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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 06

 aprile 2013

Testi

Paolo Bozzi

L’osteria

[ Questo racconto di Paolo Bozzi è stato pubblicato da Paolo Deganutti editore a Trieste nel 1983; ringraziamo Margherita Braitenberg e Paolo Deganutti per la gentile concessione. ]

Nessuno, entrandoci come quotidiano cercatore di un bicchiere di vino, pensa seriamente che l’osteria sia il luogo in cui prende corpo la celebrazione dell’atto, l’autoposizione dello Spirito dispiegata nei suoi fondamentali momenti. Eppure è così. Non sto a questionare su tali momenti, poiché i filosofi sono in disaccordo sugli elenchi; mi basta dimostrare che nell’osteria vive la logica dell’astratto, la logica del concreto, l’estetica e la religione. (Una tetrade come tante altre). Né importa fissare una gerarchia di superamenti e d’inveramenti.

Il dispiegamento dello Spirito, naturalmente, non ha luogo solo nelle osterie. C’è gente addirittura pagata per allestirlo, altrove, in istituzioni accademiche, in comodi studi affollati di libri e carte scritte, in aule modernissime o vecchiottamente ornate, in incontri preparati e recitati davanti a un pubblico che poi interviene, oppure nati dal caso e tuttavia felicissimi, p.e., tra uno scienziato e un musicista che si incontrano in treno; ma anche nel cortile di una scuola elementare tra i ragazzini e un maestro, a una mostra di fotografia, attorno a un pianoforte. Solo una piccola parte dell’umanità partecipa a queste celebrazioni, però: i professionisti della cultura, nel meglio e nel peggio, e in casi remoti e pieni di fascino anche il farmacista e il medico condotto.

Esiste intanto un’ampia parte dell’umanità che resta esclusa dall’autoposizione dell’atto in atto, in quanto è trattenuta altrove da impegni di importanza meno vistosa, ma assolutamente non trascurabile: per esempio arare seminare e mietere, o badare alle bestie; costruire o aggiustare oggetti meccanici di varia dimensione; guidare il tram, il camion, la locomotiva; forare biglietti, battere timbri su fogli appropriati e scambiarne esemplari attraverso appositi sportelli; scavare nella profondità della terra, vos non vobis.

Metà di questi lavori, oltre che occupare tempo, producono la fatica. L’accesso allo Spirito non è agevole per chi ha fatto fatica. Le ore del riposo chiedono di essere rispettate; la soggettività empirica invia chiarissimi messaggi alle braccia, alle gambe, alla schiena, e nella sua parte più nobile si forma un vuoto leggermente nebbioso.

L’unità dello Spirito è in questo modo pregiudicata: ma immediatamente si ricostituisce a un livello inferiore, sebbene sia difficile porre differenze di dignità là dove ogni misura non può non essere se non meramente astratta, e sussumibile nella realtà del concetto solo per la mediazione di un trapasso qualitativo.

Il trapasso, nel nostro caso, è nella determinatezza dell’osteria.

È lì che va la gente esclusa dalla fruizione istituzionale dei beni della cultura, gente che ha imparato poco a scuola e che ha potuto riflettere sul mondo quando già gli avevano messo in mano un martello o una vanga, e già si trovava il naso otturato dai trucioli e gli orecchi immersi nella musica delle presse.

Ma lo spirito spinge i suoi confini oltre ogni pensabile condizione avversa, e c’è chi sostiene che sia Lui a produrre le condizioni avverse con lo scopo di mettere alla prova le facoltà migliori degli uomini nei quali empiricamente s’incarna. Così, oltre ogni difficoltà, i momenti dello Spirito – come prepotenti istinti biologici frustrati da severe repressioni infisse nell’habitat, e resistenti con la caparbietà della conservazione dell’energia – nell’osteria si dispiegano in nuove figure, di cui i frequentatori si fanno portatori, attori, protagonisti.

