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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 01

 settembre 2010

Saggi e rassegne

Mattia Cavagna

La figura femminile nel Lai d’Aristote di Henri de Valenciennes (1230 circa)

What I want is a good, strong monarchy with a tasteful and decent king who as some knowledge of theology and geometry and to cultivate a rich inner life.

John Kennedy Toole, A Confederacy of Dunces, 1981

È soprattutto nell’ultimo decennio che questo divertente poemetto francese di 581 versi ha fatto parlare di sé ed è stato protagonista di una vicenda bibliografica assai curiosa. Prima di concentrare lo sguardo sulla bella fanciulla che si trova al centro delle nostre attese, mi vedo quindi costretto a renderne conto brevemente, al fine di poterla poi scrutare senza remore (o quasi).

Fin dal XVIII secolo, il poemetto è stato attribuito allo scrittore di origine normanna Henri d’Andeli, la cui attività è strettamente legata all’ambiente universitario parigino della prima metà del XIII secolo. Henri d’Andeli è l’autore accertato di tre poemetti d’attualità, dove il suo nome e cognome – o meglio il nome di provenienza – sono inseriti in una posizione strategica, ovvero alla rima, secondo una pratica molto diffusa tra gli autori medievali. Si tratta della Bataille des Vins (1223-23), ispirata alle canzoni da taverna dei Carmina Burana, la Bataille des Sept Arts (1230 ca), modellata sulla Psychomachia di Prudenzio, e il Dit du Chancelier Philippe (1237), elogio funebre di Philippe le Chancellier, grande figura di poeta, teologo e predicatore anch’esso legato al milieu intellettuale parigino. Nel Lai d’Aristote troviamo invece soltanto la menzione Henri al verso 545: Henri cest aventure fine, “Henri termina questa storia”. L’attribuzione del Lai a Henri d’Andeli si basa quindi su indizi esterni quali la comunanza di ispirazione, il “tono”, la lingua, la versificazione.

Rispettando quindi una tradizione secolare, nel 2003 Alain Corbellari riuniva in una bella edizione critica i quattro poemetti attribuiti all’autore, non senza sottolineare la fragilità di questa attribuzione che però non si sentiva in grado di confutare1. La sua edizione veniva a sostituire la precedente, realizzata da Maurice Delbouille nel 19512. Rispetto al suo predecessore, Corbellari utilizza un manoscritto supplementare che era stato scoperto nel frattempo (Saint-Omer, Bibliothèque Municipale, 68, del XIV secolo), portando così a sei i testimoni conosciuti di questo poemetto3. Inutile dire che i sei testimoni presentano un gran numero di varianti e hanno un numero di versi notevolmente variabile, a riprova del fatto che la mouvance del testo medievale è particolarmente sensibile nei testi brevi, la cui circolazione e diffusione era largamente affidata al veicolo dell’oralità. Tra i suoi vari pregi, il volume di Corbellari propone in appendice una presentazione sinottica dei sei testimoni, in trascrizione diplomatica.

Nel 2005 Marco Infurna riprendeva il testo di Corbellari per proporne un’accurata e utilissima traduzione italiana, considerando “tutto sommato infondata l’identificazione dell’Henri del Lai con Henri d’Andeli ”4. Forse per questioni di strategie editoriali, la copertina della sua edizione indica comunque Henri d’Andeli come l’autore del testo.

Nel frattempo, Alain Corbellari, con la collaborazione del suo collega François Zufferey, aveva ripreso in mano il dossier trovando infine quegli argomenti – letterari e linguistici – che gli hanno finalmente permesso di confutare l’attribuzione a Henri d’Andeli. Per quanto sintetica, una presentazione di questi argomenti non sarebbe appropriata in questa sede; mi limito quindi a rinviare ai loro ottimi studi pubblicati sulla Revue de linguistique romane nel 20045. Nella stessa rivista, François Zufferey ha quindi proposto una nuova attribuzione a Henri de Valenciennes, autore di vari trattati morali e soprattutto di una Vita di San Giovanni l’Evangelista, che presenta diverse affinità stilistiche e linguistiche con il Lai d’Aristote6. Gli argomenti di Zufferey sono assai solidi e convincenti e la nuova attribuzione può essere considerata come definitiva.

Accanto al problema dell’attribuzione, sussiste quello della classificazione (in altre parole: le questioni dell’autore e del genere letterario, ovvero le principali ossessioni del critico moderno che si accanisce sui testi in lingua d’oïl). La scelta di intitolare il poemetto Lai si è imposta fin dalle edizioni del XIX secolo7 e riposa sulle lezioni dei manoscritti A, C ed E, le cui rubriche iniziali riportano appunto la dicitura Lay d’Aristote. La concordanza tra A-C ed E, appartenenti ai due rami della tradizione, prova che si tratta effettivamente del titolo che l’autore aveva dato alla sua opera. Questa scelta rivela forse la volontà di collocare il poemetto nella tradizione cortese inaugurata da Marie de France con la sua celebre raccolta di dodici poemetti narrativi, incentrati su temi amorosi. Vedremo infatti che Amore – che porta la maiuscola in quanto personificazione ma non in quanto prosopopea – è forse il vero protagonista del Lai. Il termine deriva dall’antico irlandese laid che significa “canzone” (cf. il tedesco Lied) e rimanda probabilmente alla natura lirica degli antichi componimenti bretoni, che hanno ispirato i poeti cortesi come Marie.

A due riprese, all’interno del testo, l’autore designa il suo poemetto col termine dit (versi 519 e 564), termine che rinvia da un lato alla sua funzione didascalica e dall’altra a una precisa tecnica letteraria. In un noto studio, Jacqueline Cerquiglini spiega che il dit è caratterizzato generalmente dalla discontinuità, che interessa la voce narrante e i modi di scrittura8. Il nostro testo rappresenta infatti uno dei primissimi esempi di inserzione lirica nella letteratura francese delle origini: a quattro riprese, la trama dell’ottosillabo a rima baciata è infatti interrotta dall’inserzione di forme strofiche. Torneremo su questo argomento per lo studio della nostra eroina femminile, che utilizza appunto queste inserzioni liriche come strumento di seduzione.

