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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 06

 aprile 2013

Saggi e rassegne

Max Bergamo

Parodie del Simposio platonico: Orazio, Petronio, Luciano

 

ἀπολῶ τὴν σοφίαν τῶν σοφῶν
καὶ τὴν σύνεσιν τῶν συνετῶν ἀθετήσω

Isaia 29, 14

Se moquer de la philosophie, c’est vraiment philosopher

Blaise Pascal

Il Simposio di Platone si pone come un indubitabile punto di riferimento per gli scrittori successivi, tanto da configurare in modo stabile le caratteristiche di un vero e proprio genere, a sé stante, della letteratura occidentale, quello, appunto, del simposio. All’origine di tale tradizione vi è un testo che, pur nella sua vivace struttura dialogica, trae il proprio senso dalla ricerca di una soluzione a una questione di carattere filosofico, ovvero dall’interrogarsi sulla natura di Eros. Di conseguenza, le successive riprese di tale dialogo non potranno fare a meno di innestare le proprie invenzioni narrative su una struttura che contempla come centro focale e come requisito di senso non la descrizione delle tradizionali attività simposiache, quali la musica, il canto e le libagioni, ma la successione di una serrata sequenza di risposte fornite dagli interlocutori in merito al problema stabilito. D’altronde, non potrebbe essere altrimenti, dal momento che l’intero dialogo è posto sotto l’egida di Socrate, il quale è in grado di tramutare, in virtù della sua sola presenza, un ritrovo a carattere solitamente politico – in quanto rito in grado di cementare eterie che costituivano la base della vita assembleare della polis – e ludico in un maestoso theatrum philosophicum.

Tale metamorfosi si attua mediante una serie di episodi che spogliano il simposio dei suoi caratteri tradizionali, giudicati inutili orpelli nonché possibili motivi di distrazione dal vero scopo del convito, la discussione dialettica. Innanzitutto, si decide di porre un freno al bere, nel senso che ognuno potrà attingere tanto vino quanto vorrà, senza essere costretto a sottostare alla ritualità comunitaria. Inoltre, si delibera di congedare la suonatrice di flauto (αὐλητρίς) per sostituire alla musica dell’αὐλός la melodia delle parole. Tale reciso rifiuto si rivela fondamentale in quanto nega uno degli elementi portanti del simposio, la musica. La novità e l’eccentricità di tale convito appaiono chiaramente anche nell’epiteto che viene attribuito a Fedro, il quale si è fatto promotore del tema della serata, la lode di Eros: egli non viene onorato del titolo di ‘padre del banchetto’ ma di quello di πατὴρ τοῦ λόγου. Sarà infatti lui a dare l’abbrivio alla serie dei discorsi che troveranno il loro apice nel monologo di Socrate, o meglio nel discorso di Diotima da questi riportato. Tuttavia Platone, pur mettendo in scena un simposio di natura radicalmente altra dalla tipologia tradizionale e imprimendo così il proprio indelebile marchio su un intero genere filosofico-letterario, non si perita di intervallare le più serie e impegnate disquisizioni non solo con alcuni sapidi ‘intermezzi’, come la parentesi comica del singhiozzo di Aristofane, che pare conseguire più dalla sua intolleranza alla artefatta magniloquenza del λόγος di Pausania che da una ragione fisiologica, ma anche, e soprattutto, con l’inopinata irruzione entro la cerchia dei convitati di un Alcibiade in preda ai fumi dell’ebbrezza e particolarmente propenso a rimproverare a Socrate i reiterati rifiuti opposti alle sue insistenti avances.

Tuttavia, la prosa di Platone, grandissimo scrittore oltre che pensatore (se proprio vogliamo tenere distinti due aspetti pressoché inscindibili in molta pratica filosofica greca – dal concretissimo λόγος di Eraclito all’esercizio non solo di pensiero ma anche di stile che sono i Pensieri di Marco Aurelio, passando, appunto, attraverso le mises-en-scène, i miti e le metafore platoniche), non scade mai né, s’intende, nel volgare, né nel comico fine a se stesso, dal momento che l’ubriacatura di Alcibiade non gli impedirà di dare vita ad una delle pagine più celebri della filosofia occidentale, ovvero alla comparazione di Socrate con le statuette dei sileni contenenti al proprio interno immagini divine (215a: φημὶ γὰρ δὴ ὁμοιότατον αὐτὸν εἶναι τοῖς σιληνοῖς τούτοις τοῖς ἐν τοῖς ἑρμογλυφείοις καθημένοις, οὕστινας ἐργάζονται οἱ δημιουργοὶ σύριγγας ἢ αὐλοὺς ἔχοντας, οἳ διχάδε διοιχθέντες φαίνονται ἔνδοθεν ἀγάλματα ἔχοντες θεῶν). Dunque, anche se il nucleo del dialogo è costituito dall’interrogazione sulla natura di Eros, in noi non può non insinuarsi il dubbio che il vero cuore della vicenda non stia tanto, o non solo, nel percorso che conduce alla definizione dell’amore come tensione verso il possesso della bellezza, e quindi del bene, in sé, quanto nella descrizione della figura di Socrate e della sua eccezionalità. Questi, infatti, non si limita a incarnare alla perfezione l’ideale di una vita ispirata al più alto amore per la verità, configurandosi così come la controparte oggettiva del discorso di Diotima, ma si pone come esemplare in ogni suo atto e in ogni suo detto, come appare evidente non solo da ciò che afferma Alcibiade, ma anche dalla scena iniziale, in cui il filosofo, in cammino verso la casa di Agatone, rimane più volte indietro, immobile, immerso in una meditazione tanto profonda da astrarlo dall’ambiente circostante e finendo così per arrivare al convito a cena già inoltrata. Il genere letterario che fonda il Simposio si rivelerà quindi inscindibile dall’elogio del saggio e delle sue virtù, nonché della valenza euristica di un pacato confronto dialettico.

