[Ripubblichiamo volentieri il saggio seguente uscito nel 1995 nel testo Sei lezioni sul linguaggio del comico, a cura di Emanuele Banfi, Dipartimento di Scienze Filologiche e storiche, Trento. Ringraziamo l’autrice, prof. Paola Giacomoni.]
Molto raramente il linguaggio comico è stato un linguaggio fi losofico. Dato che storicamente la filosofia si è posta come scopo la ricerca della verità, scientifica o metafisica, mistica o religiosa, raramente ha sopportato lo sguardo beffardo tipico del comico o gli sdoppiamenti di piani che ostacolano qualsiasi possibilità di pensare a un sapere di tipo universale e necessario. Eppure, è stato detto da molti, a partire da Aristotele, il riso può avere un preciso effetto conoscitivo: proprio perché spesso presenta le cose a rovescio, diverse da come sono, proprio perché le deforma e le altera, ce le mostra come «finzioni», ci obbliga a guardarle meglio, consente di considerare lati altri menti non conoscibili.
E tuttavia, se la storia della filosofia può apparire paradossal mente come un’accozzaglia di opinioni contraddittorie e forse, come dice Descartes – citando Montaigne – in uno dei pochi passaggi ironici del Discours de la Méthode, «non si può immaginare nulla di tanto strano o poco credibile che non sia stato sostenuto da qualche filosofo» (DESCARTES 1956, trad. it. p. 301), la filosofia preferisce la polemica, il contraddittorio, lo scontro, piuttosto che l’arma a doppio taglio dell’ironia, le ambivalenze dello humor, e anche nella filosofia contemporanea, all’interno della quale pochissimi con tinuano ancora a credere in un’idea di verità universale e necessaria, si preferisce il dibattito o la sfida, qualcosa che comunque ha più affinità col tragico che col comico. Solo all’interno di tradizioni filosofiche scetticheggianti è apparso qualche testo, come i grandissimi Essais di Montaigne o il Candide di Voltaire, in cui una forma comica come l’ironia avesse un posto, e questo a causa di una concezione limitata e non universale della verità; nelle grandi opere del razionalismo classico al contrario, dove si dispiegava una ragione «forte», tendente al sistematico, il comico non trovava spazio in nessuna delle sue versioni (sul rapporto fra comico e filosofia cfr. PREZZO 1994).
Ma se la filosofia non predilige il linguaggio comico, occorre ricordare come sia accompagnata dal riso la prima figura storica di filosofo – o protofilosofo – che viene ricordata: Platone racconta nel Teeteto che il famoso Talete di Mileto, uscendo di notte per osservare il cielo data la sua professione di astronomo, cadde in un pozzo e una servetta tracia, «graziosa e arguta» che lo accompagnava, lo prese in giro dicendo che «le cose del cielo si dava gran pena per conoscerle, ma quelle che aveva davanti e tra i piedi non le vedeva affatto» (PLATONE, Teeteto, 174a). E si sa come questa immagine che Platone ci fornisce del primo filosofo divenisse poi em blematica, nei diversi modi in cui fu interpretata (cfr. BLUMENBERG 1987), dell’essenza stessa dell’atteggiamento del filosofo: egli si occupa delle stelle, metafora dell’universale, e non del particolare, del quotidiano, ma tale immagine diviene comica perché espressa per contra sto, per contrapposizione tra la pretesa serietà ed elevatezza del discorso e la banalità dell’incidente in cui il filosofo incorre, che quella elevatezza abbassa, svilisce.
Proprio questo è un esempio estremamente adeguato – ma stranamente non citato – per la teoria del comico che Henri Bergson espresse nel saggio Le rire, pubblicato nel 1900, e che ruota intorno a un’idea centrale, a una figura essenziale e paradigmatica: il distratto. Per Bergson infatti tutto ciò che si presenta come maldestro, come non agile, frutto di un automati smo cieco anziché di vivente duttilità, suscita il riso e fonda il comico (BERGSON 1963, pp. 391ss., trad. it. pp. 8ss.). La distrazione come fonte del comico, tesi inusuale e fortemente originale che Bergson presenta in un saggio bellissimo e fulminante, di forte tensione teoretica e di grande scrit tura, dove il fenomeno comico viene analizzato da un punto di vista eminentemente filosofico, e cioè non tecnico e nemmeno puramente fenomenologico, o semplicemente descrittivo, ma tentando di vederne la genesi, i modi e i motivi per cui sorge, percorrendo moltissime delle sue molteplici forme come va riazioni su un unico tema di fondo: la distrazione.
Variazioni su un tema, questa la prospettiva metodologica en tro la quale Bergson vuole lavorare in questo saggio: non è una definizione che vuole dare, non qualcosa di rigido che chiude e limita un fenomeno che al contrario è molteplice, ma un leit-motiv, un’idea guida, cui far riferimento e orientarsi nei multiformi aspetti del comico.
La nostra scusa [ … ] è che noi non aspiriamo anzitutto a chiudere la fantasia comica in una definizione. Noi vediamo in essa, in primo luogo, qualcosa di vivente, e, per quanto leggera essa paia, le useremo il rispetto che si deve alla vita, limitandoci a guardarla sbocciare e crescere. A poco alla volta, con insensibili gradazioni, compirà sotto i nostri occhi molte metamorfosi singolari. Le osserveremo tutte, nessuna trascurandone. (BERGSON 1963, p. 387, trad. it. pp. 8ss.)
E per essere più chiaro sul metodo da seguire Bergson usa due immagini, la prima, proveniente dal mondo della matema tica che egli ben conosceva (cfr. MILET 1974 e CAPEK 1971), quello della curva cicloide, o roulette, studiata a suo tempo da Pascal, che combina la linea retta con la curva e che si presenta quindi come figura geometrica ben individuata che ha la caratteristica di poter essere pensata come figura del movimento, e la seconda, più parigina, quella del bosco di Fontainbleau (BERGSON 1963, p. 404, trad. it. p. 25), che presenta diversi crocicchi da cui si dipartono, in direzioni divergenti, molte strade. Così il comico può essere analizzato a partire da un centro – l’idea di distra zione – che si sviluppa per serie divergenti e che è quindi sempre meno riconoscibile quanto più da esso si allontana, ma cui rimane, anche se indirettamente, sempre legato, essendone una variazione. Questo in coerenza con gli assunti filosofici delle sue opere maggiori, l’Essai sur les données immediates de la conscience del 1889 e Matière et mémoire del 1896, secondo cui i fenomeni dello spirito non si presentano in una successione spazio-temporale basata sulla ripetizione e la prevedibilità, ma sulla novità, sulla divergenza delle serie, sul non identico, sull’i dea della vita come invenzione, come dirà nell’Évolution créatrice del 1907, irriducibile alla somma delle esperienze passate, ma essenzialmente pensabile come molteplicità, non conosci bile adeguatamente attraverso il carattere puramente formale della razionalità.
Prima di esporre compiutamente tale ipotesi centrale tuttavia Bergson premette tre osservazioni generali, potremmo dire tre pre-condizioni del comico, alcuni punti che non ne definiscono ancora l’essenza e la genesi, ma che sono da intendere come elementi indispensabili, come condizioni necessarie anche se non sufficienti – nel linguaggio matematico tanto spesso usato da Bergson – alla comprensione del fenomeno stesso.