Malgrado le due appellazioni lai e dit, il poemetto è stato più volte inserito – e in primo luogo da Joseph Bédier9 – nel corpus dei fabliaux, genere letterario caratterizzato dalla comicità, spesso assai spinta e scabrosa, ma soprattutto da una presenza femminile astuta e spregiudicata che sembra tenere le fila dell’intrigo.

L’intrigo

Come in molti (altri) fabliaux, e come la maggior parte dei racconti brevi in lingua d’oïl, il Lai sembra rispettare le unità di luogo, di tempo e di azione. I personaggi sono tre e costituiscono una variante, assai originale, del tradizionale triangolo amoroso in cui, come dicevo, la donna è il vero arbitro dell’azione.

Alessandro ha appena conquistato l’India e vi si trattiene più a lungo del previsto. La ragione di questo prolungato soggiorno? Amore lo tiene legato a una bella fanciulla indiana che in questo poemetto resta nell’anonimato (anche se nei manoscritti E e F viene ribattezzata Blancheflor), ma che io chiamerò comunque Fillide in omaggio alla rivista e ai suoi fondatori. A causa di questo amore, Alessandro comincia a trascurare i suoi doveri di sovrano – organizzare feste e tornei, fare onore alla cavalleria – e di condottiero, provocando il malcontento dei suoi sudditi. È per questo che il suo precettore, Aristotele, lo redarguisce aspramente intimandogli di troncare la relazione. Alessandro accetta a malincuore, ma dopo alcuni giorni di solitudine, cede al suo impulso e torna dalla sua innamorata rivelandole il motivo della sua assenza.

È a questo punto che la donna prende in mano la situazione e decide di vendicarsi del vecchio filosofo. Il mattino dopo, scende nel giardino sottostante la torre dove dimora Aristotele. Vestita solo di una camicia, comincia a passeggiare intonando alcune canzoni d’amore. Sensibile al canto, il filosofo si affaccia alla finestra e cade ben presto nella rete di seduzione intessuta dalla fanciulla, fintamente ignara del suo sguardo. In preda a una pulsione incontrollabile, le va incontro e la prega di soddisfare il suo desiderio, promettendole di far cessare le accuse e le ostilità nei suoi confronti. Fingendosi pronta a cedere alle sue voglie, la fanciulla lo convince a mettersi a quattro zampe, a farsi sellare e a gattonare (chatoner, in antico francese, termine che il francese moderno ha sostituito col prosaico marcher à quatre pattes) mentre lei lo cavalca come un ronzino.

Alessandro, che naturalmente ha assistito a tutta la scena, si manifesta ed esprime al maestro il suo disappunto. Quest’ultimo reagisce prontamente sottolineando il valore esemplare e la portata didattica del suo gesto: se Amore riesce a piegare un vecchio uomo di scienza, tanto più sarà insidioso per un uomo d’arme nel fiore della giovinezza. Questa risposta arguta suscita il riso del sovrano: un riso liberatorio che ristabilisce l’equilibrio all’interno del terzetto.

La tradizione

L’origine orientale dell’intrigo è nota fin dal XIX secolo: esistono diversi poemi di origine persiana e indiana che mettono in scena un consigliere, un ministro o un visir cavalcato e umiliato da una giovane donna (di solito una giovane e appetitosa schiava del re).

Come spesso accade e com’è stato più volte dimostrato, il medioevo occidentale ha un’incredibile capacità di assimilare e di attualizzare alcuni schemi narrativi le cui origini si perdono nel tempo e nello spazio, conferendo ai vari attori della trama delle identità ad hoc, in base al contesto della loro nuova ricezione10.

Il Lai d’Aristote è insomma il frutto di una sintesi tra due tradizioni: quella orientale del ministro ridicolizzato da una donna e quella occidentale, in cui Alessandro Magno è stato lanciato alla ribalta da uno dei primissimi romanzi in lingua d’oïl, il Roman d’Alexandre di Alexandre de Paris (1180 ca), dove è affiancato da Aristotele, suo maestro e consigliere. Alain Corbellari insiste sul fatto che nella tradizione alessandrina occidentale, Aristotele assume le caratteristiche del consigliere per eccellenza, dalle virtù quasi soprannaturali, a tal punto che il suo ruolo può essere assimilato a quello di Merlino nella tradizione Bretone. Insomma, Aristotele sta ad Alessandro come Merlino sta a re Artù11.

Sarebbe comunque errato attribuire questa fusione delle due tradizioni a Henri de Valenciennes. La fabula di Aristotele cavalcato da Fillide circolava già in Occidente e la sua non è che una delle tante versioni, anche se certamente una delle più riuscite.

Tra l’inizio del XIII e la fine del XV secolo, contiamo ben quattordici versioni, latine e vernacolari, della leggenda12. Cinque versioni latine sono degli exempla, inseriti nelle raccolte di Jacques de Vitry (1229-1240), di Etienne de Bourbon (1250 – 1261), di Jean Gobi (1323-1330), di Jean Herolt (1440) e in una raccolta anonima composta nel sud della Francia nella seconda metà del XIII. Il carattere misogino della versione esemplare è particolarmente evidente nella Scala Coeli di Jean Gobi e nel Promptuarium Exemplorum di Jean Herolt dove il racconto è situato rispettivamente alle rubriche “foemina” e “mulier”. Oltre al Lai d’Aristote, esiste un’altra versione francese inserita da Pierre de Paris nella sua traduzione commentata del De consolatione philosophiae di Boezio (prima del 1309).

Esistono inoltre varie versioni in lingua germanica: due poemetti medioalto tedeschi di cui il più antico è intitolato Aristoteles und Fillis (fine XIII), la versione inserita da Ulrich von Eschenbach nella sua Alexandreis (1283-1287), quella di Heinz Sentlinger nella Reimchronik (1394) e una versione fiamminga in prosa di datazione incerta, contenuta in una biografia di Alessandro Magno.

In ambito italiano, Marco Infurna segnala una novella di Giovanni Sercambi e una delle novelle Porretane di Giovanni Sabadino degli Arienti, ma in quest’ultima i protagonisti non sono identificati13.

L’estrange fame (die Walsche)

Ma veniamo infine all’analisi della nostra eroina. La maggior parte dei critici si sono concentrati sulle due figure maschili di Aristotele e Alessandro, rappresentanti della clergie e della chevalerie, mentre la fanciulla rimane talvolta paradossalmente nell’ombra.

