Appare necessaria alla riflessione dell’umile l’ampia scalea che di regola porta all’ingresso dei Musei, specie quelli nati nell’Ottocento o all’inizio del secolo scorso. Museo non è nome casuale: il divino si raggiunge con impegno, salendo, non ciabattando oziosamente da un vano all’altro, a livello di strada, come tra il calzolaio (sutor, ne ultra crepidam) e il fruttivendolo. Quindi un Museo che si rispetti dovrebbe in primis disporre di ampia ed elevata scalinata. Un passo sull’altro, il travertino lattiginoso favorisce la concentrazione, crea l’atmosfera, libera l’attenzione dal contorno. Il respiro si fa veloce, non è chiaro se sia l’eccitazione per la mostra o il polmone sfiatato per la salita: si deve avere la fisica, faticosa sensazione dell’ascesa per avvicinarsi alla verità dell’arte o comunque della conoscenza.
A Bolzano intere generazioni hanno conosciuto un solo museo, “il” Museo, quello Civico. Per cui molti lo hanno visitato più volte, un po’ come rivedere un film che ci è piaciuto molto (o di cui non abbiamo capito qualche passaggio), pratica oramai scomparsa anche al cinema. La condizione museale del Civico è data essenzialmente dall’essere una raccolta di oggetti legati alla città e al suo circondario: collezioni etnografiche, dipinti, reperti archeologici, una summa di quanto si poteva vedere. I gradini da salire qui erano pochi. Ora sono quattro, anche se dietro il portone se ne celano un bel po’ d’altri e quindi c’è un certo recupero di credibilità. Che convinse anche Pasolini: lo definì infatti museo in cui l’amore per la tradizione è grazia. Ma già allora, decenni fa, era ignorato, eccetto che dalle scolaresche e io lo vidi la prima volta certamente alle elementari. La desertificazione proseguiva anche una ventina di anni dopo, quando feci una visita in compagnia di un’amica, ed eravamo, appunto, gli unici. Ciò permise a un giovane guardiano di rossa chioma, precario ma consapevole del ruolo, di accompagnarci ovunque a distanza di pochi metri. Con sguardo paziente e quasi di scuse, ci seguiva stanza dopo stanza, piano dopo piano, dalla pietra miliare dell’entrata fino alla stube del Seicento nel sottotetto, in un crescendo di mia irritazione, non per improbabili mancati amplessi tra i reperti, ma per l’impossibilità di pensare in pace, così guatati.
Negli anni il Museo Civico è rimasto sostanzialmente identico ed è così riuscito a musealizzare perfino sé stesso, affiancandosi al suo medesimo contenuto. L’edificio, dei primi del secolo XX, si è ripreso pochi anni fa la sua torre, anche se, contro ogni com’era dov’era, questa si regge grazie a prosaicissimi mattoni forati e cemento. Una mera operazione di facciata, sulla quale appunto “svetta” la citata torre. Anche nel senso di togliere la vetta, impedendo la vista delle Dolomiti di cui Bolzano sarebbe, in base ad antichi slogan, la porta. In altra epoca, ci fu chi la volle rasare per permettere la libera visione dei rosei tramonti e togliere così la patina di presunta germanicità dell’architettura. La cipria comunale non ne ha però permesso il reale ripristino filologico, visto che il Civico è comunque rimasto orfano di un bell’erker cipollato che al pari della torre caratterizzava la sagoma della costruzione nel 1905. Perché investire soldi in una ricostruzione antistorica proprio in vetta ad un’istituzione lato sensu culturale? La risposta riposa forse nell’accortezza politica del riparare uno dei torti del periodo che non si nomina (o anzi che si nomina fin troppo), riparazione tutto sommato a buon mercato, forse dal sapore un po’ tarocco, del tipo basta il gesto, un po’ di malta, ed è fatta. Così la torre nel suo intimo è finta, e l’iniziativa non ha toccato il resto del tetto, angolo e merlature. Forse si è così inavvertitamente musealizzata per posteri di più ampie vedute (non sul Catinaccio, però) anche una certa pratica di valore più tattico che storico.