Anzitutto la delimitazione del comico alla sfera dell’umano; l’ambito dell’inanimato e anche quello dell’animalità è estraneo al comico; e questo ci fa già intravvedere la direzione in cui Bergson si muoverà, una direzione legata a quel dualismo du rata/spazialità, memoria/materia, spirito/meccanismo – tipico delle sue opere fino a questa fase, poi fortemente attenuato – che solo nell’umano ha il suo luogo deputato. In sostanza, solo dove c’è una coscienza in contrasto possibile con qualcosa d’altro può nascere il comico; l’animale o il paesaggio può essere comico solo se presenta qualche interferenza con l’umano, qual che segno di manipolazione o altro che mostri l’intervento dello spirituale, di un’azione umana consapevole.
Seconda condizione: il riso si rivolge alla pura intelligenza, presuppone l’assenza di quella sensibilità per la quale noi ci identifichiamo con le vicende altrui e ne partecipiamo: il riso presuppone quella insensibilità, quella «anestesia momentanea del cuore» (BERGSON 1963, p. 389, trad. it. p. 6) senza la quale esso è impossibile, motivo questo ri preso più volte, soprattutto nell’ultima parte, quando si tratta di distinguere il comico dal tragico. Se il tragico infatti, da Aristotele in poi, implica uno stretto rapporto con le passioni, che contribuisce, con lo schema catartico, a purificare, il co mico al contrario presuppone quel distacco che solo ci consente di considerare le vicende alle quali assistiamo come scene di una commedia, come qualcosa di rappresentato e quindi in un certo senso indifferente moralmente. Punto sottolineato da molte teorizzazioni del comico, ma qui presentato in modo particolarmente perspicuo e immediato: basta ad esempio se parare la musica dalla danza, osserva Bergson, per percepire quest’ultima come sforzo fisico insensato, come movimento privo di significato se considerato al di fuori da ciò che (la mu sica) lo rende significativo: e si intravvede già qui l’immagine della marionetta, che sarà al centro della prima parte del testo.
In terzo luogo, dice Bergson, il riso richiede un’eco, esige una comunità, una risonanza, una circolazione che non vada all’infi nito, ma che implichi una complicità, un «pensiero nascosto d’intesa» (ibidem) derivato dalla comunanza di pensieri e idee tipici di ogni gruppo di persone. Il comico è spesso intraducibile perché non è universale, perché implica un circuito chiuso, perché spesso passa attraverso le mille invenzioni del linguaggio, o meglio dei diversi linguaggi e delle diverse lingue tipiche di gruppi o di nazioni. Non esiste secondo Bergson il riso solitario, il riso è sempre comunicazione, ma non è indifferente al mezzo entro cui avviene, alla situazione in cui sorge, mentre, ancora una volta, il tragico non conosce tale limitazione. Questo perché la prospettiva bergsoniana non è una prospettiva psicoanalitica come quella freudiana e nemmeno come quella del Pirandello dell’Umorismo, ma una prospettiva legata alla funzione sociale del riso, alla sua collocazione in una società e che giudica di es senziale valore non solo il modo in cui il riso sorge ma anche gli effetti sociali particolari che esso produce.
Ma ecco l’ipotesi centrale del saggio, la «condizione sufficiente» del comico: il distratto. Nell’esempio da cui parte il ragionamento e anche l’esemplificazione bergsoniana, quello del passante che inciampa e cade suscitando così il riso degli astanti, ritroviamo l’essenziale, l’invariante di tutto il testo: il comico è essenzialmente distrazione, e cioè interruzione di qualcosa di fluido, di continuo, di mobile, che presuppone un ritmo vi vente, una cadenza vitale e che viene in qualche modo reso ine lastico, irrigidito con l’inserzione di un’altra logica, ad esso con trapposta ed estranea. Il comico nasce allorché troviamo «una certa rigidità di meccanismo, là dove si vorrebbe trovare l’at tenta agilità e la vivente pieghevolezza» (BERGSON 1963, p. 391, trad. it. p. 8). Più oltre Bergson parlerà dell’incepparsi o irrigidirsi di una vivente catena di eventi ad opera «di qualcosa che è assimilabile a un meccanismo, a un decorso artificiale e discontinuo che contrasta in modo pa lese con la continuità della vita e della vita sociale». Tutto ciò che si presenta come maldestro, come non agile, frutto di un automatismo cieco anziché di vivente duttilità fonda il comico e su scita il riso. E non pensa Bergson solo alla distrazione esteriore e momentanea, ma anche a quella che chiama sistematica e che definisce quei caratteri incapaci di adattarsi alle esigenze della vita sociale, la cui psicologia, come quella di Don Chisciotte, «inciampa nella realtà» e non si modella su di essa.
In generale tutto ciò che si presenta come un irrigidimento, una fissazione, un consolidarsi di un atteggiamento o di un’idea provoca il riso: e fondamentale per questa spiegazione è l’ipo tesi che sia possibile pensare la società come un organismo vi vente, che essa stia insomma dalla parte della fluidità e della vita, della tensione e dell’elasticità, e non da quella della convenzione, dell’irrigidimento in costumi codificati e accettati come este riori, vissuti dagli individui come estranei o «inautentici», come invece avviene nel Pirandello del saggio sull’umorismo. Un’idea che proviene dalla sociologia positivistica in generale e da quella spenceriana in particolare, su cui Bergson si era formato, e che ricorda anche i concetti fondamentali della contemporanea sociologia di Durkheim, ma che egli riporta qui senza approfondimenti, senza analisi alcuna, come una sorta di dato scontato, un’idea di senso comune accettata senza esame, in base a una metafora di origine biologica molto diffusa all’epoca e assunta senza discussioni, senza la quale tuttavia tutta la sua ipotesi sul comico non sta in piedi, pietra angolare di un ragionamento stranamente inanalizzata e superficiale. Non è un caso infatti che proprio a causa della debolezza di tale elemento di fondo l’ipo tesi stessa sul comico possa, nell’ultima parte del saggio, essere messa anche se non apertamente in discussione con l’accostamento a un punto di vista diverso, che implica una visione op posta della società, come luogo della convenzione e del con formismo, anziché della continuità e della vita. Ma si tratta di un’incrinatura non esplicita, non chiaramente avvertita dallo stesso Bergson, a nostro avviso proprio per lo scarso grado di analiticità di quella stessa idea di organismo sociale.