In effetti, nella sua prima apparizione, questa è presentata come un semplice strumento nelle mani di Amore, uno strumento, appunto che permette all’autore di provare e proclamare l’onnipotenza dell’eros:

Amors qui tot prant et enbrace
Et tot aërt et tot enlace
L’avoit ja si en braies mis
Qu’il ert devenuz fins amis,
Dont il ne se repentoit mie,
Quar il avoit trouvee amie
Si bele com a souhaidier.
Amore che tutto prende e abbraccia
e tutto afferra e allaccia
l’aveva a tal punto irretito
da trasformarlo in fine amante,
cosa che non gli dispiaceva affatto,
poiché l’amata era così bella
che non si poteva desiderare di più.

(vv. 97-103)

Alessandro è interamente soggiogato dall’Amore grazie al quale è diventato fins amis, espressione chiave che designa il “fine amante” ovvero l’“amante perfetto” e rinvia immediatamente al contesto della lirica cortese e della fin’amor, quella produzione, appunto, dove la donna amata è interamente sublimata e idealizzata a discapito di una qualsivoglia consistenza fisica.

In questa prima menzione, Fillide è semplicemente qualificata “bella”. Ben presto, scopriamo che anche la fanciulla è avvinta ai lacci dell’amore e ricambia i sentimenti del sovrano:

… est si partie la luite
Que ge n’en sai le meillor prandre
… la battaglia appare così equilibrata
che non so chi ne possa avere la meglio

(vv. 130-131)

Come ho ricordato, Alessandro si trova ben presto in una situazione di stallo, per così dire, e abbandona la sua attività cavalleresca di condottiero e conquistatore, a profitto delle gioie di Venere. La gente mormora a corte finché Aristotele lo apostrofa con parole taglienti:

Dist lui: “Mar avez deguerpis
Toz les barons de vo roiame
Por l’amor d’une estrange fame!”
Gli dice allora: “A torto avete abbandonato
per amore di una donna straniera
tutti i nobili del vostro regno”.

(vv. 146-148)

In tre versi, Aristotele formula un’accusa che rinvia a un tema centrale nella letteratura cavalleresca delle origini e che si trova al centro dei due più bei romanzi di Chrétien de Troyes: il difficile equilibrio tra la vita di coppia e l’attività cavalleresca14. Si tratta di passaggio filologicamente interessante, in quanto la tradizione manoscritta presenta alcune varianti al verso 148:

Por l’amor d’une estrange fame  AB

Por une seule estrange fame  C

Por l’amor d’une feme baude  D

Por l’amor d’une seule dame  E

Pour l’amour d’une seule feme F

Nel manoscritto D, il termine baude, di etimologia germanica [FEW XV-1, 29b : *bald], significa qui « sfrontata », ma si tratta chiaramente di una variante erronea poiché annienta la rima. Maurice Delbouille, nella sua edizione, conserva la lezione di E (d’une seule fame). Alain Corbellari invece corregge il suo manoscritto di base (D) e accoglie la lezione di A e B. Anche se la sua scelta non è oggetto di discussione, mi sembra corretta. Credo che si debba riconoscere qui il motivo, di origine biblica, del sovrano sedotto da una donna straniera. La coppia archetipica è quella di Mosé e sua moglie Sephora, la donna madianita o etiope, a seconda delle fonti (Esodo II, 21 / Numeri XII, 1), laddove il termine “etiope”, si riferisce probabilmente, come nel medioevo, alla sua pelle nera, marchio della sua estrangeté. In effetti, durante la peregrinazione nel deserto, Maria e Aronne rinfacciano a Mosé di aver sposato una donna straniera (Numeri XII, 1) e vengono in seguito redarguiti dal Signore.

In francese medievale, l’aggettivo estrange ha una connotazione fortemente negativa e si inserisce in quel campo semantico del diverso (tornerò qui sotto sull’aggettivo divers), dell’altro, di ciò che si scosta dalla norma e che è quindi visto con sospetto. La figura di Fillide si avvicina così, in maniera implicita, a quella della donna straniera ed esotica per eccellenza, ovvero la ninfa, figura femminile a tratti inquietante e potenzialmente nociva, spesso connotata da un appetito sessuale smisurato (pensiamo all’aggettivo “ninfomane”).

Lo stesso aggettivo ritorna più tardi, sempre nella bocca di Aristotele, nell’espressione meschine estrange (v. 173), dove il sostantivo meschine, di origine araba [< miskin], ha ugualmente una connotazione peggiorativa, spesso legata a una bassa condizione sociale, e rinforza l’idea di un’incompatibilità tra la nobiltà del sovrano e la condizione subalterna di una fanciulla straniera.

Noteremo che nei suoi rimproveri, Aristotele assimila Alessandro in preda all’amore a una bestia a quattro zampe, anticipando così – notiamo la sottile ironia dell’autore – la sua propria buffa sorte:

Je croi que vos ne veez goute,
Rois, fait Aristotes son mastre,
Or vos porra on mener piastre
Ausi com une beste en pré
Sire, continua il maestro,
credo che siate totalmente cieco;
presto vi si potrà far pascolare
come un animale nel prato

(vv. 168-171)

Il ritratto fisico, plus cler de cristal

Davanti alle argomentazioni del maestro, Alessandro decide di evitare il contatto con la fanciulla ed è questa distanza imposta che le conferisce una fisicità. Il suo ritratto viene quindi proposto attraverso il ricordo dell’innamorato, e viene situato, ancora una volta, sotto la supervisione di Amore :

… Amors li ramenbre et ravoie
Son cler vis, sa bele façon
Ou il n’a nule retraçon
De vilenie ne de mal,
Front poli, plus cler de cristal,
Beau cors, bele bouche, blont chief.
Amore gli fa di continuo rivedere
il luminoso viso dell’amata,
l’elegante portamento
senza traccia di villania o altra pecca,
la fronte liscia, più chiara del cristallo,
il bel corpo, la bella bocca, i biondi capelli.