Sull’onda del modernismo divertimentale ed estetico anche il Civico avrebbe dovuto ricevere ben altra e più nuova gualdrappa, un bel cubone nel cortile ad inseguire le sorti di altro e più dinamico museo non distante. Poi più dell’alterigia poté il bilancio e tutto s’arenò, per buona sorte del capoluogo e dei pochi ma affezionati estimatori del Civico.
Oggi i visitatori dei musei sono una moltitudine in movimento che non si può permettere soggiorni lunghi, vuole distrarsi e quindi quel che fa dev’essere veloce, divertente e straordinario, altrimenti non paga un biglietto. Ed è anche giusto così. Quindi, sotto la spinta dei finanziamenti provinciali e di arguti consulenti, sono sorti qua e là sul territorio musei di ogni tipo, che hanno in comune l’intelligenza dei percorsi e degli allestimenti, ma che sono chiaramente finalizzati anzitutto all’attrazione del turista, quantunque frettoloso. Lo spunto non importa moltissimo, anche se trovare un preistorico in posa plastica liofilizzato sotto i ghiacci aiuta parecchio. Ma si fa museo da una valigia, da un registro d’albergo, da una zampa di geco. Si possono udire ritratti parlare (muovendo le labbra), inseguire indovinelli e godere di un alpenflipper intagliato da consumati e astuti artigiani gardenesi. In qualche momento in effetti la differenza con una sala giochi si farà sottile. Ma questi sono i musei aggiornati che attraggono file di turisti, e abile fu chi li creò.
Prendiamo ora un museo tipo e proviamo a visitarlo. Una volta entrati, dopo aver pagato il biglietto (solo se avete meno di 60 e più di 20 anni), depositato borse, giacche e cappotti al guardaroba, si comincia la visita. Non si rimane soli, mai. Sono diffuse ovunque oscure tribù di disturbatori, discepoli del diversivo, commandos della distrazione, alleati nell’impedire una visita profonda e goduta, che non sia solo una superficiale passeggiata. Un esercito organizzato in cui vi sono alcuni ruoli fissi.
Per esempio la coppia di anziane signore intenditrici d’arte. A passo lento, a braccetto, esse confabulano senza sosta, apparentemente a voce bassa in rispetto dei visitatori. Ma da quella palude di borbottii bassi le sibilanti guizzano in alto come geyser improvvisi e frequenti, sfuggendo continuamente a quelle bocche malferme, parendo fischi e richiami, sibili di cospiratori. Potrete notare agevolmente come il vostro ritmo di visita sia identico al loro, per cui sfuggire al rincorrersi di s e z e fischiettii vari vi sarà impossibile, togliendovi ogni concentrazione sull’oggetto della visita. In breve sarete fatalmente attratti come dal pifferaio magico e sarete costretti a seguire questi versi acuti e liquidi anche a distanza di una o più sale. Vi sfuggiranno invece per sempre le sfumature di Raffaello e di Bacon, i sottintesi dell’arte concettuale e le atmosfere sospese di Hopper. Se proverete a scappare nella sala attigua, sperando che la coppia se ne vada in altra direzione, vi renderete presto conto che si tratta di mera vittoria di Pirro.
Nella nuova sala faticosamente raggiunta a prezzo di rinunce si aggira infatti un signore che tira insistentemente su col naso. Nel nostro esercito ha il ruolo del franco tiratore col naso. Cadenzato che vi potreste regolare l’orologio. Ora non vi resta che attendere con ansia il successivo grugnito, ora vorreste tapparvi le orecchie per non avvertire il soddisfatto deglutir dei catarri. Fuggire dunque anche da lì si fa necessità ineludibile, ma tosto vi imbattete in una testuggine compatta. Una delle varie scolaresche con insegnante.