Quest’immagine del rapporto individuo/società è in ogni caso assolutamente fondamentale nella spiegazione bergsoniana del sorgere del riso: esso è infatti considerato come un «castigo sociale», come risposta «lieve» perché ilare agli elementi di insoc iabilità, di isolamento, e in questo senso di irrigidimento che di tanto in tanto si manifestano nel corpo sociale:
La società e la vita esigono da ciascuno di noi una attenzione costante mente sveglia, che discerna i contorni delle situazioni d’ogni momento ed anche una certa elasticità del corpo e dello spirito che ci metta in grado di adattarvici. «Tensione» ed «elasticità» ecco due forze complementari l’una all’altra che la vita mette in ballo […]. Perciò adunque risponderà con un semplice gesto; il riso deve essere qualcosa di simile genere, una specie di gesto sociale. Per il timore che ispira reprime le eccentricità, tiene costan temente sveglie e in reciproco contratto certe attività di ordine secondario che rischierebbero di isolarsi e di addormentarsi, rende flessibile la parte rigidamente meccanica che aderisce alla superficie del corpo sociale. (BERGSON 1963, p. 395, trad. it. pp. 13-14)
Il riso è quindi sempre conformista, sempre conservatore, ha il compito di riportare al tutto ciò che pretende di valere per se stesso, punisce ogni forma di isolazionismo, quindi anche di ec centricità, di deviazione, di trasgressione. Certo, la deviazione è qui sentita come un disvalore, come una perdita, come un’incosciente caduta nel meccanismo, in un irrigidimento che è para gonabile alla morte nella filosofia di Bergson. Se la vita dello spi rito è durata, come aveva affermato nel Essai sur les données immediates de la conscience, se è mutamento, innovazione e continuità, se è molteplicità non discreta, ma in organica relazione con se stessa, il riso, con la sua funzione correttiva, riporta alla vita, redime dalla caduta, riporta alla coscienza ciò che per un momento era stato gesto inconsapevole e automatico. Se il comico è il meccanico, l’inelastico, l’isolato, il riso riporta la continuità del vivente, che richiede il fluido legame col tutto.
E spesso, come osserva Vittorio Mathieu, Bergson nelle sue opere si trova paradossalmente a spiegare il meno e non il più, l’assenza e non la presenza, la dimenticanza e non la memoria, ciò che si discosta dalla vita o tende a negarla, ciò che la vela e la pone in disvalore (MATHIEU 1971, p. 157) e questo vale tanto più nel caso del comico, in cui si parla di una caduta, di una perdita, di un disvalore nel mondo bergsoniano, che solo l’amaro sapore del riso può ri scattare. Ed è da questo punto di vista che occorre considerare tutta la variopinta galleria di marionette, di fantocci, di caricature, di imitazioni, di gesti inconsapevoli e rigidi di cui Bergson parla nel saggio, a partire appunto dal comico delle forme o delle fisionomie. E allora l’arte del caricaturista e dell’imitatore consiste nel far venire alla luce quanto di automatico e di ripetitivo si cela nel comportamento degli individui, quanto si presta ad essere duplicato, riprodotto, generalizzato, anziché rimanere segno ir ripetibile dell’individualità. Ecco perché i sosia sono spesso comici – quando non sono angoscianti per la perdita di identità di cui sono segno – e le somiglianze fanno ridere: la vita che non si ripete mai qui mostra segni di automatismo, segni mec canici, che il riso svela umiliando e stimolando l’autocorrezione; ecco la marionetta, il fantoccio, di cui possiamo vedere i fili e che nega in linea di principio la vita, la sua indipendenza, la sua fluida elasticità non eteronoma. Al contrario di Kleist, che nel famoso saggio del 1810 Über das Marionettentheater aveva sostenuto che la marionetta, in quanto si muove sempre intorno al proprio asse, incarna la grazia che manca all’uomo, la leggerezza e l’eleganza di cui l’uomo fornito di ragione è incapace (KLEIST 1986, pp. 473-480, trad. it. pp. 30-36), per Bergson la marionetta è fantasma di morte, è contraffazione e caricatura degli elementi di perdita e di mancanza, è puro meccanismo senza vita, emblema compiuto del comico nel segno della caduta e del disvalore.
Nello stesso senso sono da interpretare fenomeni come la maschera o la moda: involucri esterni che coprono il corpo vivente, che ne fissano un’espressione o un momento nel tempo, e diventano comici quando questo coprire diventa visibile e non si confonde con ciò che sta sotto; nello stesso senso i cerimoniali, se pensati solo nella loro forma, come comportamenti insensati, privi di significato, divengono comici. «Qualcosa di meccanico applicato al vivente» (BERGSON 1963, p. 405, trad. it. p. 25): questa la formula, l’invariante intorno alla quale il discorso bergsoniano gira in mille variazioni, anche le più inattese. In questa cifra anche la pinguedine, come caricatura del corpo, può essere comica (analoga spiegazione di PROPP, trad. it. pp. 34ss.), e in generale tutte le volte che il corpo prende il sopravvento sull’anima, e in senso traslato, la forma oltrepassa la sostanza, la lettera contrasta lo spirito, si può «temere un’inflitrazione comica». E qui Bergson cita Napoleone e la scena del suo incontro con la regina di Prussia dopo la battaglia di Jena, in cui, per spezzare la tensione tragica che regnava, l’imperatore prega la regina di sedersi, consapevole che «nulla spezza meglio una scena tragica quanto l’essere seduti: si passa subito alla commedia» (BERGSON 1963, p. 412, trad. it. p. 35). Se del corpo prevalgono gli elementi puramente materiali, fisici, spaziali, se in primo piano vengono i suoi bisogni, il suo essere «mancante», esso non appare più come corpo vivente, vivificato dallo spirito, ma come pura pesantezza, e sarà ciò che la veste era per il corpo, semplice «materia inerte posata su un’energia vivente» (BERGSON 1963, p. 411, trad. it. p. 33).
Si sa come per Michail Bachtin nella sua opera su François Rabelais e il carnevale il corpo fosse la chiave, il puntello e la spiegazione del particolare rovesciamento che il carnevale operava rispetto ai valori della tradizione, rispetto alla gerarchia, rispetto agli assoluti di ogni tipo che erano al centro della cultura medievale. E se tale rovesciamento, se il carnevale come «spettacolo eversivo universale» opera una sorta di orientamento verso il basso di ogni elemento sociale, verso la materia e il corpo, che diventano protagonisti di tale «mondo alla rovescia», ciò non significa tuttavia per Bachtin perdita di valore, affievolimento dell’energia vitale, ma al contrario indica la possibilità di far emergere, «al di sotto» degli assoluti, un universo vitale e in movimento, un mondo che, per essere fondato sulla materialità e sul corpo rifiuta ogni fissazione, ogni assoluto e rivendica in positivo la propria incompiutezza, il proprio essenziale trasmutare. In questa prospettiva nascita e morte non sono più legate alla paura, ma vengono inserite in un ciclo vitale di trasformazione che si esprime in un gioioso relativismo, in un’immagine dell’uomo laica, materialista, solidale, libera da dogmi e capace di produrre una cultura compiutamente altra e diversa, che prefigura la possibilità di emancipazione delle classi subalterne. E la rottura dell’unicità ad opera della molteplicità comica non significa interruzione di un ciclo vivente, non significa inelasticità, incapacità di adattamento al ritmo della vita che la società rappresenta in metafora, ma al contrario liberazione di molte possibilità, apertura a quella polisemia, a quella molteplicità di significati che è al centro del pensiero bachtiniano anche sulla teoria del romanzo. Lasciarsi percorrere dal doppio, dalle molte voci significa il contrario della fissazione schematica che blocca la vita in una smorfia come per Bergson, implica la possibilità di pensare a un mondo culturale totalmente diverso da quello monolitico medievale, un mondo che si presenta al contrario come apertura di possibilità positive (BACHTIN 1965, trad. it. pp. 69ss.).