Guardate i prodigi della logica dell’astratto: talvolta, in una mano di tressette basta un giro solo di carte: fatta l’apertura ognuno dei quattro giocatori sa già tutto, che cos’hanno gli altri, che giochi ne sarebbero seguiti quale sarebbe stato il punteggio alla fine. Tutto ciò è saputo, come in un’unica mente, e commentato dalle più menti con smozzicati discorsi che capiscono solo loro, cementati da «se… allora…», «poiché non… allora.. .» (ma bisogna sentirli in dialetto), «tu hai questo e questo», «dopo doveva venir giù quest’altro»; è data per scontata l’assenza dell’errore per distrazione, è ammesso l’errore di calcolo, il discostamento della complicata matrice che distribuisce quaranta carte su quattro colonne legando, attraverso il caso, ognuno dei valori nelle più svariate relazioni logiche a tutti gli altri, in uno schema che deve essere noto solo in base a quelle poche carte ora aperte lì sulla tavola, tra macchie di vino: è ammesso, quell’errore, ma come vergogna per chi lo ha compiuto. Sfido ogni professore di logica a trattare con tanta disinvoltura una matrice così, alla lavagna, cavandola alla cieca da un libro di esercizi. La logica dell’astratto fa delle loro menti un’unica mente; essi vedono insieme la mostruosa matrice e rincorrono tra righe e colonne i sottili giochi della probabilità e della necessità fissate nello schema e generate dalla prima distribuzione delle carte. Le parole che volano e i rimproveri, le spiegazioni al più tonto, il pugno sul tavolo sono puro furor mathematicus.

Perciò il parroco e le mogli detestano le carte; nei paesi si insegna ai bambini che le carte sono del diavolo. Esse talvolta, quando sono molto usate, hanno un odore di vecchi libri, anzi di libri antichi; le loro figure hanno la bellezza di remote illustrazioni magiche, fini nel tratteggio, le facce inespressive, i colori semplici, quasi sovrapposti a mano.

La logica dell’astratto trapassa nella logica del concreto, o dialettica, quando dalla battaglia delle carte gli uomini pervengono alla battaglia tra le intuizioni sul mondo; generalmente, quando si infognano a discutere della loro condizione di servi. C’è dietro il partito, o la fede, un pezzo di giornale, una amara saggezza, l’aggressività come istinto, ma anche i conti fatti di casa, quanto si guadagna e si spende, quanto guadagna e spende il padrone, se è servo a sua volta e di che cosa. Uno che crede di essere un soggetto, in osteria, e ne ostenti troppo i modi, troverà colui che con rude veridicità gli mostra il suo stato di oggetto, di strumento degli altri. Una presunta astuzia diventa la vergogna di una ingenuità, un passo avanti nei salari del sommerso si converte in una ridicola o colpevole sottomissione; tu furbo in quanto furbo sei stupido; tu capo in quanto capo sei strumento; tu, che credi di aver fatto, hai fatto che facessero; hai creduto che, ma in verità – ti sembra che, ma vedi adesso: la macchina delle apparenze mostra il suo funzionamento, e dietro si vede il progetto vero che la fa andare così.

Questi ribaltamenti, e spesso con quella tipica aggressività da osteria, trattenuta e insultante («tenetemi, che se no lo distruggo») e trattenuta per far continuare il gioco all’infinito, è interamente fondata sul dialogo, che costituisce, come è noto, il fondamento sia storico sia teoretico della dialettica. Il dialogo come scambio di idee, o solo di battute, o solo di sentimenti; non solo di aggressione, ma di dolce ubriaca e buona comprensione, tutta svolta tra gli sguardi, senza che le parole abbiano importanza; o il dialogo come soliloquio collettivo, dove ciascuno parla di sé, fraternamente incurante di quanto l’altro ha detto. Ma in simili casi ogni attore ha dentro di sé il suo dialogo e questo si vede nell’interrompersi del discorso, nell’improvvisa perplessità del parlante, nel suo rispondere a qualcosa che lui stesso aveva detto prima.

La molteplicità dei dialoghi compresenti attende l’unificazione a un livello superiore, con gli interlocutori presi a due a due, a tre a tre, o a tre da una parte e due dall’altra, e via avanti; a sua volta l’empiricità di queste distinzioni numeriche si dovrà convertire nella sintesi di una dialogicità totale e corale, che di fatti per brevi attimi si realizza, anche con danni per le suppellettili. Ma questi momenti sono in realtà rari e non possono durare a lungo, cosicché con violenza o senza violenza l’unità della sintesi si autodistingue nelle sottostanti dialogicità parziali, tanta è la luce sul mondo che essa sprigiona. E per questo il parroco e le mogli detestano la politica, citano casi di gente che si e rovinata con la politica, e si suggerisce che anch’essa sia stata inventata dal diavolo.