[Paestum, Tomba del Tuffatore]

È questo il quadro entro cui si collocheranno tutte le riprese successive del dialogo e, di conseguenza, la struttura di base che la vis comica degli autori qui presi in considerazione si sforzerà di rovesciare o deformare. La prima parodia in cui ci si imbatte, e che fungerà da modello fondamentale per la «[literarische] Sonderform der satirischen Darstellung und Parodie des durch die Unerzogenheit und Unbildung von Gastgeber und/oder Gästen der Würde beraubten lächerlichen Conviviums», ovvero per il genere della ‘cena ridicola’ (PABST 1986, p. 146), è l’ultima delle Satire di Orazio (II, 8), che narra di un disastroso banchetto organizzato dal parvenu Rufo Nasidieno. Già l’apertura del componimento si ricollega all’incipit del Simposio platonico, vero e proprio trionfo della tradizione indiretta poiché mette in scena la richiesta, rivolta da un non meglio definito ἑταῖρος ad Apollodoro, discepolo di Socrate, di riferire i discorsi scambiati molto tempo prima al convito in questione. Questi, tuttavia, non aveva potuto partecipare al simposio, ma ne era stato informato da Aristodemo, e crede di ricordare bene i discorsi tenuti quella sera per averli già ripetuti a Glaucone. Se nel caso del Simposio la funzione di tale complessa sovrapposizione dei piani narrativi pare essere quella di dare l’impressione di un resoconto il più possibile obiettivo e spontaneo sottacendo, per quanto possibile, l’autorialità platonica del dialogo (si rammenti l’affermazione di Fedro all’inizio del Fedone: Πλάτων δὲ οἶμαι ἠσθένει, «penso che Platone fosse malato»), in Orazio tale necessità viene meno ma permane, seppure semplificato, lo schema della narrazione riportata, per cui l’autore domanda all’amico Fundanio come si sia svolto il banchetto della sera prima. I primi versi valgono, quindi, come marca di intertestualità, suggerendo al lettore di leggere l’intero componimento come contrappunto all’architesto platonico, di cui volgerà in parodia numerosi elementi, rivelandosi come una sorta di ‘Simposio alla rovescia’. Innanzitutto, l’intera narrazione ruota attorno al tema del cibo, del tutto assente nel modello: tale netto cambiamento di prospettiva è sancito già in apertura della satira, laddove Orazio domanda all’amico della cena del giorno prima vedendo in questa non un’occasione per condividere prospettive filosofiche con una ristretta cerchia di colti amici bensì un puro e semplice pasto. Il primo verso, infatti (Ut Nasidieni iuvit te cena beati?), focalizza l’attenzione sul giovamento personale ricavato da Fundanio dal banchetto e sulla cena stessa, laddove Platone si era sforzato di conferire al ritrovo un valore assoluto o quanto meno tendente alla ricerca di una verità stabile e condivisa, non certo transeunte e solipsistico come un buon pasto. Per di più, la seconda domanda dell’autore ribadisce e rafforza la centralità quasi ossessiva di tale aspetto: l’autore interroga l’amico su quale sia stata la prima pietanza a placare il suo stomaco in subbuglio (da, si grave non est,/ Quae prima iratum ventrem placaverit esca). Si tratta, cioè, di sapere in cosa sia consistita la gustatio, che noi chiameremmo antipasto: tale dato non si rivela inutile come potrebbe sembrare, poiché dispiega con assoluta evidenza l’esagerata premura mostrata dal padrone di casa nello stupire ad ogni costo i propri ospiti, tra cui siede il noto e influente Mecenate. Sul primo vassoio fa infatti il suo trionfale ingresso un cinghiale lucano, piatto di non poco momento per essere uno stuzzichino. Ma quel che è peggio è l’inarrestabile profluvio di spiegazioni inverosimili e verbose con cui Nasidieno si sente in dovere di inondare gli astanti affinché possano risaltare al meglio le cure da lui amorevolmente dispensate alla carne per renderla la migliore possibile: egli specifica, infatti, come il sontuoso animale sia stato catturato non in una congiuntura meteorologica qualsiasi, bensì «al soffio di un blando scirocco» (leni fuit austro/ Captus), per far sì che la carne non frollasse troppo rapidamente. Simili esasperanti specificazioni ammorberanno gli ospiti per tutta la serata, raggiungendo il parossismo allorché, alla comparsa di una murena natante tra i gamberetti, il padrone si precipita orgoglioso a rendere partecipi i commensali del segreto di tale piatto: la murena è stata catturata gravida, poiché, come ognun sa, la carne si sarebbe guastata dopo il parto (vv. 43-4). Appare dunque chiaro come siano le bizzarre portate, che si succedono a intervalli serrati, e, di conseguenza, le sconnesse ed esibizionistiche disquisizioni gastronomiche di Nasidieno a monopolizzare l’attenzione degli ospiti soffocando sul nascere ogni possibilità di civile e pacata conversazione. Siamo, quindi, in presenza di una situazione diametralmente opposta a quella del modello del Simposio, che trova la sua ragion d’essere nel confronto dialettico tra i diversi λόγοι (pur risolvendosi, come spesso in Platone, in un monologo di Socrate). Non pago delle proprie intemerate culinarie, il padrone, a un certo punto (vv. 51-3), volendo rivendicare a sé il ‘brevetto’ della cottura contemporanea di rucole verdi ed enule amare, ricorre al tipico topos, di origine greca, del πρῶτος εὑρετής, confezionando una serie di esametri conditi – è il caso di dirlo – da locuzioni epicheggianti ma decisamente fuori luogo: Erucas viridis, inulas ego primus amaras/ Monstravi incoquere; inlutos Curtillus echinos,/ Ut melius muria quod testa marina remittat (cfr. Lucr., De rerum natura, vv. 66-7).