La spiegazione del diverso atteggiamento è evidente – e questo vale anche per molti altri autori che si sono più o meno estesamente occupati del comico in un senso simile a quello bachtiniano -: dato il carattere essenzialmente sociale del comico, esso reagisce a contrario rispetto al tipo di società cui si trova di fronte: se la società è quella monolitica, dogmatica e gerarchica medievale di cui parla Bachtin, il comico appare come liberatoria trasgressione, travolgente e positiva rottura che può portare il nuovo. Se la società cui si pensa è invece investita di un valore positivo e presentata come un organismo vivente, il riso sarà inevitabilmente perdita, caduta, meccanismo. In ogni caso, come si vede, il comico opera un rovesciamento di valori, all’ingiù o all’insu; in ogni caso reagisce attraverso uno schema di contrasti alla particolare «normalità», alla specifica «regola» cui si trova di fronte. Il riso ha comunque a che fare con l’ordine, con la sua violazione e il suo ripristino, e cambia la sua valutazione a seconda di quale sia l’elemento messo in valore.
Occorre dire tuttavia che ci sono alcuni spunti nel testo bergsoniano che sembrano prendere una direzione diversa da quella presentata finora: già nella prima parte Bergson accenna all’importanza e alla particolarità della fantasia comica, alle sue analogie con la logica del sogno, o anche alla possibilità di considerarla come un’energia vivente, o come «una singolare pianta che ha germogliato rigogliosamente sulle pareti rocciose del suolo sociale» (BERGSON 1963, p. 417, trad. it. p. 42), dove si intravvede un modo tutto diverso di considerare la società, che dalla biologia si sposta alla geologia, che parla di una sua ‘ossificazione’ e le fa occupare un luogo metaforico molto lontano dal primo. Accenni che continuano e si approfondiscono nel secondo capitolo e che troveranno espressione notevole nell’ultima parte.
Il secondo capitolo, dedicato al comico delle azioni e delle situazioni con particolare riferimento alla commedia, si apre infatti con un ampio accenno al comico nel gioco infantile, in cui si afferma anche una particolare analogia tra l’elemento fantastico presente nel gioco e quello tipico del comico in generale, quasi che il gioco infantile, con i suoi fantocci e le sue marionette, costituisca «il primo abbozzo delle combinazioni che fanno ridere l’uomo (BERGSON 1963, p. 418, trad. it. p. 45), una sorta di archetipo della commedia. Sembra in questi accenni che il discorso bergsoniano possa andare in una direzione simile a quella che Freud sceglierà nel saggio Der Witz und seine Beziehungen zum Unbewußten, pubblicato nel 1905 e inserito nella bibliografia pubblicata nella riedizione di Le rire del 1924 (BERGSON 1963, p. 384, non nella trad. it.; sui rapporti tra Freud e Bergson cfr. POLITZER 1970). Sembra quasi che Bergson a questo punto riconosca all’immaginazione comica una dignità e un’indipendenza rispetto alla logica ordinaria che mancava fin qui, un’indipendenza che si avvicina forse appunto a quella di cui parla Freud a proposito dell’inconscio e che significativamente lega comico e gioco infantile. In un passo del primo capitolo Bergson aveva infatto utilizzato metafore di fluidità a proposito del comico:
V’è dunque una logica della immaginazione diversa da quella della ragione – che, anzi, talvolta le si oppone e sulla quale bisogna tuttavia che la filosofia faccia affidamento non solamente per lo studio del comico, ma per tutte le ricerche dello stesso ordine. […]. Per ricostruirla è necessario uno sforzo del tutto speciale, col quale si solleverà la corteccia esterna di giudizi ben assodati e di idee solidamente fondate per lasciar scorrere (come una vena di acqua sotterranea) una certa continuità fluida di immagini che si compenetrano le une nelle altre. (BERGSON 1963, p. 407, trad. it. p. 28)
Si tratta solamente di un accenno, ma come si vede estremamente significativo di un’altra possibilità interpretativa all’interno del testo bergsoniano, secondo la quale il comico sarebbe il contrario dell’irrigidimento e della fissazione, qualcosa di ordine completamente diverso quando non addirittura opposto. Sarebbe l’immaginazione inoltre a far emergere l’effetto comico in molte scene, come nell’esempio per cui ridiamo di un negro perché è l’immaginazione e non l’elemento percettivo – e quindi pratico per Bergson – che ci consente di pensarlo come un bianco mal lavato o imbrattato di inchiostro (sull’immaginazione nella teoria bergsoniana del comico cfr. CIVITA 1984, pp. 17ss.).
Non è la semplice percezione in questo caso a scatenare il comico, ma una facoltà più inafferrabile, fornita di un andamento singolare che ci consente di interpretare e di valorizzare, quindi in un certo senso di alterare il reale, di conoscerlo in modo non riproduttivo, secondo una prospettiva diversa da quella abituale, da quella legata ai necessari schemi dell’azione, e vicina invece a ciò che Bergson chiama la logica del sogno. Ma riprenderemo più oltre tale osservazione.
Il riferimento ai giochi infantili, nonostante tale possibilità alternativa, si snoda tuttavia principalmente lungo il filone già individuato del comico come «qualcosa di meccanico sovrapposto al vivente». I tre esempi riportati, quello del diavolo a molla, del fantoccio con le cordicelle e della palla di neve sono presentati sulla base di quel modello e servono per individuare tre criteri fondamentali di classificazione del comico delle situazioni e anche del comico del linguaggio.
Il diavolo a molla è l’esempio del comico fondato sulla ripetizione, sulla risibilità di un movimento o di una situazione che si ripete, che si mostra più volte come nel caso di varie scene delle commedie di Molière, autore che Bergson cita spessissimo e di cui, a mo’ d’esempio, riportiamo una parte della scena quinta dell’atto terzo del Malade imaginaire, in cui il medico Purgon rimprovera Argan per non aver preso la medicina da lui ordinata:
PURGON: Vi faccio sapere che vi abbandono alla vostra cattiva costituzione, all’intemperie delle vostre viscere, alla corruzione di vostro sangue, all’acrimonia della vostra bile e alla feculenza dei vostri umori.
TOINETTE: Fate benissimo.
ARGAN (a Purgon): Mio Dio!…
PURGON (interrompendolo): Prima che passino quattro giorni voglio
che vi troviate in uno stato incurabile…
ARGAN (interrompendolo): Ah misericordia!
PURGON: Che vi colga la bradipepsia…
ARGAN (interrompendolo): Ser Purgon!
PURGON: Che dalla bradipepsia passiate alla dispepsia…
ARGAN: Ser Purgon!
PURGON: Dalla dispepsia all’apepsia…
ARGAN: Ser Purgon!
PURGON: Dall’apepsia alla lienteria…
ARGAN: Ser Purgon!
PURGON: Dalla lienteria alla dissenteria…
ARGAN: Ser Purgon!
PURGON: Dalla dissenteria all’idropisia…
ARGAN: Ser Purgon!
PURGON: Dalla idropisia alla perdita della vita, cui vi avrà condotto la
vostra pazzia
(MOLIERE 1971, trad. it. p. 243)
Ciò che di questa scena Bergson sottolinea non sono tanto i molti artifici linguistici, l’uso di una terminologia tecnica cui pure accennerà alla fine dell’opera (BERGSON 1963, p. 473, trad. it. p. 115), la centralità del corpo, ma quel ritornare ossessivo di «Ser Purgon!» che nella sua ripetizione fa proprio pensare al diavolo a molla che, uscendo fuori continuamente dalla scatola in cui lo ricacciamo produce un effetto meccanico tipicamente comico.