(vv. 196-201)

Il lettore avvertito non sarà sorpreso nel constatare che il ritratto della bella fanciulla indiana corrisponde a quello di tutte le eroine saracene che accompagnano gli eroi delle canzoni di gesta: il volto luminoso, il portamento elegante, il corpo ben fatto e naturalmente la capigliatura bionda e la carnagione chiara, insomma, un’ennesima attualizzazione di Isotta, la femme fatale per eccellenza.

Engien et sens VS sens et clergie

Dopo alcuni giorni trascorsi in preda al tormento e alla nostalgia, Alessandro torna dalla sua amata e le rivela la ragione della sua assenza: è stato costretto ad abbandonare la sua volenté de fin ami (il desiderio del fine amante) al fine di evitare despit et honte (disprezzo e vergogna). A questo punto la fanciulla assume finalmente uno spessore narrativo, prende la parola e assurge al ruolo di motore dell’azione. È proprio lei che ordisce il piano per vendicarsi del maestro, annunciando ad Alessandro che riuscirà a ridicolizzarlo e rivendicando le qualità di engien et sens (“astuzia e senno”, v. 242). Il termine engien, la cui forma comune è engin, merita una nota. Esito del latino ingenium, è spesso associato in antico francese al campo semantico dell’inganno, del tradimento, della menzogna e si trova sovente in coppia sinonimica con art, l’arte dell’inganno, appunto. L’engin fa parte di quelle qualità proprie alle protagoniste dei fabliaux (la questione del genere letterario non è poi così oziosa, perché ci permette di sottolineare alcune peculiarità della nostra eroina). Mentre espone ad Alessando il suo piano di vendetta, Fillide annuncia che il sapere del filosofo non gli varrà granché:

Ne ja vers moi ne li vaudra
Dïaletique ne gramaire
Dialettica e grammatica
gli gioveranno ben poco contro di me

(vv. 250-251)

Il tema delle arti liberali, lo ricordiamo, è al centro della Bataille des sept arts di Henri d’Andeli. Ma non mi sembra il caso qui di rivangare la questione dell’attribuzione. Fillide assicura Alessandro che, con l’aiuto di Natura, riuscirà a privarlo di tutto il suo senno e del suo sapere:

Si verroiz Nature apointier
Au maistre por lui despointier
De son sens et de sa clergie.
E vedrete Natura attaccare
il maestro per privarlo
di tutto il suo senno e il suo sapere.

(vv. 257-259)

Ritroviamo il termine sens, qui in binomio con clergie, inteso come sapere acquisito negli studi, virtù tutta maschile, che si oppone quindi al sens della fanciulla (v. 242), inteso come talento innato, disposizione naturale e astuzia squisitamente femminile. Notiamo anche che la fanciulla chiama in causa Nature, intesa qui come matrice dell’amore, che si oppone tradizionalmente alla norreture, l’educazione, e quindi nella fattispecie alla Science acquisita attraverso le arti liberali.

La seduzione I. – Potenza della natura: la fanciulla discinta e il locus amoenus

La strategia di seduzione viene messa in atto il mattino dopo. La fanciulla si alza all’alba spontaneamente e senza alcuna fatica, car li levers pas ne li grieve (“poiché l’alzarsi non le pesa”, v. 280). Questo dettaglio, che può sembrare superfluo, serve a mio avviso per sottolineare la gioventù di Fillide: lo ritroviamo infatti in Chrétien de Troyes, nel ritratto del giovane eroe per eccellenza, Perceval, che all’inizio del romanzo si alza all’alba per andare a caccia. Anche in questo caso, l’autore precisa che alzarsi all’alba ne li fu paine “non gli pesò” (v. 74).

La fanciulla scende quindi nel giardino indossando solo la camicia da notte. Ovviamente è un mattino di primavera (il termine esté, al v. 284, designa in antico francese “la bella stagione”, quindi indica più spesso la primavera che l’estate) e il giardino è nel pieno del suo rigoglio. Inutile ricordare che il motivo primaverile della reverdie è praticamente onnipresente nella poesia cortese delle origini.

Il ritratto fisico della fanciulla si sovrappone, letteralmente, a quello del giardino ed entrambi contribuiscono a creare un clima di erotismo diffuso e irresistibile, sotto gli auspici di Natura:

Bien li ot Nature floré
Son cler vis de lis et de rose
Natura le aveva delicatamente colorito
il luminoso viso di giglio e di rosa

(vv. 288-290)

Questa bella sinestesia (letteralmente: “Natura le ha fiorito il viso luminoso di giglio e di rosa”) esprime tutta la libertà e la forza poetica del francese medievale. Fillide l’aveva annunciato ad Alessandro: Natura è una valida alleata e il suo ruolo sarà determinante nel processo di seduzione, ma per la verità anche lei ci mette del suo, scoprendo tutto ciò che si può scoprire del suo giovane corpo:

Parmi le vergier se deporte
Cele qui Nature avoit painte;
Nuz piez, desloiee, deschainte,
S’en vait escorçant son bliaut,
Chantant basset, non mie halt…
Colei che Natura aveva dipinto
passeggia per il giardino
a piedi nudi e capo scoperto;
poi, sollevandosi la veste slacciata,
comincia ad intonare a bassa voce…

(vv. 298-302)

Il verbo pronominale se deporter significa generalmente “divertirsi”, “svagarsi”15. Attraverso una successione di attributi, l’autore insiste sul fatto che Fillide passeggia per il giardino lasciando poco spazio alla fantasia del suo pubblico. I participi desloiee e deschainte si riferiscono rispettivamente ai suoi capelli – slegati, sciolti (per la verità pochi versi prima, v. 295, l’autore aveva parlato di una treccia, ma poco importa) – e ai fianchi: la fanciulla non porta la cintura, il che le permette di sollevare (ercorcer, letteralmente “accorciare”, “rendere più corto”) la propria camicia da notte. Fino a che punto non è lecito domandare.