D’altra parte, l’elemento che più spicca in contrasto con il modello platonico è l’uso smodato che i convitati fanno del vino: già da quel poco che Orazio era riuscito a sapere della cena prima di incontrare Fundanio emerge chiaramente come il convito a casa di Nasidieno possa essere efficacemente riassunto da un’espressione all’insegna della più sfrenata ebbrezza: Nam mihi quaerenti convivam dictus here illic/ De medio potare die («Infatti quando ieri ti cercavo per invitarti mi è stato detto che eri là a bere da mezzogiorno»): non si potrebbe immaginare più stridente contrasto con il Simposio, in cui si è visto come il tema del bere sia sin da subito limitato nella sua importanza e presto dimenticato – almeno fino all’inaspettata irruzione di Alcibiade -, per non parlare dell’ora sorprendentemente anticipata della ‘cena’. Inoltre, seppure bere sin dall’inizio del pasto fosse giudicato sconveniente, nessuno pare accorgersene; anzi, ad un certo punto due ospiti, Vibidio e Balatrone, esasperati dagli interminabili sproloqui culinari del padrone di casa, concertano una vendetta assai particolare, che consiste nel dare fondo ai suoi vini più pregiati per mandarlo in rovina. Tuttavia, più che la trovata in sé è significativo il modo in cui tale intenzione viene espressa da Vibidio, attraverso la ripresa parodica di uno dei luoghi più celebri dell’Eneide: Nos nisi damnose bibimus, moriemur inulti («Se non beviamo a suo danno, moriremo senza aver fatto vendetta»), cfr. Aen., IV, vv. 659-60: «Moriemur inultae,/ Sed moriamur» ait. «Sic, sic iuvat ire sub umbras» («“Morirò invendicata, ma che io muoia!”, disse. “Così, così voglio sprofondare nelle ombre”»). Solo che, al posto della disperata decisione di Didone di rinunciare alla vendetta in favore del suicidio troviamo il bislacco proposito di svuotare la cantina del troppo facondo ospite.

Inoltre, se nel dialogo platonico un ruolo di assoluta preminenza spettava alla riflessione critica sul tema proposto, e se molti dei λόγοι affidavano la propria articolazione argomentativa a citazioni poetiche tratte dal grande bacino letterario dell’epos (si vedano i discorsi di Fedro, Pausania e Agatone), anche nella narrazione della cena Nasidieni si ha un momento di declamazione epicheggiante, ma in un contesto quantomeno incongruo. Nel bel mezzo del banchetto avviene, infatti, un incidente che ne compromette l’esito già disastroso: il baldacchino sovrastante la mensa crolla sui convitati ricoprendoli di polvere. Al fine di consolare il proprio patronus, il cliens Nomentano si produce in un’accorata apostrofe alla crudeltà della Fortuna (Heu, Fortuna, qui est crudelior in nos/ Te deus? Ut semper gaudes inludere rebus/ Humanis!), generando così un effetto indubbiamente parodico – se non ridicolo – viste la prosaicità della situazione e la banale affettazione del dettato poetico. A stento i convitati riescono a soffocare il riso nel tovagliolo, finché Balatrone, uso a farsi beffe di tutto e di tutto (Suspendens omnia naso), non si lascia anch’egli andare a una tirata poetica in cui rinfaccia a Nasidieno il pane bruciacchiato, i sughi male assortiti e l’improntitudine di uno stalliere promosso a cameriere, ma per antifrasi e tra altisonanti deprecazioni della vita mortale, cosicché il destinatario di tali rimproveri, non particolarmente sensibile alle finezze letterarie, non se ne avvede e, anzi, lo ringrazia commosso. Siamo, quindi, in presenza di una vera e propria parodia di una parodia, o meglio di una caricatura consapevole e riflessa di un exploit poetico comico e stridente suo malgrado. Dopodiché, a Orazio e ai suoi amici, sfiniti dall’ennesima parata di inverosimili portate, non resta che fuggire, senza aver più toccato cibo, facendosi beffe di Nasidieno e della sua incurabile follia (Dumque/ Ridetur…).