Il secondo esempio, quello del fantoccio a cordicelle, introduce l’idea della interferenza delle serie: ciò che fa ridere del fantoccio è da un lato la esplicita dimensione meccanica, ma anche d’altra parte il fatto che esso è semplicemente «un trastullo nelle nostre mani» (BERGSON 1963, p. 424, trad. it. p. 52), qualcosa che, essendo privo di consapevolezza può essere «giocato» a nostro piacere, così come molti personaggi della commedia, nella tipica situazione del quiproquo vengono «gabbati» quando, perseguendo i loro scopi, vengono a interferire con altre vicende ad essi estranee e della cui interferenza sono inconsapevoli, esattamente come il fantoccio infantile. E sarebbe facile fare esempi tratti dal comico dei nostri giorni, come quello basato sulla tecnica della candid camera, in cui l’effetto comico nasce proprio da questa visione «alle spalle», all’insaputa della vittima dello scherzo.
Terzo elemento, esemplificato dal gioco della palla di neve che rotola e ingrandisce rotolando e producendo un effetto a catena, anch’esso puramente meccanico, è l’inversione. L’effetto a catena – i soldatini di piombo allineati che cadono l’uno addosso all’altro moltiplicando il movimento iniziale – è già comico quando è rettilineo, dice Bergson, ma lo è maggiormente quando gli effetti finali della vicenda tornano semplicemente al punto di partenza, come in molti esempi citati nel testo, o come in molti casi di commedia o di vaudeville del tipo «il ladro derubato», «l’imputato che fa la morale al giudice», tutti quei casi di «mondo alla rovescia» in cui le parti vengono scambiate, rovesciate rispetto alla realtà, e producono sicuramente quell’effetto a sorpresa, o quell’insensatezza con cui ad esempio Kant proponeva di spiegare il comico, ma che, senza l’elemento meccanico, che solo può essere pensato come reversibile, non è secondo Bergson sufficiente a spiegarne l’essenza.
Molti sono gli esempi che Bergson porta dal mondo della commedia, che egli ben conosceva, ma data la tensione teoretica del saggio, essi non sono proposti a caso, o in modo puramente descrittivo, ma secondo questi tre criteri che non sono pensati semplicemente in funzione di una classificazione delle tecniche comiche, o delle differenti possibili situazioni da commedia, ma che sono individuati a partire da una precisa scelta teorica, per la quale essi rappresentano la meccanizzazione della vita, la riduzione della sua vitale mobilità a morto artificio e che sono quindi per questa via riconducibili all’ipotesi iniziale della comicità come distrazione, interruzione della vita ad opera di un meccanismo.
Come Bergson aveva sostenuto nell’Essai sur les données immediates de la conscience, i fenomeni che hanno luogo nel tempo, e cioè nella durata pura, si presentano nel segno della irripetibilità, dato il carattere al tempo stesso continuo e molteplice della loro successione: la molteplicità che caratterizza tali fenomeni è infatti basata sulla divergenza delle serie, sul carattere sempre innovatore, trasformatore dei fenomeni interiori, sulla loro irriducibilità al numero, alla sua discretezza e discontinuità. Tra loro per questo si danno differenze di natura e non di grado e la possibilità del cambiamento viene identificata nel concetto di virtualità, tipico e centrale del mondo concettuale bergsoniano. E il termine ‘virtuale’ – che ritroviamo anche ne Le rire – viene introdotto proprio per sottolineare come l’idea della possibilità non sia da intendere in funzione delle leggi della somiglianza e della limitazione, in base alle quali è il reale a costituire l’immagine del possibile (cfr. DELEUZE 1966, trad. it. pp. 89ss.), ma in base alle leggi della divergenza e della creazione, criteri che garantiscano concettualmente il carattere innovativo dei fenomeni che avvengono nella durata. Se il virtuale che caratterizza i fenomeni della memoria, come si dice in Matière et mémoire, si attualizza per divergenza, per differenziazione, nelle opere successive e segnatamente nell’Évolution créatrice Bergson dirà che in generale i fenomeni vitali hanno questo andamento, e che la vita è invenzione, e cioè mutamento, trasformazione continua, novità, irreversibilità, irripetibilità, caratteristiche come si vede rovesciate, e per Bergson in positivo, rispetto a quelle che sono servite per classificare le varie forme del comico di situazione o della commedia. E anche la terza caratteristica, quella della interferenza delle serie, si presenta come il negativo o il rovescio di una delle caratteristiche fondamentali dei fenomeni spirituali, se facciamo riferimento all’Essai, o più in generale ai fenomeni vitali se consideriamo anche le opere pubblicate dopo Le rire. Se il bergsonismo, come dice Jankélévitch (JANKÉLÉVITCH 1959, trad. it. pp. 20ss.), è una «filosofia della pienezza», ciò significa che l’immagine dell’organismo ne guida la comprensione, e tale immagine implica un’idea del rapporto tra le parti e il tutto che fonda l’individualità come «unità originale e concertante», non smontabile in pezzi e rimontabile, non fungibile, per sua natura non scambiabile con altre individualità, ma in quanto tale continua e chiusa nel suo essere, completo e organico. Jankélévitch parla di un’influenza dell’idea leibniziana di monade a questo proposito e di quella, ad essa collegata, di microcosmo, che riflette l’universo intero, il macrocosmo; comunque sia, l’esclusione dell’idea di interferenza delle serie dai fenomeni della vita si riferisce ai concetti più centrali dell’atteggiamento filosofico bergsoniano.
Il comico risulta quindi, come si è già osservato, come il contrario della vita, come il suo rovescio, il negativo, e qualcuno per questa ragione non illeggittimamente ha parlato del comico come morte, come negativo non solo in senso logico, ma anche in senso valutativo, come totale assenza di valore, di consistenza ontologica (SANTARCANGELI 1989, p. 322). E tale sostanziale svalutazione a ben guardare risulta paradossale per un autore che dedica uno studio tanto approfondito al fenomeno comico, al quale dà quindi la dignità di oggetto filosoficamente rilevante e impegnativo, ma vedremo che anche nel confronto tra tragedia e commedia ritroveremo in sostanza tale svalutazione del comico che in fondo si inserisce senza rotture in una tradizione che da sempre lo considera come di secondo grado, come inferiore rispetto ad altre forme d’arte.
Ma, prima di discutere l’ultima parte del saggio, occorre far almeno un cenno alla parte dedicata da Bergson al comico del linguaggio, al comico che, come dice il testo, il linguaggio crea, oltre che esprimere (BERGSON 1963, p. 436, trad. it. p. 67), quello cioè che si fonda su alcune specifiche caratteristiche del linguaggio e di ogni lingua in particolare. E l’intraducibilità di gran parte di questi fenomeni da una lingua all’altra è espressione al massimo grado di quella precondizione iniziale del comico per cui esso si riferisce essenzialmente a una comunità chiusa, che ha, oltre che delle credenze e dei valori comuni, anche un suo linguaggio, o un suo gergo, entro il quale si esprimono quelle complicità, quelle immagini sintetiche allusive che sono facili produttrici del comico. L’ambito del linguaggio stabilisce quindi la misura più ristretta del comico, quella legata alla particolare cerchia dei parlanti, che può essere identificata non solo in una nazione, ma anche in piccoli gruppi e sottogruppi, come ad esempio quelli giovanili, purché presentino degli elementi di omogeneità, anche se temporanei e limitati ad una sola dimensione dell’esistenza. Anche il comico del linguaggio viene classificato in base ai tre criteri individuati sopra, della ripetizione, della inversione e della interferenza delle serie, ma, al di là delle classificazioni, i molti esempi che Bergson riporta, mostrano la sua notevole consapevolezza e anche competenza nel campo dei fenomeni linguistici, mostrano come la tesi da sostenere non offuschi la capacità osservativa e non limiti l’indagine empirica in ogni direzione possibile.