La seduzione II. – Potenza della musica: il canto di Fillide e l’inserzione lirica

I presupposti ci sono tutti, la primavera, la fanciulla discinta e il locus amoenus costituiscono una trappola cui nessuno potrebbe sfuggire e si tratta ormai di attirare la preda. Camminando per il giardino, Fillide intona quindi una canzone che mette in scena un incontro amoroso. Riprendiamo la citazione precedente, al fine di sottolineare lo stacco nella metrica:

S’en vait escorçant son bliaut,
Chantant basset, non mie halt:

“C’est la jus desoz l’olive
Or la voi venir, m’amie.
La fontaine i sort serie,
El glaiolai, desoz l’aunai
Or la voi, la voi, la voi,
La bele blonde: a li m’otroi”

poi, sollevandosi la veste slacciata,
comincia ad intonare a bassa voce:

È laggiù, sotto l’olivo,
ora la vedo, arriva la mia amica.
La fontana zampilla dolcemente
fra i gladioli nel boschetto di ontani
ora la vedo, la vedo, la vedo,
la bella bionda: a lei mi do

(vv. 301-308)

Il canto della fanciulla, che occupa quasi esattamente il centro del poemetto, costituisce un punto di rottura, tanto a livello narrativo – in quanto, come vedremo, permette di riunire il terzetto dando il via allo spettacolo della seduzione – che a livello compositivo ed ermeneutico. La trama dell’ottosillabo a rima baciata16 infatti viene interrotta per lasciare il posto a una forma strofica.

Si tratta di un rondeau di tipo arcaico, chiamato anche chanson de carole, un genere di ispirazione popolare molto in voga nel XIII secolo. La canzone si compone di due parti, di tre versi ciascuna, legati dalla stessa assonanza (olive : amie : serie) o dalla stessa rima (aunai : voi : otroi [pron: auné : vué : otrué]). Ognuna delle due parti comprende uno o più versi che costituivano l’addimentum, cantato dalla voce solista del conduttore della danza, e un ritornello, che era eseguito in coro da tutti gli altri partecipanti. In questa canzone il primo ritornello (Or la voi venir, m’amie) è ripreso solo in parte nel secondo, che occupa gli ultimi due versi (Or la voi, la voi, la voi / La bele blonde: a li m’otroi).

La tecnica letteraria dell’inserzione lirica è stata inaugurata da Jean Renart, nel suo romanzo Guillaume de Dole (verso il 1212) ed è stata ripresa poi da Gerbert de Montreuil nel suo Roman de la Violette (1227-1229). Il nostro Lai costituisce quindi uno dei primissimi esempi in lingua d’oïl di questa tecnica letteraria, destinata ad avere un enorme successo nei secoli a venire.

L’efficacia del canto di Fillide non risiede solamente nella sua forma e nella sua esecuzione, di cui l’autore si fa garante, ma anche nel suo contenuto, che è perfettamente appropriato alla situazione e soprattutto allo scopo perseguito dalla fanciulla. La canzone celebra appunto un incontro amoroso in un contesto bucolico. Noteremo che i due ritornelli attirano l’attenzione sullo sguardo dell’amante – or la voi venir … or la voi, la voi la voi –, veicolo del desiderio per eccellenza, e che l’ultimo verso celebra l’abbandono alle gioie dell’amore, quando la voce poetica maschile si concede (s’octroier) alla bella fanciulla bionda. Insomma, difficile immaginare un’esca meglio congegnata.

Ma torniamo al presente dell’intrigo. L’eco del canto giunge alle orecchie di Alessandro che riconosce immediatamente la voce dell’amata e si affaccia alla finestra, ansioso di assistere alla vendetta nei confronti del maestro. Quest’ultimo è già alzato (levez est) e siede davanti ai suoi libri, ma la vista della donna che passeggia nel giardino gli impedisce di concentrarsi e ben presto il desiderio lo sovrasta. Aristotele pronuncia quindi un lungo monologo esistenziale, che Alain Corbellari ha sottilmente accostato al monologo iniziale di Faust in Goethe17, esprimendo il suo dissidio interiore e proclamando l’inutilità degli studi filosofici di fronte alla potenza di Amore. Eccone un breve estratto:

Avoi! Qu’est mes sens devenuz?
Ge sui toz vielz et toz chenuz,
Lais et noirs et pales et maigres,
Et plus en filosofie aigres
Que nus c’on saiche ne ne cuide.
Oh, dov’è finito il mio senno?
Sono vecchio e canuto,
brutto, smunto, pallido e rinsecchito,
consumato nel filosofare
più di chiunque altro al mondo.

(vv. 337-341)

Mentre Aristotele è in preda a questi pensieri tormentosi, Fillide affina le sue armi e sfoggia il suo repertorio intonando altre due canzoni, mentre è intenta a intrecciare una ghirlanda di fiori. La prima è un rondeau dalla struttura molto simile al precedente, che celebra il desiderio irrealizzato di un uomo davanti a una fanciulla che lava i panni. La seconda è la prima strofa di una canzone ben conosciuta indipendentemente dal nostro Lai, che appartiene al corpus delle chanson de toile. In questo tipo di canzone, la voce lirica è quella di una fanciulla che si trova sola – in questo caso è nel suo giardino, proprio come Fillide – e passa il tempo lavorando a maglia (da cui la dicitura chanson de toile) rimpiangendo l’assenza del suo amante.

Maurice Delbouille ha magistralmente analizzato la successione delle forme liriche inserite nel Lai18. Le prime due chansons de carole hanno un tono malizioso e leggero, perfettamente adatto per captare l’attenzione della “preda” maschile. La prima racconta l’arrivo della “bella bionda” che l’amante sta aspettando con impazienza e la seconda celebra il sentimento di desiderio prodotto dalla fanciulla che lava i panni. Con la terza lirica, Fillide cambia registro assumendo un tono più misurato e un’aria melanconica, mentre si immedesima nella fanciulla, sola nel suo giardino, che piange invocando il suo amante lontano. È la goccia che fa traboccare il vaso: Aristotele si sporge dalla finestra e la afferra per la camicia, confessando il suo sentimento e pregandola di cedere al suo desiderio.

La voce è insomma il veicolo principale della seduzione. A partire dal mito delle sirene di Ulisse, il canto femminile ottenebra la mente e fa perdere il controllo, ma anche aldilà della dimensione lirica, la voce è l’arma femminile per eccellenza, in particolare nella tradizione dei fabliaux e più tardi della novella, capace di confondere, di imbrogliare e di imbrigliare l’uomo, capovolgendo la realtà a suo piacimento19.

