logo fillide

il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 18

 aprile 2019

Saggi e rassegne

Pee Gee Daniel

Il controdolore di Aldo Palazzeschi. Ovvero: la teodicea della risata

«Il comico esige, per produrre tutto il suo effetto, qualcosa come un’anestesia momentanea del cuore: si dirige alla pura intelligenza» teorizza H. Bergson all’inizio del suo celebre saggio Le rire (1900). Ma questo risolino freddo e tutto intellettuale ci è di scarsa utilità nel tentativo di analizzare certi fenomeni comunemente esperibili: per esempio, una risata per buona parte fisica che nasce spontanea e ci travolge per intero, senza che vi possiamo porre difesa. Quella risata eruttiva che insorge e a mano a mano sempre più spinge, da dentro, fino a obbligarci a cederle: con una violenza deflagrante che anche il più coltivato aplomb faticherebbe a contrastare. È proprio una di queste risate eccessive a scuotere il Dio che Aldo Palazzeschi ci mostra all’inizio del suo manifesto futurista Il Controdolore (1913):

Mentre io lo considero titubante e spaventato, egli mi guarda ridendo a crepapelle. La sua faccettina rotonda divinamente ride come incendiata da una risata infinita ed eterna, e la sua pancina tremola, tremola in quella gioia. Perché dovrebbe questo spirito essere la perfezione della serietà e non quella dell’allegria? Secondo me, nella sua bocca divina si accentra l’universo in una eterna motrice risata. Egli non à creato no, rassicuratevi, per un tragico, o malinconico, o nostalgico fine; à creato perché ciò lo divertiva. Voi lavorate per alimentare bene voi e i vostri figli, non per fare con essi lunghi sbadigli di fame. Egli lavorò per tenere alimentata la gioia sua ed offrirne alle sue degne creature. E comprenderete bene che per divertirsi tutti in eterno, ce ne vogliono dei curiosi ed eterni spettacoli! Come avevate potuto pensare che egli avesse creato se ciò fosse stata cosa tediosa? Come poteva venirci da questa forza smisurata, opera da perditempo senza spirito? Bando dunque a tutta la vostra serietà, se volete comprendere qualche cosa di lui e della sua creazione.

Altra caratteristica saliente del riso trasmodato del Dio palazzeschiano è la sua interminabile durata. Già attributo omerico, laddove vien detto che gli antichi dèi godevano di un ἂσβεστος γέλως, un riso indistruttibile: che cioè non viene mai meno ( Iliade I, 599 e Odissea VIII, 327). Il Dio di Palazzeschi, come già quello di Agostino (sermo 179: « Theatrum mundus, spectator Deus»), guarda all’universo da Lui creato sub specie theatri. Dalla lettura del testo sembra quasi di poter immaginare che egli si sia deciso per la fondazione dell’intera cerchia degli esistenti con l’unico scopo di trarne continui motivi di trastullo.

«La nostra terra non è dunque che uno di questi suoi tanti giocattoli» presuppone lo scrittore fiorentino, in questa sua breve ma capitale opera, che viene a costituire un vero e proprio manifesto programmatico rispetto all’intera opera palazzeschiana (contrassegnata dalla nota divisa “Lasciatemi divertire”, titolo di una sua poesia di tre anni precedente). Per di più sembra che per questo Creatore il massimo del sollazzo derivi dall’osservazione delle res gesta specialmente umane. Ma il riso del Dio palazzeschiano pare acquistare una venatura più inquietante di quella del semplice spettatore di un teatrino: si mostra piuttosto come lo spettatore di un circum romano, affollato di dolori e accoranti malversazioni. Più precisamente, rassomiglia all’imperatore che prima adibisce lo spettacolo sin alle sue più cruente rifiniture e, in un secondo tempo, si accomoda nella tribuna d’onore ove possa finalmente godersi la messa in scena. Un nume che ci appare, almeno a un primo sguardo, spietato, nonché interessato unicamente a una propria scellerata e mai sazia ricerca di argomenti di irrisione. Il mondo che contempla (e di cui è artefice) infatti è «fatto precisamente così: un campo diviso da una fittissima macchia di marruche, spini, pruni, pungiglioni». Eppure non è un’accanita voglia di sogghignare a discapito delle proprie creature la principale caratteristica che Palazzeschi vuole ascrivere a questa ilare deità. Tutt’altro.

