati che perciò fuggono con grida di spavento. Rimane in scena solo Truffaldino in costume. Vorrebbe parlare al pubblico. I suoi colleghi lo invitano a desistere, si prendono gioco di lui, si arrabbiano, sostenuti dall’inutile intervento del Direttore. Truffaldino resiste e allora gli attori cercano di consigliargli cosa dire alla platea. Si anima un turbinio di dialoghi brevi e concitati; le battute, che si susseguono a ritmo incalzante, bersagliano anche i gusti del pubblico e declinano un discorso, pur allusivo e frammentario, sulla drammaturgia contemporanea e il rapporto con il repertorio classico.

Uno Vogliamo proporre loro lo specchio della nostra epoca! Questo è quello che si aspettano da noi!
L’altro Vogliono dimenticare il tempo! Perciò vanno a teatro!
Uno Vogliono che l’attore si rassegni al poeta!
Quinto Vogliono vederlo emergere, l’attore!
Pedante Significa portare i gufi ad Atene se si volesse incontrare il pubblico viennese.
Uno Vogliono l’attualità, l’odierno. Strindberg, vogliono vedere!
Secondo Strindberg non lo vogliono vedere! Loro vogliono il loro Grillparzer, il loro Raimund!
Settimo Grillparzer e Raimund non li vogliono vedere! Questa è una bugia! Non vogliono l’antiquariato!
Truffaldino (Cerca di inserirsi): solo poche parole! Senza pathos! Solo ai giovani!
[…]
L’altro No, noi vogliamo che loro vogliono quello che noi vogliamo!
(HOFMANNSTHAL 1924, p. 1)

Anche se il riferimento è diretto al modo con cui Truffaldino deve rapportarsi al pubblico, di fatto le battute successive alludono alla questione dello stile espressivo con cui l’attore moderno si deve rapportare, per renderla fruibile, all’interpretazione di una commedia antica.

Truffaldino Sì, lasciami dire solo due parole di come mi sento al riguardo!
Uno Bene, ma non dirlo in modo dettagliato ( prolisso, imbarazzante, cerimonioso)!
L’altro Con chiarezza.
Terzo Cordialmente.
Truffaldino Questa è la mia forza!
Quarto Chiaro e tondo!
Quinto Ma senza pathos!
Truffaldino Lo voglio! Lo voglio!
Sesto Controllo!
Settimo Con umorismo!
Ottavo Con discrezione!
Truffaldino Con umorismo discreto mi togli la parola di bocca!
Primo Però senza scherzi!
Truffaldino Senza scherzi!
Primo Nessun artifizio privo di significato!
Terzo Nessun elogio al passato!
Secondo Nessun appello al futuro!
Quinto E nessuna allusione al presente!
Truffaldino Niente di tutto questo.
(ibidem, p. 2)

Il problema cruciale per Reinhardt e i suoi attori è questo: imitare un modello riesumato dalla memoria storica oppure interpretare il testo goldoniano in chiave moderna, come si deduce da quanto segue.

Quarto Vogliamo recitare teatro secondo il vecchio stile!
[…]
Sesto Sì, certo, ma da un nuovo modo!
Primo Ma questo è anche il vecchio in quanto non gli associamo nuove intenzioni!
[…]
Quinto La parola “Nuovo stile” – cancellala dal tuo lessico!
Sesto Altrettanto la parola “tradizione”. Questa potrebbe apparire presuntuosa oggi e a questo punto.
Settimo In breve, parla come riesci!
Ottavo Ma non lasciare che una parola senza pensieri ti sfugga!
Tutti Ci hai capiti?
Truffaldino (sembra sbalordito).
Tutti Quindi parla! (Gli fanno posto).
(ibidem, p. 3)

L’ultima battuta è rivolta a Truffaldino il quale, lasciato solo in scena, confessa che non sa più dire nulla perché tutto è già stato detto. La rappresentazione del Servitore di due padroni può iniziare. Entrano in scena il Dottore, Pantalone, Tebaldo. A ben vedere la rappresentazione teatrale costituisce una componente di questa storica serata viennese datata 1 aprile 1924, perché nelle cronache dell’epoca ampio spazio viene concesso alla descrizione minuziosa del nuovo Theater in der Josefstadt. Lo spettacolo è quindi totale. Scrive Robert Musil in merito all’evento:

La scena e la platea e gli spazi circostanti formano una splendida unità stile impero il cui impianto originale risale alla fine del secolo XVIII. Reinhardt ne ha fatto uno dei teatri più belli del mondo, talmente consapevole della sua bellezza che si è permesso di non nascondere nulla, sicché la scena non è altro che la continuazione della platea, con le stesse pareti un muratura, i palchi per i musicisti e l’illusione che sullo sfondo, in alto, ci siano delle finestre. Non esiste un secondo mondo che inizia al di là della ribalta: con l’alzarsi del sipario tutto diventa teatro. A questo spirito apparteneva anche lo spettacolo che Reinhardt ha mostrato ai suoi ospiti per l’inaugurazione: commedia con solletico e piume ricurve sul cappello abbassato in segno di saluto. Un servitore di due padroni di Goldoni non era che il pretesto per intermezzi di canti e balli, magistrali duetti e terzetti vocali, improvvisazioni per attori, quinte addobbate e spogliate a vista in modo scherzoso e grandi arlecchinate. Non abbiamo assistito a un’esibizione, ma alla recita di una commedia; scegliendo quello stile Reinhardt voleva in parte rendere omaggio all’epoca del grande Barocco viennese, in parte farsene graziosamente gioco». (MUSIL 1965, P. 167)

Piuttosto che concentrarsi sulle vicende dei personaggi, il regista sviluppa una sorta di gioco scenico di effetti e sorprese di effimero godimento: capriole, colpi di spatola, ruzzoloni, baruffe, pedate, lazzi armonizzano il registro espressivo di uno spettacolo in cui prevalgono la mimica e il virtuosismo acrobatico sulla partitura testuale. Quanto questo taglio registico sia fedele agli stilemi della Commedia dell’Arte e in che termini si sia sviluppata l’operazione filologica condotta da Reinhardt sull’originale goldoniano, sono problemi trascurati dalla critica militante viennese, alla quale mancano conoscenze specifiche e adeguati strumenti analitici. Solleva invece la questione, e con toni anche velatamente polemici, relativa alla scelta di una commedia considerata inattuale, mentre l’attenzione maggiore è indirizzata alla prova degli attori che sono i migliori e più applauditi della scena austriaca. Nella compagnia figurano infatti i componenti della celebre famiglia Thimig con il vecchio Hugo nella parte di Pantalone, Hermann in Truffaldino e Herlene in Smeraldina, affiancati da Paul Hartmann (Florindo), Sybille Binder (Beatrice), Gustav Waldau (Dottore), Dagny Servaes (Rosaura), Walter Janssen (Silvio). La loro esibizione, corale e raffinata, «avrebbe potuto essere stata uno spettacolo di carnevale su un palcoscenico italiano di maschere: mai Truffaldino, il Dottore, Pantalone, Brighella avrebbero potuto scherzare così tanto. Ciò che Reinhardt ha fatto, sono […] illustrazioni in stile passato di un testo passato», commenta l’autorevole Oskar Marius Fontana (“Neues 6 Uhr”, 3 aprile 1924).

Hermann Thimig in Truffaldino

Sicuro di aver realizzato il suo migliore spettacolo comico, Reinhardt lo ripropone in altre situazioni altrettanto solenni e significative come al Festival di Salisburgo da lui stesso fondato nel 1920 con Hofmannsthal e Richard Strauss. Il titolo goldoniano figura nell’edizione del 1931 alla quale partecipa come spettatore anche l’autorevole Silvio d’Amico. La sua analisi affronta il rapporto dell’edizione tedesca con la tradizione italiana della Commedia dell’Arte e la riforma goldoniana. «Goldoni qui c’entra poco. Ma lo spettacolo è stupendo». A sua detta il regista viennese si è addentrato nel mondo dell’Arte adottando il Servitore come pretesto. Il suo vero obiettivo è cogliere il valore universale delle maschere:

La Commedia dell’Arte per Reinhardt è creazione italiana, ma di valore universale. Vestiti con costumi d’un Settecento discreto e convenzionale, agitandosi sopra piccoli fondali veneziani (i quali vengon rimossi, nei rapidi intervalli, al cospetto del pubblico, mentre si vede un attore che rientra in camerino o un altro che, come alle volte fa Petrolini, dà un’occhiata al copione del suggeritore), i suoi personaggi sono stilizzazioni di una comicità eterna. Col cappello inchiodato sul capo come marionette, ma senza parrucche né maschere ché il loro volto è del tempo nostro, essi vogliono tuttavia esser maschere autentiche, maschere di tutt’i tempi. La loro recitazione è fantasiosa e grottesca, caricata e musicale, veemente e premeditatissima, spregiudicata e d’infinita eleganza. (D’AMICO 1931)

Di Thimig-Truffaldino, che come tutti gli altri personaggi recita senza maschera, colpiscono l’intensità espressiva e le virtù mimico-acrobatiche che si presentano non leziose e accademiche ma di genuina popolarità soprattutto quando subentra il tema della fame che domina la celebre scena del secondo atto, così descritta da d’Amico:

Nello scendere del pranzo il ritmo, accelerandosi d’episodio in episodio, arriva a una sorta di furore orgiastico, che chiama via via a contributo le risorse di tutte le tecniche, compresa la prestidigitazione e l’acrobazia. La zuppiera con la minestra impregna l’aria d’effluvi; la crema gl’inguanta le mani; dalla gran passione, egli schiaffeggia i budini, li lascia andare e li riacchiappa, come amanti ritrose. A un certo punto Truffaldino-Arlecchino s’ingigantisce e diventa universale, non è più un goloso, è la gola di tutt’il mondo: cibo e bevande, dal Chianti alla pastasciutta, gli arrivano da tutta la ben portante Italia, e da tutte le età; finché la nuvola degl’inverosimili condimenti, che egli rovescia e profonde sulle montagne degli spaghetti, lo avvolge, salendo, d’una nebbia dorata, nella cui felicità (chiusa del second’atto) l’eroe sparisce». (ibidem)

Nella primavera del 1934 lo stesso Servitore è in tournée nei principali teatri italiani. D’Amico, accomodato nella platea del Teatro Quirino di Roma, scrive di «successo trionfale» malgrado gli ostacoli della lingua e considera lo spettacolo «uno dei più belli a cui ci sia mai accaduto d’assistere». Alle riflessioni maturate a Salisburgo, aggiunge che:

ne ha profittato per darci, non lo spirito del maggior Goldoni e dei suoi capolavori, alla cui categoria questo grazioso Servo di due padroni evidentemente non appartiene, ma una specie di quintessenza della pregoldoniana Commedia dell’Arte. Una Commedia dell’Arte veduta e ricostruita da un Tedesco del secolo nostro, esperto di conoscenze libresche e di bravure coreografiche; una Commedia dell’Arte senza più né grosse improvvisazioni né sconcertanti sconcezze, ma stilizzata entro la parodistica cornice di scenarietti a paravento, che si montano e smontano in presenza del pubblico, e davanti ai quali la recitazione degli attori, alcuni buoni, altri mirabili, e uno grande, s’intreccia a musichette settecentesche e s’illeggiadrisce, negl’intermezzi, di deliziosi balletti. C’è fra cotesti scenarietti un “esterno”, uno sfondo che rappresenta Venezia ma un po’ anche diremmo Napoli, ossia tutta l’Italia d’una certa convenzione cara agli stranieri; a quel modo che il protagonista della vicenda, Truffaldino, è non soltanto il legittimo figlio d’Arlecchino, ma il rappresentante di tutte le più popolari maschere italiane, e nell’orgia del second’atto finisce col mangiare napoletanamente anche con le mani le montagne di maccheroni, come Pulcinella». (D’AMICO 1932)

Anche Anton Giulio Bragaglia, regista e critico teatrale spesso in polemica con Reinhardt e il teatro tedesco, considera l’allestimento:

una bellissima creazione teatrale […]. Non è un’interpretazione di Goldoni, ma una ricreazione su canovaccio goldoniano […], una creazione moderna su tema settecentesco e su soggetto teatrale italiano. Insomma una sintesi teatrale della tradizione italiana, fatta con sensi moderni e perfino con elementi contemporanei (BRAGAGLIA 1932).

La supremazia del registro gestuale rispetto al dialogato, dell’elemento coreografico rispetto alla recitazione costituisce un percorso interpretativo ricorrente sui palcoscenici italiani tra le due guerre, avvalorato dai cultori del cosiddetto “teatro puro”, emanazione della spontaneità della cultura popolare di cui la Commedia dell’Arte è intesa come genuina manifestazione.

Goldoni e Strehler

Nel 1947 si apre il ciclo delle dieci edizioni firmate da Strehler fino al 1997 e delle tre successive. A partire dalla prima versione il titolo, come si diceva all’inizio, si presenta parzialmente modificato, diventa Arlecchino servitore di due padroni. Il recupero della maschera simbolo dell’Arte significa, per il regista e cofondatore del Piccolo Teatro di Milano, come dichiara in una nota di qualche anno successiva allo spettacolo:

il ritrovamento di alcuni valori eterni della poesia e al tempo stesso di un messaggio di fiducia per gli uomini, attraverso la liberazione del riso più aperto, del gioco più puro. Era il teatro che, con i suoi attori, ritornava (o tentava di ritornare) alle fonti primitive di un avvenimento scenico dimenticato, attraverso le vicende della storia, e indicava un cammino di semplicità, di amore e di solidarietà ai pubblici contemporanei. Era il teatro che riscopriva (se così si può dire) una sua epoca gloriosa: la Commedia dell’Arte, non più come un fatto intellettuale, ma come un esercizio di vita presente, operante» (STREHLER 1962, p. 63)