La potenza del canto è evidenziata ancor più nella versione della leggenda proposta da Pierre de Paris, dove non troviamo il minimo accenno all’aspetto fisico della donna (in questa versione si chiama Alcibiadis). La voce è l’unico ed esclusivo strumento di seduzione:

Si vint cele Alcibiadis au pié de la tour, et comensa à chanter à haute voys molt serie et belle et clere, come cele qui chantoit plus cler et meaus que nulle autre feme.
Et quant Aristote l’oÿ chanter, si se assit à la fenestre, et là regarda amont et aval, et ne vit nulluy que celle feme, qui si bien chantoit et seri, si fu enflambé de l’amor de cele feme, si descendi de la tor et la requist.

Alcibiade andò sotto alla torre e, poiché sapeva cantare con più bravura e meglio di qualsiasi altra donna, cominciò a cantare ad alta voce in modo molto armonioso, dolce e limpido.
Aristotele, quando la sentì cantare, si sedette vicino alla finestra e guardò in tutte le direzioni, ma non vide nessuno all’infuori di quella donna che cantava così bene. Si infiammò a tal punto d’amore per lei che scese dalla torre e le chiese di amarlo20.

In questo estratto, l’autore sottolinea la qualità della voce della fanciulla attraverso gli aggettivi haute, serie, belle et clere (l’aggettivo serie [< serescere] riferito alla voce significa “armoniosa”, “melodiosa”, mentre al paragrafo seguente è utilizzato al maschile, come avverbio, con lo stesso significato) e sulla superiorità del suo canto rispetto a quello delle altre donne. Al paragrafo seguente, insiste sul rapporto di causa ed effetto tra il canto e l’innamoramento di Aristotele attraverso la particella avverbiale si, di cui i poeti in lingua d’oïl fanno larghissimo uso. Nella prima occorrenza, la costruzione temporale sottolinea già di per sé il rapporto di conseguenza diretta tra il canto e la venuta di Aristotele alla finestra, quindi la particella si è ridondante: “quando la sentì cantare [allora] si sedette alla finestra”. Alla fine del paragrafo invece, la doppia occorrenza del si è necessaria per sottolineare il rapporto di causa e effetto tra la qualità del canto, il sussulto amoroso e l’impulso di scendere dalla torre per invocare l’amore della donna. Personalmente proporrei la traduzione seguente : “… quella donna che cantava così bene; allora fu infiammato d’amore per lei, quindi scese dalla torre e la pregò di concederle il suo amore”.

Fillide a cavallo – un molt divers afaire

Torniamo al nostro Lai. La scena della cavalcata costituisce il culmine dell’intrigo e ha avuto un’immensa popolarità nelle arti figurative – arazzi, miniature, sculture, bassorilievi in avorio – proprio per il suo fortissimo valore iconico.

Davanti alla dichiarazione di Aristotele, Fillide si mostra tutto sommato assai comprensiva, assicurandolo che non ha intenzione di biasimarlo. Passa quindi immediatamente al contrattacco ricordando che altri hanno osato biasimare il re per lo stesso sentimento, ostacolando la loro relazione. Con la sua ingannevole risposta, la fanciulla consegna ad Aristotele un argomento di persuasione: questi le promette di intercedere e di risolvere la situazione e la invita quindi a raggiungerlo nelle sue stanze, per appagare il suo desiderio. È a questo punto che Fillide formula la sua bizzarra richiesta:

Maistres, ainçois qu’a vos foli,
Fait la dame, vos covient faire
Por moi un molt divers afaire,
Se tant estes d’Amors sorpris,
Quar molt tres grant talent m’est pris
De vos un petit chevauchier
Desor cel herbe, en cel vergier.
Maestro, prima che io mi dia a voi
voi dovrete fare per me,
se davvero siete così preso da Amore,
una cosa piuttosto bizzarra:
mi è venuta una grandissima voglia
di cavalcarvi un po’
sull’erba di quel giardino.

(vv. 427-433)

Notiamo all’inizio dell’estratto il verbo folier o foloier (c’a vos foli) che tra i suoi molteplici significati assume spesso, in antico francese, una connotazione sessuale, e soprattutto l’aggettivo divers tradotto a ragione da Marco Infurna con “bizzarro”. Come anticipavo poc’anzi, a proposito dell’aggettivo estrange, la diffidenza congenita della società medievale per tutto ciò che si scosta dalla norma e dalla tradizione si riflette in maniera egregia sulla lingua, cosicché il termine divers assume una connotazione molto forte e specifica, e soprattutto ha un’autonomia semantica, in quanto l’elemento referenziale è implicito. Difficile quindi immaginare un aggettivo più adatto per esprimere qualcosa che si scosta decisamente dalla norma – un vecchio filosofo a quattro zampe, con tanto di sella, che si fa cavalcare da una fanciulla – o meglio che la capovolge completamente.

Cavalcando il filosofo, divertita e soddisfatta, Fillide intona la quarta e ultima canzone tornando al tono leggero e malizioso del rondeau. Si tratta di una canzonetta trionfante e crudele, che celebra la vittoria della seduttrice e mette in ridicolo il maitre che è stato gabbato.

L’immagine della cavalcata può essere interpretata in chiave sessuale, come una sorta di capovolgimento dei normali “rapporti di forza”. Ancora una volta, non sarà inutile dare un’occhiata alla versione francese in prosa di Pierre de Paris, in cui la metafora sessuale è suggerita dalla stessa Alcibiade:

Elle li respondi que, se il voloit chevaucher sur elle, qe il covenoit qu’elle le chevauchast avant et li meist le frayn à la bouche et la selle sur le dos.

La donna gli disse che, se egli la voleva cavalcare, prima doveva farsi cavalcare da lei facendosi mettere le briglie alla bocca e la sella sulla schiena21.

Questa versione assume a tratti dei toni assai accesi, peraltro largamente attestati nella letteratura esemplare o moralizzante: al momento in cui Aristotele acconsente a mettersi a quattro zampe, l’autore precisa che estoit eschaufé (“era eccitato”). Quando infine viene sorpreso da Alessandro, il filosofo si pente e afferma che se avesse affinato maggiormente il suo sguardo avrebbe potuto vedere l’ordure qui est dedens son cors (“la sozzura che v’è dentro il suo corpo”)22.