Lo scopo che la riscrittura oraziana di Platone si propone pare, dunque, essere quello di mettere alla berlina un ambiente sociale, quello degli arricchiti e del loro incolto e incivile corteggio, stigmatizzandone i disdicevoli comportamenti grazie al ricorso all’arma dell’intertestualità e del ridiculum (indubbiamente termine-chiave del testo). Potremmo così inquadrare quest’uso della comicità facendo leva sulla definizione bergsoniana del riso come gesto di condanna sociale con il quale si vuole richiamare all’ordine chi viola in maniera deplorevole i confini del decoro (cfr. PABST 1986, p. 137, che si richiama anche a Schiller). Una diversa declinazione del tema della ‘cena ridicola’ si può invece rinvenire in due prosatori come Petronio sul fronte latino e Luciano su quello greco, nei quali la ripresa del testo platonico si tinge di una comicità più greve e grottesca rispetto alla satira di Orazio, decisa e intransigente ma pur sempre ispirata a un ideale di sapiente misura.

[Affresco pompeiano, particolare – Napoli, Museo Archeologico]

Per quanto riguarda Petronio, al centro dell’attenzione deve essere posta la pericope più celebre del Satyricon, la cosiddetta cena Trimalchionis, la quale viene a porsi non solo come ripresa distorta dell’ipotesto platonico ma anche come una sorta di «Paraphrase und Amplificatio der cena Nasidieni» (ibid., p. 138). Al centro di tale ripresa parodica stanno senza dubbio i rozzi dialoghi che i liberti convenuti al banchetto di Trimalchione si scambiano durante la serata (§§ 41-6), contrappunto fortemente satirico degli elevati λόγοι che costituiscono l’ossatura narrativa e concettuale del Simposio. Tali discorsi hanno inizio allorché il padrone di casa si assenta per recarsi in bagno, liberando così gli ospiti dal peso delle sue intollerabili esibizioni di una cultura posticcia che presceglie a oggetto, come già faceva Nasidieno, le caratteristiche gastronomiche di una serie ininterrotta di piatti tanto elaborati da risultare irriconoscibili. Il primo intervento, di Dama, giunto già ubriaco al banchetto, costituisce il sintomo dell’inversione parodica che interesserà tutta la cena: si tratta di un elogio del vino, fondato non su elaborate speculazioni ma su una notazione fisiologica (il vino scalda) e su un’asserzione della caducità della vita umana espressa con parole trite e consunte (Dies […] nihil est. Dum versas te, nox fit); la conclusione tratta da tali osservazioni è un trionfo della corporeità più sfacciata: Itaque nihil est melius quam de cubiculo recta in triclinium ire («Dunque non c’è niente di meglio che passare di filata dalla camera da letto a quella da pranzo»). Il secondo a parlare è Seleuco, il quale infarcisce il proprio monologo di una informe congerie di detti tra il proverbiale e l’abietto (Medicus enim nihil aliud est quam animi consolatio, mulier quae mulier milvinum genus [è della stirpe degli avvoltoi], antiquus amor cancer est), concentrando tutti i propri sforzi nell’elaborazione di una filosofia di vita dall’aspetto vagamente animalesco: Heu, eheu. Utres inflati ambulamus. Minoris quam muscae sumus, ˂muscae˃ tamen aliquam virtutem habent, nos non pluris sumus quam bullae. Per interrompere questa triviale lamentazione, Filerote gli dà sulla voce – cosa impensabile nella pacata atmosfera di costruttivo dialogo del paradigma platonico – e improvvisa una declamatio sventuratamente in nulla migliore della precedente, anche se molto interessante da un punto di vista socio-antropologico: potrebbe, infatti, essere rubricata come lode incondizionata dell’arrivismo sociale, dal momento che elogia la prodigiosa ascesa economica di Crisanto, venuto su dal nulla grazie a una straordinaria tenacia (Paratus fuit quadrantem de stercore mordicus tollere, «Sarebbe stato disposto a tirare su coi denti un centesimo da un letamaio»). Come se siffatte finezze non bastassero, Filerote si fa un punto d’onore della necessità di sottolineare come la vitalità economica del parvenu non andasse disgiunta da una prestanza sessuale indenne dai colpi del tempo, sicché anche in età avanzata adhuc salax erat (per di più: Non mehercules illum puto in domo canem reliquisse), con una spiccata propensione per i ragazzini, giacché era uomo dalle mille risorse. Sarebbe difficile immaginare un passo che ribalti in modo più netto l’ideale erotico del Simposio platonico, in cui la παιδεραστία viene contemplata solo in quanto primo stadio dell’ascesa verso il bello in sé, a meno di non volersi rifare ad un altro passo del Satyricon, la famosa novella del fanciullo di Pergamo (§§ 85-7). In questa il protagonista, Eumolpo, finge di condannare l’amore efebico in modo da essere considerato «come uno dei grandi filosofi» dalla famiglia che lo ospita, con l’unico intento di poter così porre in atto, indisturbato, la sua opera di seduzione nei confronti del figlio. Oppure, si potrebbe citare il lapidario slogan pubblicitario con cui è messo in vendita Socrate nell’operetta lucianea Vite dei filosofi all’asta: Παιδεραστής εἰμι καὶ σοφὸς τὰ ἐρωτικά (di un altro passo di Luciano si parlerà oltre). A Filerote subentra Ganimede, innestandosi nella discussione in modo non propriamente costruttivo (Narratis quod nec ad caelum nec ad terram pertinet), richiamando gli astanti alle ben più urgenti ristrettezze economiche in cui versa il popolo, ridotto alla fame dai loschi traffici di edili corrotti, mentre una volta (nell’età dell’oro non dello spirito ma del corpo) il pane costava come una manciata di melma (Illo tempore annona pro luto erat); tuttavia, l’effetto parodico sta nel fatto che il liberto, al fine di condannare lo stato di miseria dell’epoca, si abbandona a una laudatio temporis acti che non può non stonare visto che sottintende un’istanza di fondo di carattere non utopistico ma eminentemente pratico, se non fisiologico (Nemo enim caelum caelum putat, nemo ieiunium servat, nemo Iovem pili facit, sed omnes opertis oculis bona sua computant. Antea stolatae ibant nudis pedibus in clivum, passis capillis, mentibus puris, et Iovem aquam exorabant. Itaque statim urceatim plovebat: aut tunc aut nunquam, et omnes ridebant udi tanquam mures. Itaque dii pedes lanatos habent, quia nos religiosi non sumus. Agri iacent…). Il quinto discorso è invece tenuto dall’illustre Echione, centonarius (fornitore di stracci per i pompieri), il quale si sforza di mitigare la negatività del quadro tracciato da Ganimede non riuscendo, però, a fare altro che mettere in evidenza la propria monomaniacale devozione per i giochi gladiatori: i politici non sono valutati in base ai loro meriti civili ma esclusivamente sulla base della magnificenza degli spettacoli che hanno organizzato. Così, le più sperticate lodi andranno all’edile Tito, il quale intende organizzare tre giorni consecutivi di feste senza badare a spese: metterà a disposizione le spade migliori per dare vita ad una serie di combattimenti sine fuga, carnarium in medio, ut amphitheater videat, cosicché tutti possano godere dello spettacolo di mariti gelosi e amanti da strapazzo.