Innanzitutto Dio, nel Controdolore, non è l’unica entità capace di ridere. Egli è, prima di tutto, quel che potremmo definire un Motor Risibilis, intorno a cui gravita l’intera moltitudine dei ridenti che di questa sua giovialità partecipa. Ecco, a riprova, come il passo appena ricordato seguita: «À posto l’uomo da un lato dicendo ad esso: attraversala, là è la gioia, è il largo, la vita degli eletti, vivrai coi pochi coraggiosi che come te l’attraverseranno». Il Dio palazzeschiano infatti gode perlomeno di questo punto di vantaggio, se posto di fronte a eventuali detrattori: egli, è vero, ha posto, o ha perlomeno permesso, l’esistenza del male integra al cosmo da lui prodotto, ma con questa differenza non da poco: di averne concesso, insieme, la cura – pur provvisoria e parziale che sia – dell’esilarazione. Che ciò avvenga per via di metessi o per emanazione non ci è dato sapere. Quel che è però desumibile dallo scritto proto-novecentesco è che nondimeno agli uomini appartiene «questa che è la sola facoltà divina dell’essere umano». Egli è il supremo garante di questo loro buonumore che, come in seguito a un intervento supererogativo, continua imperterrito a fornire loro. Non all’umanità presa indiscriminatamente, occorre tuttavia precisare. La facoltà del riso sembra di fatto accordata non omnibus, nec pluribus sed paucis. In Palazzeschi i ridenti, al pari dei predestinati alla beatitudine eterna nella dottrina protestante, sono solo pochi eletti:

Fino dal primo momento l’uomo è in massima parte rimasto fuori a lamentarsi, a considerare lo spessore dell’oscuro ammasso del prunaio, a misurare la proporzione, la lunghezza, la quantità, la posizione degli spunzoni, a tentare di contarne il numero, a cercarvi un introvabile pertugio, a far paragoni fra questo e quello, invece di buttarvisi dentro risoluto. Alcuni vi sono in mezzo, incapaci di andare avanti o indietro, preferendo vivere con un pruno in un occhio, piuttosto che affrontarne uno non si sa dove. Questi gridano disperatamente, e i loro lagni scoraggiano sempre più quelli che sono ancora fuori, mentre fanno sempre più sganasciare dalle risa e tenersi la pancia per non liquefarsi dalla gioia, quei pochissimi che vivono ridendo, protetti dal loro signore, che al centro di tutte le cose ride più di loro.

L’iter del riso agli occhi dell’autore toscano appare contrassegnato da un percorso impervio, tanto che a un numero esiguo di ridenti sembra data la capacità di misurarlo per intero. Non per nulla, il sostantivo coraggio e le relative derivazioni grammaticali occorrono con una notevole periodicità nell’economia del testo palazzeschiano:

L’uomo che attraverserà coraggiosamente il dolore umano godrà dello spettacolo divino del suo Dio. Uomini, non siete creati, no, per soffrire; nulla fu fatto nell’ora di tristezza e per la tristezza; tutto fu fatto per il gaudio eterno. Il dolore è transitorio (voi soli ne eternate l’esistenza con la vostra paura); la gioia è eterna. Ecco il vero peccato originale, ecco il solo fonte battesimale. Vili! Paurosi! Poltroni! Incerti! Ritardatari! Passate la macchia! Se credete che sia profondo ciò che comunemente s’intende per serio siete dei superficiali.

Ecco dunque l’arridente terra promessa che Palazzeschi profetizza per coloro che a dispetto di qualunque avversità intercetti il loro cammino, avranno la forza di coltivare l’attitudine al buontempo, attitudine peraltro esclusivamente umana:

La superiorità dell’uomo su tutti gli animali è che ad esso solo fu dato il privilegio divino del riso, Essi non potranno mai comunicare con Dio. Un piccolo e misero topo, può farci udire il suo pianto, i suoi lamenti; nessun animale ci à fatto ancora udire una calda sonora risata. Che il riso (gioia) è più profondo del pianto (dolore), ce lo dimostra il fatto che l’uomo, appena nato, quando è ancora incapace di tutto, è però abilissimo di lunghi interminabili piagnistei. Prima che possa pagarsi il lusso di una bella risata avrà dovuto seguire una buona maturazione. Bisogna abituarsi a ridere di tutto quello di cui abitualmente si piange, sviluppando la nostra profondità. L’uomo non può essere considerato seriamente che quando ride. La serietà in tal caso ci viene dalla ammirazione, dall’invidia, dalla vanità.

La capacità di ridere non nasce con l’uomo (al contrario del pianto, che può ben dirsi il primissimo innatismo: infatti è piangere ciò che facciamo appena venuti al mondo), ma risulta essere piuttosto un costrutto culturale e un esercizio introspettivo che interessano l’individuo sia a livello ontogenetico che esistenziale (l’arte del ridere innanzitutto si impara; va, in seguito, serbata e alimentata lungo l’intero corso della vita):

Bisogna educare al riso i nostri figli, al riso più smodato, più insolente, al coraggio di ridere rumorosamente non appena ne sentano la necessità, all’abitudine di approfondire tutti i fantasmi, tutte le apparenze funebri e dolorose della loro infanzia, alla capacità di servirsene per la loro gioia.