Il comico svela nel linguaggio le rigidità, gli automatismi, i tic: la classica tecnica di alterazione di una frase fatta sostituendo un elemento estraneo che la rende assurda («Questa sciabola è il più bel giorno della mia vita», BERGSON 1963, p. 441, trad. it. p. 73) la mostra come ‘distrazione’, come sostituzione della fluidità spirituale del linguaggio con stereotipi fissati in formule, come ripetizione dove si vorrebbe trovare l’irripetibile della vita dello spirito; l’altra tecnica classica del comico del linguaggio, il passaggio dal significato metaforico a quello letterale delle parole («Tutte le arti sono cugine», BERGSON 1963, p. 442, trad. it. p. 75) viene interpretata come un passaggio «abbassante» da elementi spirituali ad altri fisici, reali, corporei, per analogia col comico delle forme. Interessante anche l’individuazione di elementi di ripetizione nel semplice mutamento di tono in cui una frase è pronunciata rispetto al normale: basta passare dal solenne al familiare (dall’alto in basso) o anche dal familiare al solenne (quindi dal basso in alto) per ottenere un sicuro effetto comico: basta cioè pronunciare una frase in un tono diverso da quello appropriato, o anche solo pensare per confronto al tono normale perché scatti il riso. L’inversione, tecnica molto usata, rappresenta sul piano linguistico quel ‘mondo alla rovescia’ di cui abbiamo parlato sopra: come là si ribaltava la prospettiva, il modo di guardare, il comico si sprigiona qui con il semplice rovesciamento della frase («Perché mettete la vostra terrazza sotto le mie pipe?», BERGSON 1963, p. 444, trad. it. p. 77). Nella rubrica dell’interferenza infine Bergson fa rientrare tutto l’amplissimo campo dei giochi di parole, dei doppi sensi, degli scambi linguistici, che sono secondo l’autore il corrispettivo linguistico del doppio comico teatrale, dell’equivoco della commedia. «Il gioco di parole, dice Bergson, ci fa pensare a una noncuranza del linguaggio, che dimentichi, per un momento il suo vero scopo e pretenda di regolare le cose su di sé, anziché regolarsi esso sulle cose. Il gioco di parole svela dunque sempre una distrazione momentanea del linguaggio ed è comico per questo» (BERGSON 1963, p. 445, trad. it. p. 78).
E nonostante l’apparente rigidità della classificazione, necessaria per ancorare tutta la spiegazione all’ipotesi centrale, ci sembra che proprio qui, dove pure l’ipotesi iniziale appare di più difficile applicazione, data la lontanaza dall’ambito in cui essa era nata, il ragionamento bergsoniano mostri nettamente la sua efficacia, capace di tener conto di moltissime delle tecniche linguistiche più note e di ordinarle secondo un criterio teorico, che si mostra come sufficientemente generale da poter essere applicato in modo non meccanico a un insieme davvero eterogeneo qualitativamente ed amplissimo quantitativamente di fenomeni, fornendo una chiave interpretativa che potrà anche non convincere completamente ma che sicuramente presenta una notevole potenza esplicativa. Più deludente invece la parte in cui Bergson accenna ad alcuni aspetti del comico del linguaggio che sono stati tradizionalmente incasellati nei fenomeni dello «spiritoso», dell’«umorismo», dell’«ironia», dove il testo accenna, ma stavolta davvero di sfuggita alle diverse forme di comicità dei vari popoli: l’umorismo inglese, con le citazioni da Sterne e da Thackeray, l’ésprit francese, interpretato come accenno fuggevole a una situazione da commedia, in un modo tuttavia che, rispetto ad altre trattazioni di quegli anni, per esempio quella dell’Umorismo di Pirandello, si rivela piuttosto superficiale (cfr. PIRANDELLO 1992, pp. 3ss. e SANTARCANGELI 1989, pp. 11-28).
L’ultima parte di Le rire è forse la più importante da un punto di vista teorico e sicuramente la più trascinante da un punto di vista letterario, in cui la grande scrittura bergsoniana si produce in uno splendido crescendo che si accompagna a un grado notevole di penetrazione teorica che seduce e «persuade» il lettore. Ciò non toglie però che proprio in quest’ultima parte emergano con più nettezza quegli elementi aporetici, quelle oscillazioni che abbiamo fin qui solo intravisto per accenni. Il tema centrale è quello, più volte affrontato nel testo ma qui reso cruciale, del confronto tra tragedia e commedia da un punto di vista tecnico, formale, strutturale, e cioè come generi letterari, ma anche e soprattutto come forme di conoscenza, come peculiari modi di rapporto tra individuo e mondo. Riprendendo i criteri di classificazione tipici della tradizione, tragico e comico sono visti rispettivamente come luogo delle passioni e come ambito dell’esercizio della pura intelligenza. La tragedia consente l’identificazione del pubblico con la vicenda e i personaggi, e provoca aristotelicamente la purificazione di passioni quali pietà e terrore attraverso la catarsi. Per questo la nota fondamentale che la caratterizza si estenderà a tutti i personaggi e situazioni, fino a farne un’opera unitaria e «armonica» (BERGSON 1963, p. 454, trad. it. p. 92). La commedia invece, lo sappiamo, presuppone quella distanza, quella non identificazione senza la quale il riso non sorge: i personaggi di Molière e di cento altri autori di commedia non ci farebbero ridere, osserva Bergson, se si presentassero in modo da suscitare in noi comprensione e compassione, se ci fosse possibile identificarci con loro. E dato che non solo i vizi sono risibili – come invece secondo Aristotele o Cicerone, per i quali il riso sorge sempre da qualcosa di ignobile, o di deforme (cfr. SANTARCANGELI 1989, pp. 29ss.) – ma lo è anche qualche virtù, come l’onestà di Alceste nel Misanthrope se essa si irrigidisce a fissazione incapace di fare i conti col mondo, la distanza comica è indispensabile, altrimenti la spontanea solidarietà col personaggio smorza il ridicolo.
In secondo luogo la tragedia ha al centro l’azione, è il luogo della libertà e della consapevolezza: i conflitti interiori e interpersonali che ciò scatena sono tutti fondati sul fatto che è la coscienza come possibilità e anche come tormento a stare alla base di ogni azione umana. La commedia al contrario, -«in luogo di concentrare la nostra attenzione sugli atti, la dirige sui gesti» (BERGSON 1963, p. 455, trad. it. p. 93). E il gesto si definisce specificamente secondo Bergson per l’assenza di intenzionalità, e quindi anche di sensatezza, per il carattere automatico, totalmente meccanico di qualcosa che si sottrae al nostro controllo e si pone al di sotto del livello della coscienza: il gesto è qualcosa che sfugge, e come tale non esprime l’intera personalità, come invece l’azione, ma è segno – comico – di un solo aspetto, in qualche senso avventizio, o comunque isolato della personalità, che si svela in tal modo da un solo lato; come nel caso del gesto ripetuto dell’oratore – citato nella prima parte – che nella sua meccanicità «abbassa» la solennità del suo discorso, o in quello simile dello starnuto, il gesto illumina un lato meccanico, «distratto» della personalità, non sottoposto a quella tensione e attenzione che la vita richiede. E a questo punto scatta il riso che umilia, che provoca vergogna, che stimola l’autocorrezione. Il riso che non è disinteressato, e per questo non attraversa solo il campo dell’estetica, ma che contribuisce a castigare quelle forme di «insociabilità» anche parziali che sono in noi. Il riso «conformista» che abbiamo già incontrato.