Siamo così giunti al termine del quinto discorso, un momento cruciale, se solo si ponga mente al modello platonico, in cui dopo i λόγοι di Fedro, Pausania, Erissimaco, Aristofane e Agatone spetta a Socrate prendere la parola; ci si attenderebbe, quindi, che anche nel Satyricon sia il turno di una personalità particolarmente carismatica e incisiva, nel bene o, più probabilmente, nel male. In realtà, il genio inventivo di Petronio lo induce a rifuggire dall’esito atteso e a sostituire al pieno del monologo socratico di Diotima un vuoto di senso, una possibilità ventilata ma subito delusa. Infatti, verso la fine del proprio discorso Echione si interrompe e apostrofa rudemente il retore Agamennone, uno tra i pochi ospiti a potersi fregiare di un qualche barlume di cultura, convinto che a questi le proprie sconnesse considerazioni siano moleste (Videris mihi, Agamemnon, dicere: «Quid iste argutat molestus?»); proprio lui, che saprebbe parlare come si deve, pare rifiutarsi di intervenire in discorsi improvvisati da ignoranti liberti, chiuso nell’insanabile pregiudizio di avere ben altra stoffa rispetto ai poveri di spirito che lo attorniano e reso folle dall’amore per lo studio (Scimus te prae litteras fatuum esse; si noti il solecismo per cui prae regge un accusativo anziché un ablativo: sembra quasi una spia volontariamente posta dall’autore all’inizio del passo per sottolinearne l’assurdità e il desolante tenore complessivo). Al mutismo dello scholasticus, e quindi, metaletterariamente, di Socrate, si sostituisce così «lo sproloquio di un liberto in tema di educazione e di cultura, culmine della sequenza dialogica, ma culmine nel senso della volgarità e degli effetti comici […]; la parodia è così completa» (BESSONE, p. 74; si veda anche l’episodio di Ermerote, §§ 57-9). Echione propone, difatti, una propria teoria pedagogica per il figlio, la quale prevede una formazione moderatamente solida ad domusionem, ovvero in economia domestica, giacché con le lettere ha già pasticciato abbastanza (Nam litteris satis inquinatus est): Habet haec res panem. Se, poi, vorrà imparare un mestiere utile e redditizio, che faccia il barbiere, il banditore o almeno l’avvocato, un qualcosa che nessuno gli possa togliere nisi Orcus. Per questo ogni giorno egli fa all’educando una predica molto istruttiva: Primigeni, crede mihi, qucquid discis, tibi discis. Vides Phileronem causidicum: si non didicisset, hodie famem a labris non abigeret. […] Litterae thesaurum est, et artificium numquam moritur; degno periodo di chiusura del passo visto che, oltre a proclamare un confuso ideale di una cultura che sia al contempo professione (artificium) e che pare trarre una giustificazione alla sua vacuità dalla sua destinazione pratica piuttosto che essere degno fine in se stessa, si ricollega all’incipit per via degli errori linguistici che lo sfigurano: thesaurum neutro anziché maschile e litterae concordato ‘a senso’ (o piuttosto non concordato affatto) con est. L’ingresso di Trimalchione reduce dal bagno interrompe i discorsi, o meglio le fabulae, dei liberti, e le parole da lui pronunciate costituiscono «il punto più basso della struttura petroniana proprio in corrispondenza di quello più elevato della costruzione platonica» (BESSONE, ibid.): al posto dell’ascesa all’atmosfera rarefatta delle vette dell’Amore intellettuale troviamo un vero e proprio elogio della funzione liberatrice – nell’opinione dell’improvvisato retore parrebbe quasi catartica – delle più basse, in senso tanto traslato quanto proprio, funzioni fisiologiche (Nemo nostrum solide [«tutto d’un pezzo», cioè «senza buchi»] natus est. Ego nullum puto tam magnum tormentum esse quam continere), che culmina in una stentorea esaltazione della funzione salutare del meteorismo, da assecondare, e assolutamente da non contrastare: Multos scio sic periisse (se ne può morire!).