Un tempo le gite si facevano a maggio, ora ogni mese o settimana si muovono orde di supposti discenti di tutte le età e provenienze. Incredibile a dirsi, ogni tribù ha un proprio odore. Anni di fiuto allenato mi hanno insegnato a distinguere tra elementari e medie e tra medie e superiori e tra classi miste e non. I primi hanno magari odor di gomma, altri sottili effluvi di ascelle novelle. Con misteriosa solidarietà di gruppo, l’odore costituisce il vessillo unitario che, con funzione di animale totem, consentirebbe alla tribù di ritrovarsi anche al buio. Ciononostante i richiami vocali, del tutto superflui, si susseguono ugualmente, accompagnati ciascuno dai sssshhh degli insegnanti o dei primi della classe. Tale orgia sonora e olfattiva vi impedirà di capire alcunché, se mai lo voleste, delle dotte o didascaliche spiegazioni della guida o dell’insegnante di arte, che non potendo non sentire, avete finito per seguire, contrariamente al vostro iniziale intendimento. Incidentalmente si potrebbe infatti suggerire di munirsi fin da subito di tappi di cera onde sfuggire a questi richiami di sirena. Non indugiamo però oltre sul tema, che pure meriterebbe una trattazione separata e diffusa, ma teniamo solo nota del valore distrattivo delle classi in visita. Se si accampano davanti a un’opera voi non vi potrete avvicinare e, giocoforza, dovrete cambiare sala per ritornarvi più tardi (o inserirvi nella classe, rinunciando alle vostre riflessioni e adeguandovi alla spiegazione dell’insegnante, rischiando magari di venire anche coinvolto negli esempi). Dovrete anche, nei casi dei meno disciplinati, evitare gli spintoni di alcuni elementi marginali della tribù che si rincorrono nella pampa sconfinata delle sale.
Vi trovate così in un’ulteriore sezione e avete ormai perso il filo del percorso studiato dagli organizzatori della mostra o dai curatori del museo e cercate di capire se siete ora davanti alle opere di gioventù o invece della maturità dell’artista. Pensate di essere finalmente soli, ma dietro una quinta si sente un dibattito borbottato, è una coppia: lui precede lei e commenta, lei segue e commenta. Hanno entrambi un difetto locomotorio che non consente di alzare i piedi per spostarsi da un’opera a un’altra, ma solo di trascinarli sul pavimento come pesi di un peccato ancestrale. Certamente, pensate, si tratta in realtà di un difetto nella testa: perché mai non devono alzare i piedi, facendo quel fastidioso rumore di sofferenza? Montale lo aveva capito, il male di vivere: oltre al rivo strozzato che gorgoglia, c’è il parqué lucidato che si sfoglia. E voi, in sintonica pietas col pavimento, perdete il controllo: più vi ci concentrate, sperando in uno strascichìo casuale, più il regolare attrito nefasto si fa nido nel vostro cervello infiammato, poiché si ripete senza eccezioni, non lasciandovi tregua. Vi incupite ancor più pensando ai danni potenziali dei due o drappello con analoga missione che potrebbero percorrere – o aver già percorso! – con le loro scarpe di cuoio (solitamente a punta) il pavimento della basilica di Otranto, graffiando e asportando ad ogni pattinata (distratta?) una pellicola di colore, sapientemente scelta ed applicata secoli fa dai defunti mastri cosmateschi. Dio, il padrone di casa, inspiegabilmente non interviene. Nemmeno ora, qui al museo, alcuno sembra ferito dal trascinamento graffiante segretamente autocompiaciuto e bisbigliate allora voi qualche frase malefica in lingue estinte, sperando in una immediata sincope della coppia, ma invano, e tristi e sconsolati migrate in un’altra sala, cercando di riempire le lacune che avete lasciato nel percorso di visita.
Qui potreste trovare inopinatamente solerti guardiani – persone che come gufi sul ramo attendono occhiuti la preda e poi calano con deciso volo sulla vittima – che notando che avete il cellulare in mano, si sentono in dovere di accusarvi a gran voce («signore? signore!») di aver fotografato le opere, cosa vietata. Spiegate calmi che non avete fotografato nulla e che anzi stavate giusto mettendo la vibrazione per non disturbare; inutile, il gufo svolacchia intorno a voi che rispondete piccati e divenite, innocenti, cagione di disturbo per altri più disciplinati ospiti. Infatti questi ora vi fissano con riprovazione in un maligno scambio di ruoli: voi stessi ormai siete divenuti membri – di complemento – dell’esercito dei molesti. Per le sale, intanto, qua e là altri rispondono senza tema ai propri telefonini con suonerie da duri d’orecchio, scelte tra i motivetti più stupidi del momento.