Come ricorda Marco Infurna, l’immagine del cavallo è spesso associata, nel contesto della predicazione medioevale, al vizio della lussuria23. La figura del sapiente regredito a una condizione bestiale doveva avere un impatto visivo molto forte, rivelando la pericolosità di questo vizio e mettendo in guardia contro le donne e le loro armi di seduzione.

Come le versioni contenute negli exempla, anche il nostro Lai termina su un messaggio di tipo didascalico. L’immagine del vecchio cavalcato ha in effetti una tale pregnanza semantica e un tale potenziale esegetico che il nostro autore interrompe addirittura la narrazione per anticipare che non mancherà di trarre la morale alla fine della favola:

Ci couvient essanple et proverbe:
Sel saurai bien a point conter.
È materia degna d’esempio e proverbio
e a tempo debito ne trarrò la morale.

(vv. 453-454)

Naturalmente, questa morale non ha nulla a che fare con l’orientamento misogino degli exempla ed è interamente volta alla celebrazione di Amore e della sua onnipotenza. Secondo Henri de Valenciennes, la forza di Amore è tale che nemmeno Aristotele può essere biasimato per aver ceduto alla sua pulsione mentre diffidava il suo discepolo dal farlo. Ha insomma agito secondo Nature droite et fine (“Natura giusta e pura”).

Il Lai si chiude su una reminescenza virgiliana, la celebre sentenza Amor omnia vincit (Bucoliche X, 69), che nell’ambito della letteratura cortese delle origini rappresenta quasi un leitmotiv:

Veritez est, et je lo di,
Qu’Amors vaint tout et tot vaincra,
Tant con li siecles durera.
Questa è la verità, e io la proclamo:
tutto vince Amore e tutto continuerà a vincere
fino a che durerà il mondo.

(579-581)

La resa di Aristotele: Cil qui est siens entiers (v. 329)

Prima di terminare, vorrei soffermarmi ancora brevemente sul passaggio in cui Aristotele accetta di piegarsi – letteralmente – alla volontà della fanciulla. Al momento di mettersi a quattro zampe, pronuncia una dichiarazione di resa incondizionata che viene sintetizzata in un discorso indiretto, nello spazio di soli due versi:

Li viellarz respont liëment
Que ce fera il volentiers,
Comme cil qui est siens entiers.
Il vegliardo le risponde lieto che,
essendo in tutto e per tutto suo,
l’accontenterà volentieri.

(437-439)

Curiosamente, nessuno dei due editori citati ha notato qui un rinvio intertestuale che mi sembra assai significativo. Il verso 439 del Lai d’Aristote riprende infatti letteralmente il quarto verso del Chevalier de la Charrette di Chrétien de Troyes:

Puis que ma dame de Chanpaigne
Vialt que romans a feire anpraigne,
Je l’anprendrai molt volentiers
Come cil qui est suens antiers
Poiché la mia signora della Champagne
vuole che cominci un romanzo,
lo farò molto volentieri
essendo in tutto e per tutto suo

(vv. 1-4)24

Per sottolineare l’identità dei due versi, riprendo qui la bella traduzione a senso proposta da Marco Infurna (“essendo in tutto e per tutto suo”). In realtà, la costruzione del verso può essere ripresa letteralmente in italiano: “come colui che è suo interamente”. Le oscillazioni nella grafia (come : comme, siens : suens, entiers : antiers), tipiche del francese medievale, è dovuta semplicemente alle abitudini grafiche dei copisti.

In questo celebre prologo, Chrétien de Troyes afferma la sua totale dedizione alla sua protettrice, Marie de Champagne (1145-1198), ma soprattutto le attribuisce l’origine della matiere (materia, argomento) e del san (senso, significato):

Matiere et san li done et livre
la contesse, et il s’antremet
de panzer, que guere n’i met
fors sa painne et s’antancïon.
La contessa fornisce l’argomento
e il significato, e lui (Chrétien)
non ci mette nient’altro
che la sua fatica e il suo sforzo.

(vv. 26-29)25

L’unicità di questo romanzo rispetto al resto della produzione di Chrétien de Troyes è stata sottolineata da molti critici. Si tratta, in effetti, dell’unico romanzo che sembra abbracciare l’ideologia della fin’amor, in quanto il suo protagonista, Lancillotto, incarna l’ideale dell’amante interamente sottomesso alla sua dama, Ginevra, per la quale va incontro a ogni tipo di umiliazione. Negli altri quattro romanzi, e in particolare in Erec et Enide e nel Chevalier au Lion, Chrétien de Troyes sembra rimettere in causa questa concezione univoca e unilaterale dell’amore, per proporne una visione molto più complessa e problematica.

Professando la propria sottomissione a Marie de Champagne, Chrétien de Troyes prende allo stesso tempo le distanze dal proprio romanzo e da un eroe che incarna un ideale a lui inviso, quello appunto dell’amore come sottomissione assoluta alla donna amata. Come Aristotele, anche Lancillotto aveva accettato, per amore di Ginevra, di umiliarsi salendo sulla carretta trainata dal nano e combattendo all’interno di un torneo in maniera squinternata, al peggio delle sue possibilità.

Se il contesto è completamente diverso, l’idea di una sottomissione assoluta, che va fino alla rinuncia ai propri ideali, è espressa nei due componimenti in modo identico. Nel Lai d’Aristote, la ripresa letterale di questo verso – come cil qui est siens entiers – ha quindi a mio avviso un significato preciso e costituisce riferimento esplicito e perfettamente riconoscibile dal pubblico del tempo a uno dei romanzi più celebri dell’epoca.

Conclusione

Questa rilettura del poemetto centrata sulla figura di Fillide, mi invita a confermare la tesi di Bédier, peraltro condivisa oggi da tanti critici, e a iscrivere il nostro poemetto nel rango dei fabliaux. Se da un lato la fanciulla ha poco a che spartire con le comari del rione, protagoniste degli intrighi spesso un po’ triviali di queste divertenti storielle, nella sua strategia di seduzione mostra di avere poco senso del pudore. Ma l’argomento decisivo è costituito, a mio avviso, dal ruolo centrale giocato della voce, intesa sia come strumento del canto, quando Fillide attira a sé la sua preda come una sirena, sia come parola discorsiva, fallace e seducente, che le consente di spingere il filosofo a un’umiliante cavalcata a quattro zampe.