Il meccanismo parodico su cui si fonda la cena Trimalchionis appare, dunque, estremamente elaborato e sapiente, benché mostri tratti e obiettivi differenti dalla satira oraziana. In primo luogo, è opportuno sottolineare come nel caso di entrambe le riprese sinora considerate il concetto di ‘parodia’ vada inteso nel senso di strategia intertestuale volta alla riproduzione distorta di un modello nobile, in modo da proiettare una luce caricaturale non sul modello ma su se stessa in quanto copia degradata di quello (cfr. CONTE 1997, pp. 40-1). D’altronde, se a proposito di Orazio si può parlare di una lucida e coscienziosa critica di un determinato strato sociale e dei suoi comportamenti aberranti, per quel che concerne Petronio l’impressione che si ricava dal testo è di trovarsi dinanzi a una realtà sì debitamente circoscritta (quella dei liberti arricchiti) ma che finisce con il fagocitare qualsiasi pretesa di una visione e di un ordine diversi: si noti, ad esempio, la sintomatica afasia che colpisce Agamennone, professore di retorica, il quale si rivela incapace di ribellarsi alla tirannia dell’ignoranza, per non parlare del fatto che finirà per ridursi ad applaudire servilmente le sceneggiate pseudoletterarie del padrone di casa (§ 48 sgg.). Il labirintico mondo del Satyricon è per definizione irredento e irredimibile, e quindi parrebbe assurdo parlare di una valenza sociale del riso petroniano; meglio sarebbe rassegnarsi ad accettarne gli spettrali echi beckettiani – o piuttosto, in considerazione del fatto che ogni personaggio del ‘romanzo’ pare chiuso in se stesso e alienato da una società in preda a un’irrefrenabile bulimia verbale, pinteriani – tentando, al contempo, di cogliere il gioco a cui il testo sollecita il lettore, invitandolo a leggere ogni episodio non isolatamente ma con uno sguardo metaletterario in grado di scorgere dietro al dettato verbale, come in un palinsesto, le tracce di scritture anteriori. Con ciò non si vuole certo dire che per Petronio la letteratura si configuri come una possibile via d’uscita dall’impasse esistenziale, bensì unicamente mettere in luce come a fronte del deserto dello spirito in cui vagano i suoi personaggi, l’autore, rivelando le ferite di una realtà che non può reggere il paragone con un passato oramai inattingibile, paia compiere, allo stesso tempo, l’unico gesto in grado di riprodurre una forma, seppur indistinta, di comunità eletta fedele all’ideale platonico: quella dei lettori.

[Pavimenti non spazzati secondo l’abitudine di gettare i resti della cena sotto la tavola – Roma, Museo Laterano, mosaico]

Una più espressa intenzione di critica filosofica emerge dal dialogo lucianeo Il Simposio o i Lapiti, che si pone esplicitamente il compito di ἀντισυμποσιάζειν (cfr. Lessifane, § 1), cioè di proporre un sistematico rovesciamento dell’opera platonica (per l’enorme numero di riprese che avrà quest’operetta – tra cui la versione cristiana detta cena Cypriani – cfr. PABST pp. 140-158). L’incipit, di conseguenza, riproduce la cornice del convito platonico già ripresa dalla satira oraziana: Filone, essendo stato informato dell’avvenimento da Carino, il quale a sua volta ne era stato messo a parte da Dionico, domanda a Licino, doppio di Luciano, di raccontargli del banchetto nuziale – e quindi, in linea di principio, particolarmente solenne – tenutosi il giorno prima a casa di Aristeneto. La richiesta dell’amico non è motivata né dagli interessi nobilmente filosofici dell’ἑταῖρος platonico, né dalla curiosità culinario-edonistica del Fundanio oraziano, bensì dalla volontà di apprendere più particolari riguardo non solo ai discorsi filosofici scambiatisi dai convitati – richiamo a Platone che suona piuttosto come giustificazione di una importuna sete aneddotica – ma anche alla «non piccola contesa» sorta tra gli ospiti e finita nel sangue ([φασί] καὶ τινας λόγους φιλοσόφους εἰρῆσθαι καὶ ἔριν οὐ σμικρὰν συστῆναι ἐπ’ αὐτοῖς […] καὶ ἄχρι τραυμάτων προχωρῆσαι τὸ πρᾶγμα καὶ τέλος αἵματι διαλυθῆναι τὴν συνουσίαν). Licino, tuttavia, come il Fedro dell’omonimo dialogo platonico, oppone una iniziale resistenza a divulgare pubblicamente fatti svoltisi ἐν οἴνῳ καὶ μέθῃ (nel vino e nell’ebbrezza), più degni di un baccanale che di un ritrovo di sapienti. Infatti, la paradossalità della situazione risiede proprio nel fatto che i convitati del simposio lucianeo non sono né grandi nomi della democrazia ateniese, né rozzi liberti, ma pressoché esclusivamente filosofi. Vi è un rappresentate per ognuna delle scuole di pensiero allora più in voga: gli stoici Zenotemide e Difilo, il peripatetico Cleodemo, il platonico Ione, l’epicureo Ermone, il cinico Alcidamante; quest’ultimo irromperà nella stanza in ritardo e senza essere stato invitato (secondo il tipico modulo dell’ἄκλητος), sovrapponendosi così nella memoria all’Alcibiade platonico. L’attenzione del narratore si sofferma spesso, come del resto già in Orazio e in Petronio, a descrivere minutamente gli alimenti serviti ai commensali (cfr. § 38), anche se a Ione, non per nulla platonico, spetta il merito di tentare, sospendendo per un attimo il caos pressoché assoluto in cui il banchetto è fin da subito precipitato, di avviare una discussione costruttiva: le sue parole sono chiaramente esemplate su quelle del maestro: ἀμέλει καὶ παρὰ τῷ ἡμετέρῳ Πλάτωνι ἐν λόγοις ἡ πλείστη διατριβὴ ἐγένετο (§ 37); γένοιτ’ ἂν ἡμῖν ἐν λόγοις ἱκανὴ διατριβή (Smp. 177d ). Ma il rovesciamento parodico è immediato e assoluto: non solo Ione propone di riflettere sull’utilità o meno del matrimonio come se non si avvedesse di partecipare a un banchetto nuziale, ma inizia subito con l’esporre – senza, naturalmente, alcuna argomentazione – un’opinione quantomeno inopportuna viste le circostanze e, soprattutto, costituita da un fraintendimento della dottrina dell’Eros formulata nel grande modello del Simposio, che sfocia in un paradossale capovolgimento delle parole di Socrate: τὸ μὲν οὖν ἄριστον ἦν μὴ δεῖσθαι γάμων, ἀλλὰ πειθομένους Πλάτωνι καὶ Σωκράτει παιδεραστεῖν («La cosa migliore sarebbe, dunque, non aver bisogno del matrimonio, bensì, dando retta a Platone e a Socrate, praticare la pederastia»). A questo punto, il discorso non può che essere interrotto da una sonora risata e Ione pesantemente ingiuriato.