Il momento dell’estetica ha le sue radici immerse nel vino. Che cos’è l’estetica se non il momento dello spirito in cui si attua la trasfigurazione della realtà esterna e l’amplificazione delle forme della realtà interna? E quando può permettersi uno che lavora di trasfigurare gli strumenti e gli oggetti della sua opera, nel momento di realizzarla, o il proprio equilibrio interiore mentre sposta cose pesanti in cooperazione con altri?

Il vino è il farmaco che, verso sera, avvia la necessaria trasfigurazione del reale, dopo ore e ore di contorni netti e ragionamenti precisi, trasmessi da parole appropriate che le attività materiali dettano. Poiché domani il lavoro ritorna, c’è fretta di realizzare il momento estetico. Il farmaco fa effetto in breve, poi ci sarà il sonno a cancellare buona parte delle sue tracce. I contorni degli oggetti materiali perdono la loro cogente univocità; la localizzazione che li vincola nello spazio diventa labile: una cosa può essere più in qua o più in là, e il gesto progettato per raggiungerla mostra e in certo modo misura questa labilità. I colori sono spesso attenuati, ma a volte ravvivati da una intensità insolita; le luci diventano più forti e crude, le ombre più profonde, come buchi aperti su spazi retrostanti e senza confini. Le cose del giorno sono costanti: di forma, di grandezza, di luminosità; oltre il velo del vino buono, solitario o loquace, perdono quella costanza e la forma può improvvisamente mutare, la grandezza aumentare in un subitaneo avvicinamento (per esempio le facce talvolta si avvicinano ingigantite al bevente, quasi maschere piene di insospettati dettagli), le luci girano a modo loro, perché sono ormai ornamenti dello spazio, non banali mezzi per vederci.

Questa è pittura; involontaria, se vogliamo, anzi certamente, ma è pittura. Fruizione e creazione nello stesso istante. Ed è anche teatro, in cui gli ingredienti della pittura montano uno spazio drammatico, dove hanno svolgimento i dialoghi della dialettica, i calcoli fermi della logica, le fughe laterali dell’aggressività e della simpatia.

L’ordine del pensiero, dipendentemente dalle trasformazioni creatrici dell’occhio e dell’orecchio, trova il coraggio di rompersi, e perciò il pensiero diventa eloquente a dispetto degli impacci della lingua. Scardinata la grammatica, madre di ogni repressione, ecco che le idee trovano nuove vie di congiunzione, associando cose lontanissime eppure indicibilmente legate, come è proprio della poesia. E le oggettive difficoltà di comunicazione – dovute al peso della lingua, all’indiscernibilità tra rumori esterni e fonazione propria, parole altrui, grezzi ronzii imprigionati nella scatola cranica – vengono superate da sguardi d’intesa profondamente eloquenti, portatori di certezza, sentimenti che si toccano, occhiate che rassicurano della comunicazione assolutamente compiuta. La parola giusta non viene, ma tu hai capito meglio che se io l’avessi detta.

L’aria, oltre che di fumo, è impregnata di canto. La musica dotta vuole che le note siano intonate, e con ciò perde definitivamente quel mezzo espressivo che nasce dall’attrito fra i suoni, dalla costante incertezza dei rapporti tra le vibrazioni che il vino scolla una dall’altra, lasciando a ciascun cantore l’indipendenza della sua solitudine coordinata alle solitudini altrui dalla casualità creatrice, anche se uno segna il tempo col bicchiere e tutti si guardano tra loro con intesa intensa, come leggendo nei lampi degli occhi i neumi di un nascosto graduale. Cantare stonando è l’invenzione della dissonanza. A che altra armonia dovrebbero le loro voci obbedire?

Il prete e le donne condannano il vino. Quanti si sono rovinati a furia di bere. Le mogli e il prete vedono subito oltre il delicato velo dei sapori e delle musicali trascolorazioni quanta rovina discenderà dal non aver avuto presenti con ossessiva continuità le aspre e costanti fattezze delle cose.

Infine la religione, o il momento delle totalità, attraversa questi tre inveramenti con il suo particolare ritmo dialettico. Mai sentite bestemmie come in osteria; questi ruvidi rutti che accompagnano con meccanica necessità la definizione ostentiva dell’iniquità cosmica.