In un terzo e più rilevante senso tragedia e commedia si differenziano, ed è proprio qui che l’attesa di chi guardava a una conclusione rivalutativa del comico come genere oltre che come forma di conoscenza va più nettamente delusa. È la tragedia infatti a poter sollevare quel «velo che si interpone tra noi e la natura», quel velo che la percezione, che è vettore non di conoscenza ma di azione, non è in grado di alzare, quel velo che ci consente solo di vedere il generale, ciò che ci serve nella vita pratica, ciò che è utile ai nostri fini e a questi fini è sufficiente, e che ci nasconde invece l’essenziale, e cioè l’individualità, il carattere ineliminabilmente singolare di ogni essere, la sua assoluta irripetibilità, diversità, novità (BERGSON 1963, pp. 458ss., trad. it. pp. 98ss.). Sulla base delle sottili e acutissime analisi condotte pochi anni prima in Matière et mémoire, Bergson introduce qui la distinzione tra percezione e conoscenza, che nell’opera maggiore implicava anche il carattere fisico, nervoso e cerebrale della percezione a differenza di quello puramente spirituale della memoria, vera sorgente del conoscere. L’artista in generale sa sollevare quel velo, dice Bergson, perché «di tanto in tanto la natura suscita, per distrazione, anime più distaccate dalla vita […] in cui si manifesta un modo vergineo di vedere, di ascoltare, di pensare» (BERGSON 1963, p. 460, trad. it. p. 100). Anime che sanno andare al di là del conoscere pratico, alla ricerca di un approccio disinteressato, gratuito in quanto teso non all’azione ma alla comprensione. E siamo di fronte a una stupenda sintesi di una teoria dell’arte qui schizzata incisivamente nei suoi tratti fondamentali sulla base della concettualizzazione che le opere teoriche degli anni Novanta avevano consentito.
La tragedia, come autentica forma d’arte, sa cogliere l’individualità, fatto confermato anche dall’osservazione che i titoli delle tragedie corrispondono spesso al nome del protagonista, le cui vicende come individui infatti la tragedia rappresenta e tratta nel modo compiuto e totale dovuto alla rappresentazione dell’individualità. E concetti fondamentali dell’Essai e di Matière et mémoire come quello del virtuale vengono qui esplicitamente utilizzati ad esempio per spiegare come sia possibile che uno stesso artista, anch’egli individuo irripetibile, possa produrre opere e personaggi tra loro diversissimi senza passare attraverso la semplice osservazione esterna. I vari personaggi e situazioni, dice Bergson, sono l’autore moltiplicato, l’incarnazione delle varie possibilità di vita non scelte e che divengono indispensabili per poter accedere alla comprensione dell’altro. L’artista, e quindi il tragediografo, sa «afferrare il virtuale nel reale» (BERGSON 1963, p. 467, trad. it. p. 109) sa far riemergere dentro di sé potenzialità non sviluppate che possono prendere forma coerentemente nei diversi personaggi.
Di tutto ciò la commedia è incapace. Questa è la conclusione di Bergson. E infatti il comico è equivoco: non è né semplicemente arte, né solo vita (BERGSON 1963, p. 451, trad. it. p. 89). Non può essere solo vita perché il suo punto di vista presuppone quello dello spettatore della commedia, che, nel momento in cui ride interpreta anche la vita come parte di uno spettacolo, cui è possibile non partecipare; d’altro canto nemmeno è possibile classificarlo del tutto dalla parte dell’arte per questa sua incapacità di andare al di là del generico, del tipico, che è anzi il suo elemento. Come si vede dalla maggior parte dei titoli delle commedie, essi si riferiscono non tanto a un individuo, ma a un suo difetto, a un vizio (L’Avaro, Il Misantropo ecc.), vissuto e rappresentato inoltre come una sorta di escrescenza, come un elemento posticcio, non centrale della personalità. In questo senso il comico si pone sostanzialmente, o almeno per l’aspetto decisivo, fuori dall’arte: se l’arte presenta la rilevanza gnoseologica esclusiva di accedere all’individualità, e cioè alla struttura autentica della realtà, quella che noi conosciamo al di fuori dalla sfera del bisogno e dell’azione e fuori anche dal senso comune di una società – considerata a questo punto come convenzione, come stereotipo, in generale dalla parte della fissità anziché della fluidità – allora il comico non è arte. E sta qui la delusione di cui parlavamo: ancora una volta la gerarchia tra tragico e comico gioca a sfavore di quest’ultimo, ricacciato prima nella sfera del meccanico, e quindi della morte nel mondo bergsoniano, e poi limitato alla sfera subordinata della conoscenza del tipo, sottoprodotto della conoscenza autentica, quella dei fenomeni della durata, continui, mutevoli, irripetibili, in quanto individuali.
Ma occorre accennare a un’altra possibilità che emerge abbastanza chiaramente proprio in quest’ultima parte del testo (cfr. FERRONI 1980). Bergson riprende qui il discorso solo accennato nelle parti precedenti riguardante la logica dell’immaginazione comica che viene a questo punto associata all’assurdo e alla follia, soprattutto nell’esempio di Don Chisciotte, e ancora una volta al sogno. Notevole è la consapevolezza che l’autore esprime del fatto che il comico mette in campo una forma di pensiero non ordinaria, una dimensione che si allontana da quella puramente percettiva e che non ha tuttavia a che fare con la memoria o l’intuizione, con le dimensioni cioè della conoscenza dei fenomeni della durata, ma che esibisce una originalità e anche una «stranezza» non riducibile alla semplice riproduzione del dato, o a ciò che Bergson chiama «buon senso» e cioè alla capacità dello spirito di adattarsi con fluidità ai cambiamenti dell’oggetto. La «follia» di Don Chisciotte è comica perché è materializzazione di un’idea fissa sulla quale egli vuole adattare il mondo, ma il punto interessante è che tale «fissazione» si costruisce sulla base di un punto di vista e di associazioni del tutto fuori dall’ordinario – come i giganti e i mulini a vento – che per la loro singolarità sono avvicinabili alla logica del sogno.