Detto questo, pur riconoscendo la forza poetica e la coerenza del messaggio proposto da Henri de Valenciennes, personalmente mi schiero accanto agli autori delle versioni latine e resto convinto che di Fillide si debba diffidare.

Mattia Cavagna
Université Catholique de Louvain

Note

1 Alain Corbellari (ed.), Les Dits d’Henri d’Andeli, Paris, Champion, 2003 [Classiques Français du Moyen Âge, 146], pp. 10-11.

2 Maurice Delbouille (ed.), Le lai d’Aristote de Henri d’Andeli, Paris, Belles Lettres, 1951 [Bibliothèque de la Faculté de philosophie et lettres de l’Université de Liège, 123].

3 Ecco la lista dei sei testimoni: Paris, BNF, fr. 837, f. 80vb-83ra (A) ; Paris, BNF, fr. 1593, f. 154r-156v (B) ; Paris, BNF, nouv. acq. fr. 1104, f. 69va-72r (C) ; Paris, BNF, fr. 19152, f. 71vc-73vc (D) ; Paris, Arsenal, 3516, f. 345vb-347v (E) ; Saint-Omer, Bibliothèque municipale, 68 (F).

4 Marco Infurna (ed), Henri d’Andeli, Il Lai di Aristotele, Roma, Carocci, 2005 [Biblioteca Medievale, 103], p. 32. Tutte le citazioni e le traduzioni italiane sono tratte da questa edizione.

5 Alain Corbellari, Un problème de paternité: le cas d’Henri d’Andeli. I. Arguments littéraires, e François Zufferey, Un problème de paternité: le cas d’Henri d’Andeli. II. Arguments linguistiques, « Revue de linguistique romane », 68 (2004), pp. 47-56 e pp. 57-78.

6 François Zufferey, Henri de Valenciennes, auteur du Lai d’Aristote et de la Vie de saint Jean l’Évangéliste, « Revue de linguistique romane », 68 (2004), pp. 335-357.

7 Cito soprattutto l’edizione di Étienne Barbazan e Henri Méon, inserita nella raccolta Fabliaux et Contes des XI, XII, XIII, XIV et XV siècles, Paris, Warée, 1808, tomo 3.

8 Jacqueline Cerquiglini, Le Dit, Grundriss der Romanische Litteratur des Mittelalters, vol. 8, La littérature française aux XIVe et XVe siècles, ed. Daniel Poirion, Heidelberg, Winter, 1988, pp. 86-94.

9 Joseph Bédier, Les Fabliaux, Paris, Champion, 1926.

10 Questo fenomeno è stato studiato soprattutto nella chanson de geste da (Joël Grisward, Archéologie de l’épopée médiévale, Paris, Payot, 1981), e nel romanzo (D. Boutet, Charlemagne et Arthur ou le roi imaginaire, Paris, Champion, 1992). In Italia, questa prospettiva è stata applicata anche alla lirica da Andrea Fassò (Gioie Cavalleresche. Barbarie e civiltà fra epica e lirica medievale, Roma, Carocci, 2005) e da Francesco Benozzo (La tradizione smarrita. Le origini non scritte delle letterature romanze, Roma, Viella, 2007) e al racconto breve (Carlo Donà, Cantari, fiabe e filologi, Il cantare italiano fra folklore e letteratura, Atti del Convegno Internazionale di Zurigo, Landesmuseum, 23-25 giugno 2005, ed. M. Picone e L. Rubini, Firenze, Olschki, 2007, p. 147-170.

11 Accanto alla tradizione squisitamente letteraria, ricordiamo che gli scritti di Aristotele si stanno imponendo prorprio in questo inizio di XIII secolo nel canone degli studi universitari.

12 M. Delbouille, « La tradition occidentale du Lai d’Aristote », Album René Verdeyen, Bruxelles, Manteau, 1943, pp. 133-153 e K. Storost, Zur Aristoteles-Sage im Mittelalter, in Monumentum Bambergense. Festgabe für Benedikt Kraft, München, Kösel Verlag, 1955 citato da M. Infurna, op. cit., p. 11.

13 Ibidem. Cf. gli studi di Raffaele De Cesare, Di nuovo sulla leggenda di Aristotele cavalcato, in Miscellanea del Centro di studi medievali I, Milano, Vita e Pensiero, 1956, pp. 181-247; Id. Due recenti studi sulla leggenda di Aristotele cavalcato, « Aevum », 31 (1957), pp. 85-101.

14 Si tratta di Erec e Enide e del Chevalier au lion. In realtà, Chrétien de Troyes conferisce a questo dilemma una dimensione sociale, in quanto tratta dell’amore in seno al matrimonio.

15 In maniera aneddotica, ricordo che è a partire dal sostantivo deport / desport che l’inglese ha forgiato il termine sport, rientrato poi nelle lingue romanze nel XIX secolo. In italiano conserviamo anche l’espressione imbarcazioni da diporto.

16 Notiamo che la forma halt, alla rima nell’ultimo ottosillabo (v. 302), è una grafia arcaicizzante, ma in realtà la l è vocalizzata e la pronuncia è [haut].

17 Alain Corbellari, Aristote le bestourné. Henri d’Andeli et la “révolution cléricale” du XIIIe siècle, in Formes de la critique: parodie et satire dans la France et l’Italie médiévales, ed. Jean-Claude Mühlethaler, Alain Corbellari e Barbara Wahlen, Paris, Champion, 2003, p. 161-185 (cf. pp. 181-184).

18 M. Delbouille, op. cit. pp. 21-29.

19 A proposito della voce femminile, cf. Francis Gingras, Érotisme et merveilles dans le récit français des XIIe et XIIIe siècles, Paris, Champion, 2002, p. 128.

20 Questa versione è presentata in appendice all’edizione di M. Infurna, op. cit, pp. 110-113.

21 M. Infurna, op. cit., pp. 110-111

22 Ibid. pp. 112-113

23 Ibid., op. cit., p. 14

24 Cito dall’edizione di Ch. Méla, Le Chevalier de la charrette ou Le Roman de Lancelot, in Chrétien de Troyes, Romans, Paris, Librairie Générale Française, 1994, p. 501. Traduzione mia. In realtà il rinvio intertestuale  è stato notato dall’ottimo Marco Infurna, op cit., p. 46.

25 Ibidem.