Rispetto ai comportamenti messi in atto dagli altri convitati, d’altronde, il fallimento del sedicente filosofo platonico passa in secondo piano: al centro dell’attenzione di Licino-Luciano stanno infatti le inenarrabili gesta di cui si rendono protagonisti i ‘dotti’ convenuti alla festa. Sin da subito, il cinico Alcidamante si fa beffe degli altri ospiti e ostenta la propria superiorità stendendosi a terra seminudo dopo aver rifiutato il triclinio; più ambigua e certo non consentanea all’idea di amore platonico (sia in senso proprio che in senso lato) è la complicità tra il peripatetico Cleodemo e un giovane coppiere a cui passa del denaro sottobanco. Tra solitarie declamazioni, agghiaccianti improvvisazioni poetiche e controversie assai poco verbali si crea nella sala una confusione tale da far passare quasi inosservato l’ingresso del buffone (γελωτοποιός), non di certo all’altezza degli illustri ospiti. Per di più, Alcidamante, oltremodo permaloso, si ritiene ferito nell’onore sentendosi apostrofare scherzosamente dal nuovo arrivato come «cagnolino maltese» e non trova migliore replica che sfidarlo al pancrazio – finendo, tra l’altro, per avere la peggio. Come si può vedere, il banchetto si muove sempre sull’orlo del disastro, in cui precipiterà definitivamente al termine del pasto, allorché si deve sgombrare la tavola: allora ciascun convitato, senza alcuna eccezione, si affanna a mettere gli avanzi del proprio piatto al sicuro dalla furia del repulisti degli inservienti; ma Difilo, ritenendo doveroso accaparrarsi anche i resti dell’assente Zenone, ingaggia un’asperrima contesa con i servi: premio ai sudori dei fieri contendenti – una gallina, brutalmente afferrata e tirata qua e là «come il cadavere di Patroclo» (Ρ 394-5). Analogamente, Zenotemide non può soffrire che Ermone riceva in sorte una gallina più grassa: indi una zuffa ancora più veemente della pregressa, condotta con armi un poco improvvisate ma di sicuro effetto: le galline stesse, impugnate dalle zampe e latrici di solenni sferzate sul viso. Finché, messi alle strette, i due augusti filosofi, afferratisi reciprocamente per la barba, chiamano a soccorso gli astanti: e quelli combatterono valorosamente (οἱ δ’ ἐμάχοντο…), dando vita ad un’epica battaglia, che trova una delle sue vette più alte nell’ἀριστεία del prode Zenotemide, il quale, impugnata una coppa come strumento balistico di fortuna, la scaglia contro Ermone. Sfortunatamente manca il bersaglio e colpisce alla testa Cherea, lo sposo, infliggendogli una profonda ferita; al che le donne intervengono in sua difesa gridando (secondo lo schema epico della βοή), sino a quando Alcidamante rovescia il candelabro e precipita la sala nel buio, permettendo così agli ospiti di abbandonarsi alle più reprimende scostumatezze (§ 46). Tra queste si possono annoverare l’uso deviato di una coppa potoria brevettato dall’inventivo retore Dionisodoro e, soprattutto, la scena su cui si chiude la narrazione degli avvenimenti occorsi al banchetto: il lume recato dai servi apre uno squarcio nell’oscurità rivelando così un Alcidamante impegnato nel tentativo di denudare la suonatrice di flauto (qui, a differenza che in Platone, suo malgrado presente) per farle violenza. Dopodiché, il simposio è sciolto, non prima, però, che l’epicureo Ermone rivolga una tagliente battuta allo stoico Zenotemide, in modo abbastanza sadico, considerato che quest’ultimo è in preda ad atroci dolori, essendo stato poco prima privato di un occhio e di un pezzo di naso dal peripatetico Cleodemo: μέμνησο μέντοι, ὦ Ζηνόθεμι, ὡς οὐκ ἀδιάφορον ἡγῇ τὸν πόνον («Allora ricorda, Zenotemide, di non considerare il dolore come indifferente»; frase tragicamente parodica se si pensa a come l’imperativo μέμνησο sia tipico dello stile della precettistica stoica, e ripetuto quasi ossessivamente in Epitteto).