Questo quando i guardiani son solerti, perché di norma ci sono quelli che si raggruppano in manipoli a parlare di ingiustizie lavorative o di pratiche sindacali o di ritardi del ciclo, ignorando il resto. Chi preferire? Questo calo del tono aulico di certo si insinua come uno stiletto tra voi e i crocifissi di Cimabue, degradando la qualità della visita.
Il nucleo da guerra tecnologica, di cui è membro anche l’utilizzatore compulsivo del telefono cellulare, un essere che una volta chiamato si estrania dal contesto, ritenendo di essere solo in un ufficio insonorizzato, si compone anche di altri specialisti, tra cui è degno di menzione il visitatore con audioguida che non conosce la funzione di riduzione del volume. Suo tramite, mentre cercate di carpire i segreti della striminzita scultura di Giacometti, vi giungono a ondate, come uno sbarramento di artiglieria di disturbo, le incongruenti considerazioni su Manzù o Medardo Rosso (ricordatevi i tappi!).
Se invece vi trovate, per ventura, in un museo o mostra d’arte contemporanea, in qualunque sala vi troviate, sarete raggiunti dai rimbombi di nenie iterative, filastrocche allucinanti, sorpresi da rumori gorgoglianti e urla da far rizzare i capelli. Sconcertati e un po’ timorosi, siete incerti se chiamare la sorveglianza o se avventurarvi da soli alla ricerca della fonte di tali irritanti e spaventevoli suoni oltretombali. Di regola la fonte è un video in una saletta senza porta, deserta se si eccettua una panca. Potrebbe essere una cella per torture sofisticate, ma a tutta evidenza pare non ci sia altro modo per gli artisti multimediali di farsi notare. Se la saletta fosse insonorizzata, come pensate sarebbe opportuno fare, neppure gli scocciati si accorgerebbero di loro. Ora capite come una mostra possa essere davvero la forma femminile di un essere rivoltante.
Ma ancora, alcuni cecchini si materializzano per crivellare e abbattere definitivamente la vostra già compromessa psiche di appassionati d’arte, in forma di coppia professore-anziano e accompagnatore-sottomesso. Il secondo fa da spalla al primo, che pontifica a gran voce con abbondanza di citazioni di artisti e correnti, come se la mostra ce l’avesse nel corridoio di casa sua, impedendovi di pensare in proprio. La spalla, sommessa, fa da mite specchio in chiave minore. Questo teatrino faticosamente sopportabile fa tappa con voi che sibilate orrende imprecazioni o sbuffate senza eleganza, comunque ignorati dai due residui del pomposo e autoreferenziale mondo accademico. Una variante aggravata prevede che il substrato linguistico dei due provochi caricamenti fonetici di alcune sillabe o espressioni, risvegliando il ricordo delle sibilanti e dentali della coppia anziana, che si era in voi quasi sopito.
Aggiungete ora i faretti che alterano la naturale luminosità delle tele e gli allarmi che scattano di continuo a cagione degli esperti d’arte che accompagnano sagaci affermazioni con teatrali gesti delle braccia sfiorando le opere e avrete completato il quadro della visita tipo.
Non vi resta che battere questa armata subdola con le armi giuste: munitevi, quindi, del Vom Kriege di von Clausewitz, non necessariamente nell’editio princeps del 1832 e sorvegliate, nei giorni antecedenti la programmata visita, gli accessi all’edificio museale: annotate con cura il numero degli entranti, degli uscenti e le durate medie delle visite. Impadronitevi degli orari di cambio turno dei sorveglianti, delle fasce preferite dalle scolaresche, delle previsioni del tempo (se piove, vi sarà maggior affluenza!) e finalmente, seppur con innegabile fatica, potrete estrarre l’Ora Migliore, il momento magico in cui poter realizzare la vostra visita: concentrati, indisturbati, felici.