Come a Reinhardt anche a Strehler, più che i contenuti goldoniani, interessa il recupero dell’arte dell’attore, il suo variegato registro espressivo del gesto e del movimento corporale. Come Reinhardt si era dotato di un grande attore (Hermann Thimig), analogamente il regista del Piccolo di Milano si affida al talento di Marcello Moretti che disegna un Arlecchino destinato a segnare il teatro del secondo Novecento. Strehler guida gli attori alla ricerca delle tecniche dimenticate dei comici dell’Arte, per rifondare il legame dello spettacolo italiano contemporaneo con le proprie radici storiche e culturali. A questa edizione impostata, come quella di Reinhardt, sulla priorità del gioco scenico, approfondito anche in quella del 1952, segue nel 1956 una revisione della regia indirizzata verso un approccio più realistico e storicizzato che Strehler aveva maturato dal contatto con il teatro di Brecht. L’azione si svolge in una settecentesca piazza italiana con rovine di monumenti grandiosi dove si posiziona una pedana sulla quale gli attori recitano la commedia, ad alludere alle grandezze italiane ora guardate con un pizzico di nostalgia e di frustrazione del presente. Nel 1963, in occasione della quarta ripresa, Ferruccio Soleri subentra a Moretti nel ruolo di Arlecchino. È un segno di continuità (entrambi provengono dall’Accademia d’Arte Drammatica) accompagnata da una più marcata vitalità, atletica e acrobatica, del nuovo interprete che non si risparmia in salti e piroette, riuscendo in questo modo a imprimere allo spettacolo un  accentuato gioioso divertimento.

 Ferruccio Soleri in Arlecchino

Le oltre duemila repliche dell’Arlecchino strehleriano in tutto il mondo, oltre a produrre una sorta di identificazione della commedia goldoniana con i progetti del Piccolo Teatro, da un lato hanno rinnovato il teatro comico italiano e restituito all’attore grande dignità scenica; dall’altro lato le lunghe tournées della compagnia milanese hanno sempre ottenuto notevoli consensi di pubblico e di critica. E si ritorna al punto di partenza, quando il Truffaldino Antonio Sacco strappava applausi lontano da Venezia, oltre le Alpi, seminando idee e diffondendo modelli poi assunti, come si è visto, da attori e registi, a dimostrazione che la storia spettacolare dell’Arlecchino goldoniano è soprattutto europea.

Bibliografia

BOSISIO PAOLO (a cura di) (2007), Tra Goldoni e Strehler: Arlecchino e la Commedia dell’Arte, a cura di Paolo Bosisio, premessa di Guido Davico Bonino, Bulzoni, Roma

BRAGAGLIA ANTON GIULIO (1932), “Il servo di due padroni” di Goldoni e Reinhardt al Teatro Quirino , in “L’Impero”, 29 aprile

D’AMICO SILVIO (1931), Incontro con le maschere, in “La Tribuna. L’Idea Nazionale”, 9 settembre

D’AMICO SILVIO (1932), Reinhardt al Quirino. Commedia dell’Arte, in “La Tribuna. L’Idea Nazionale”, 29 aprile

FERRONE SIRO (2011), La vita e il teatro di Carlo Goldoni, Marsilio, Venezia

FUHRICH EDDA e PROSSNITZ GISELLA (a cura di) (1970), Max Reinhardt und die Welt der Commedia dell’Arte, O. Müller Verlag, Salisburgo

GOLDONI CARLO (2011), Il servitore di due padroni, a cura di Valentina Gallo, introduzione di Siro Ferrone, Marsilio, Venezia

HOFMANNSTHAL HUGO VON (1924), Szenischer Prolog zur Neueröffnung des Theaters in der Iosefstadt, in “Wiener Zeitung”, 19 aprile 1924, pp. 1-3 (ora in Gesammelte Werke, II, Reden und Aufsätze (1914-1924), a cura di Bernd Schoell e Rudolf Hirsch, Fischer Verlag, Berlino 1980, pp. 231-320)

MUSIL ROBERT (1965), Theater. Kritisches und Theoretisches, Rowohlt Verlag, Hamburg

REINHARDT MAX (1902), Il teatro che io ho in mente, in FAZIO M., Lo specchio il gioco e l’estasi. La regia teatrale in Germania dai Meininger a Jessner (1874-1933) , Bulzoni, Roma 2003, pp. 155-159

STREHLER GIORGIO (1962), Un segno di continuità, in Quaderni del Piccolo Teatro. 4. Marcello Moretti, a cura di Paolo Grassi, Giorgio Strehler, Ruggero Jacobbi, pp. 62-63