Tuttavia, non bisogna pensare che Luciano si limiti a proporre ai lettori un divertissement letterario avulso da qualsivoglia preoccupazione di ordine speculativo e morale: a un certo punto (§§ 34-5) il narratore interrompe, infatti, la descrizione del banchetto per esporre una sua riflessione su ciò di cui è spettatore. Se le azioni dei filosofi presenti al convito si mostrano essere in netta opposizione con le loro stesse teorie, non è di nessuna utilità essere una persona di cultura (οὐδὲν ὄφελος ἦν ἄρα ἐπίστασθαι τὰ μαθήματα). Vedendo che chi eccelle nelle argomentazioni filosofiche non riesce a trovare niente di meglio da fare che rendersi il più possibile ridicolo, forse bisogna dare fede all’opinio communis per cui un’eccessiva dedizione ai libri e allo studio allontana dai ragionamenti corretti: la verità di tale ipotesi è immediatamente resa evidente dal fatto che, al banchetto, si può vedere la gente comune (οἱ ἰδιῶται) pranzare compostamente e bere con misura, deridendo gli eccessi degli ‘intellettuali’. La situazione, dunque, è paradossale, e la conclusione a cui perviene Luciano è che non è opportuno banchettare con tali filosofi, se non si è in cerca di guai (ἐκεῖνό γε μεμάθηκα ἤδη, ὡς οὐκ ἀσφαλὲς ἄπρακτον ὄντα συνεστιᾶσθαι τοιούτοις φιλοσόφοις).

Ma il gioco dell’intelligenza lucianea è più sottile di quanto potrebbe apparire a prima vista, dal momento che molte delle critiche da lui rivolte ai filosofi sono riprese proprio dall’autore sistematicamente parodiato nel corso della narrazione, Platone, e in particolare dall’ultima parte dell’Eutidemo (305a) e dai discorsi di Callicle nel Gorgia (cfr. in particolare 484c), esempi per eccellenza di condanna alla filosofia in quanto attività meramente astratta che conduce alla paralisi esistenziale e alla corruzione morale (cfr. HELM 1906, pp. 258-9). Così, i piani parodici del Simposio lucianeo si intrecciano al punto che i presupposti della critica condotta lungo il testo possono ritrovarsi proprio nell’ipotesto parodiato: è come se Platone disseminasse nelle proprie opere i materiali per una sorta di autoparodia, da Luciano abilmente colti e portati alle loro logiche conseguenze. Inoltre, il tagliente spirito critico della satira lucianea non è mai fine a se stesso, ma si alimenta di una profonda consapevolezza dei problemi della cultura del tempo: al fondo del suo operare artistico risiede un’inesausta esigenza di onestà intellettuale e di sobrietà morale, che lo porta a guardare con diffidenza ai grandiosi ed eterei edifici innalzati dalla ragione umana, rei di combattere crudelmente tra di loro in nome di una supposta verità e destinati a crollare su se stessi al primo contatto con l’attrito della realtà e dalla prassi. Ciò lo conduce a preferire a tali organismi elaboratissimi ma sempre e comunque artificiali l’esercizio di un sano scetticismo, di una morigerata ragion pratica e di un riso sapientemente demistificatore.

Edizioni critiche

Oeuvres de Lucien (1993-2008), texte établi et traduit par Jacques Bompaire, Les Belles Lettres, Paris

Petronii Arbitri Satyricon reliquiae (20055), ed. K. Müller, Teubner, Stutgardiae et Lipsiae

Platonis Opera (1900-1962), recognovit brevique adnotatione critica instruxit Ioannes Burnet, e Typographeo Clarendoniano, Oxonii

Quinti Horatii Flacci Opera (19593), ed. F. Klingner, Teubner, Lipsiae

Bibliografia essenziale

BESSONE F. (1993), Discorsi dei liberti e parodia del “Simposio” platonico nella “Cena Trimalchionis”, in Materiali e discussioni 30, pp. 63-89

BOMPAIRE J. (1958), Lucien écrivain, De Boccard, Paris

BRANHAM R. B. (1989), Unruly eloquence. Lucian and the comedy of tradition, Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts)-London

CONTE G. B. (1997), L’autore nascosto. Un’interpretazione del Satyricon, il Mulino, Bologna

HELM R. (1906), Lucian und Menipp, Teubner, Leipzig-Berlin

LUCIANO (2009), Il Simposio o i Lapiti, a cura di A. Z. Fregonara, La Vita Felice, Milano

ORAZIO (2009), Tutte le poesie, a cura di P. Fedeli, Einaudi, Torino

PABST W. (1986), Zur Satire vom lächerlichen Mahl. Konstanz eines antiken Schemas durch Perspektivenwechsel, in Antike und Abendland 32, pp. 136-158

PETRONIO (201015), Satyricon, a cura di A. Aragosti, BUR, Milano