Esiste uno stato normale dello spirito che imita perfettamente la follia, nel quale si riscontrano le stesse associazioni di idee come nell’alienazione, la stessa logica singolare come nell’idea fissa; questo è lo stato del sogno. Se la nostra teoria è esatta deve potersi formulare nel modo seguente: L’assurdità comica è della stessa natura di quella dei sogni. (BERGSON 1963, p. 476, trad. it. p. 120)
Vediamo qui che l’oggetto comico, ciò che scatena il riso contiene nella sua fisionomia una sorta di rovesciamento del senso comune, che, pur potendo ancora in parte essere interpretato in senso meccanico, si presenta come costruito sulla base di una speciale e singolare logica, che certamente non è del tutto riducibile a quella prevedibile e ripetitiva della marionetta, del fantoccio, ma che ci colpisce appunto per la sua diversità, per la sua lontananza dalla normalità. Ma soprattutto ciò che è importante sottolineare è che non è solo l’oggetto comico a presentare caratteristiche singolari, ma è la nostra stessa ricettività al comico a dipendere dalla capacità di vedere incongruenze e stranezze, di proporre una percezione del reale fortemente intessuta di immaginazione, di analogie stravaganti e di accostamenti apparentemente fortuiti che in realtà svelano nuovi aspetti, nuovi punti di vista, assurdi e contraddittori forse, ma capaci di notevoli potenzialità conoscitive. L’immaginazione viene da questa prospettiva riconosciuta nella sua capacità interpretante e valorizzante, come vero artefice della situazione comica, la quale implica sempre uno scarto, un confronto, un’analogia, un pensiero relazionale. In questo senso si potrebbe intravvedere un comico non più solo dalla parte della morte, della caduta, del depotenziamento, ma anche nel riconoscimento dei suoi effetti conoscitivi in positivo. E si apre qui una possibilità di interpretazione del testo bergsoniano, o almeno di queste parti del testo, in analogia con le teorie freudiane del comico, pubblicate, per quanto riguarda il motto di spirito nel 1905, ma anche, come è stato fatto notare (CIVITA 1984, pp. 59ss.), con quelle sul perturbante pubblicate nel famoso saggio Das Unheimliche nel 1919.
Abbiamo già fatto notare come caratteristica dell’oggetto comico sia l’inconsapevolezza, il situarsi quindi sul piano dell’inconscio, il quale per Bergson in generale è solo un concetto negativo, una sorta di insieme vuoto o di luogo dell’assenza, da intendere come mancanza di attenzione, di tensione vitale. Non si può non notare come qui al contrario che esso cominci a riempirsi di contenuti inattesi, di una logica indipendente e nuova, pur se singolare, deviante, assurda: l’automatismo del gesto «che sfugge» non sembra interpretabile allora solo come caduta, come una sorta di silenzio o sospensione della vita, ma come rivelazione, come fonte di conoscenza di qualcosa che in altri modi non appare, come segno di un qualche aspetto non conosciuto e forse incongruo, ma capace non di togliere, di depotenziare il conoscere, ma di arricchirlo di nuovi e inattesi punti di vista. Il testo mostra come Bergson intuisca la possibilità di considerare il comico come scoperta, come emersione di dimensioni vitali, come possibilità di nuove sfaccettature conoscitive, come luogo del nuovo e del diverso, anziché chiuderlo definitivamente nel segno della caduta e del conformismo. Naturalmente, giunti a questo punto, occorrerebbe una teoria capace di decifrare tali segni, di collegarli a dei significanti, di considerarli espressivi di una qualche realtà non conoscibile se non attraverso essi e che Freud propose di chiamare inconscio. E sappiamo bene che Bergson non compie questo passo, ancorato com’è alla sua metafisica vitalista, rispetto alla quale le altre dimensioni assumono valore comunque subordinato; nonostante ciò l’analisi del testo mette in evidenza che, nel generale prevalere dell’ipotesi principale (il comico come qualcosa di meccanico applicato al vivente), c’è posto anche per ipotesi subordinate assai interessanti, indicatrici di una sensibilità e di una capacità di penetrazione non unilaterale da parte di Bergson,
che segnano l’appartenenza a un’epoca che iniziava ad affrontare le problematiche dell’inconscio da un punto di vista scientifico.
Interessante infatti non è solo la presenza nel testo bergsoniano di analogie tra comico, sogno e gioco infantile, che si ripresentano poi nel saggio freudiano sul motto di spirito, benché inseriti in un quadro concettuale fortemente diverso, ma anche il fatto che, come è stato osservato, molti degli esempi bergsoniani classici, come la ripetizione, il doppio, il fantoccio si ritrovino, ma sul versante dei fenomeni che generano angoscia, nel saggio freudiano Das Unheimliche del 1919. Non è un caso forse che ripetizione, doppi, fantocci, automi, elementi classici del comico bergsoniano si ritrovino negli esempi freudiani di perturbante: se nel comico si coglie come Freud l’elemento rilassante, la scarica d’energia psichica e si sottolinea il processo psicologico, individuale del suo sorgere anziché l’effetto sociale che produce, altri elementi socialmente e storicamente rilevanti come la maschera, lo sdoppiamento, la marionetta possono apparire nel loro aspetto angoscioso, dato che l’individuo può proiettarvi i suoi fantasmi inconsci, mentre nel gioco delle relazioni sociali tali elementi non hanno rilevanza, come si vede ad esempio nell’analisi storica di Bachtin sul carattere non inquietante ma giocoso e gioioso della maschera medievale. Ma, se si osserva bene, le analogie si fanno anche più strette: se è vero che per Bergson questi elementi sono addirittura gli archetipi del comico, essi non sono mai accompagnati dal piacere, dato che il riso nell’ipotesi principale viene analizzato nel suo aspetto di «castigo sociale», nei suoi effetti correttivi, quindi eminentemente «seri» e forse non del tutto simpatici; in definitiva il comico visto da questa prospettiva potrebbe portare con sé addirittura un aspetto quasi «sinistro».
Tenendo conto di ciò forse non è senza significato che proprio in quest’ultima parte, in cui più ampiamente si accenna all’ipotesi subordinata e almeno in parte contraddittoria rispetto alla principale, del comico in analogia al sogno e al gioco, si riconosca nel riso almeno un elemento «rilassante»: se il comico è affine al gioco infantile, allora esso «serve a farci riposare dalle fatiche del pensiero» (BERGSON 1963, p. 481, trad. it. p. 125), dove si vede finalmente emergere almeno un barlume del grande assente dell’operetta bergsoniana: il piacere, il riso nel suo risvolto di benessere psichico almeno temporaneo, il suo aspetto «lieve», la sua insensatezza benefica e vitale. Ma si tratta solo di qualche accenno, qualche scorcio impressionisticamente richiamato, che se sviluppato porterebbe a scardinare totalmente tutta l’impostazione del saggio, alla quale invece rimane semplicemente giustapposta: segno di un atteggiamento filosofico che, se vuole salvare la coerenza dell’impostazione di fondo, non si fa cieco di fronte alla molteplicità degli aspetti di cui il comico è portatore. Sarà appunto Freud a sviluppare questa prospettiva nei suoi grandi saggi e a porre sulla base di una teoria complessa il rapporto tra comico, sogno e gioco infantile, superando del tutto lo stadio di puro accenno rapsodico in cui tali elementi erano rimasti nel pur affascinante testo di Bergson.
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Dopo il 1995, anno di pubblicazione di questo saggio, i contributi su Le rire di Bergson non sono stati numerosi. Ne segnaliamo alcuni:
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Corsini, F., (2006) Le origini del dualismo: Jankelevitch lettore di Bergson, diss. dottorato di ricerca in discipline filosofiche, relatori: Adriano Fabris, Frederic Worms, Pisa
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http://www.giornalecritico.it/Biblioteca/biblio-RaffaeleAriano-Bergson-Riso.htm