Il riso o, ancor prima, l’abilità a trovare il risvolto comico nelle varie situazioni, per quanto opprimenti, che ci è dato vivere è un assiduo training spirituale, o intellettivo, i cui risultati, quantunque raggiunti, non sono mai dati una volta per tutte: ogni volta si ricomincia.

Ci si deve ogni volta sforzare daccapo di ridere, vincendo così la tendenza, assai più docilmente praticabile, alla prostrazione umorale, senza che però questa vittoria sia mai definitiva. Il riso resta comunque un’esperienza indefettibilmente ascetica (nel significato originale di ἂσκησις = esercizio, pratica), sembra dirci Palazzeschi. Riuscire a ridere resta comunque una conquista.

Nel testo palazzeschiano anche il riso umano, non meno di quello divino, appare “onnivoro” e insaziabile, nonché rapacemente portato ad abbattersi in picchiata sulle altrui debolezze: «Riderai del dolore dei poltroni, dei paurosi, dei caduti, dei vili, dei vinti» vi leggiamo infatti. O, come impone la decima conclusione posta in calce al testo, sembra torni necessario «saper ridere nel veder uno che piange». Eppure è proprio questo decalogo finale a contenere un’altra coppia di voci rivelatrici dell’essenziale bontà di questo ridere: «Combattere il dolore fisico e morale con la loro stessa parodia». E soprattutto: «invece di fermarsi nel buio del dolore, attraversarlo con slancio, per entrare nella luce della risata». Brani che ci aiutano a capire meglio la tensione, spesso non avvertita, che Palazzeschi intravvede nel processo comico.

Il vero riso quindi non è mai semplice divertimento, se si prende questo termine nella sua accezione letterale (e poi pascaliana) di fuga, distrazione o deviazione. Il coinvolgimento che esso segretamente pretende ci richiama anzi direttamente in causa. Ci sprona ad affrontare petto a petto quel che ci turba, con l’intento, se possibile, di vincerlo. Non si tratta di un giocoso motivo d’evasione. Il riso, e con esso la comicità, sono semmai un efficientissimo contravveleno. «Non si può intimamente ridere se non dopo aver fatto un lavoro di scavo nel dolore umano» afferma ancora Palazzeschi. E, a poche righe di distanza, eccolo ribadire l’aspetto pensoso del comico: «Maggior quantità di riso un uomo riuscirà a scoprire dentro il dolore, più egli sarà un uomo profondo». Si ha da «sviluppare quell’istinto utile e sano che ci fa ridere di un uomo che cade per terra e lasciarlo rialzare da sé comunicandogli la nostra allegria» ci ammonisce l’autore, partendo così dal grado zero della comicità: l’uomo che scivola su una buccia di banana. La base delle comiche slapstick.

Si badi bene, non si tratta di una risata di superiorità: non si ride qui di colui che è incespicato, ma con colui che è incespicato. Un riso che al posto di sminuire l’altro ne tenta il conforto (attraverso l’allegro svilimento del di lui infortunio e, insieme, attraverso la comunicazione di una fratellanza costituita dal comune assoggettamento a un ingrato destino). Semmai, se si deve rintracciare a tutti i costi un oggetto di irrisione, si ride qui della sua caduta che, nella stessa situazione, sarebbe potuta esser nostra: ridiamo in ultimo dello stato generale dell’umanità, della sua preoccupante precarietà (qui riassunta nel piccolo inconveniente di un inciampo). Ridiamo quindi in primis di noi stessi, in quanto appartenenti al genere umano, e come tali suscettibili di tutti i mali cui esso sia per natura soggetto.

Vi è poi la forza desacralizzante (ma meglio sarebbe dire detabuizzante) del riso. Una forza che, nella sua turbinosa corsa, tutto travolge, che estremizza la funzione consolatoria e lenitrice del riso, smontando e demistificando ogni istituzione consolidata come ogni aspetto serioso e venerato dell’umano agire (e anzi prendendolo di mira con più segnata perfidia), senza sottoporsi ad autorità o galateo di sorta, ma invece inneggiando a piena gola il celebre motto degli anarchici ottocenteschi: «Una risata vi seppellirà!». Una forza che si protende temeraria verso tutte le implicazioni del vissuto umano (comprese quelle che confidano di restarne al riparo), sino a osare andare a segno contro la più indissacrabile delle interdizioni. La paura suprema e maiuscola, cui ogni altro timore o trauma umani, tacitamente e secondo diversi gradi, rimandano: la paura della morte! «Istituire società ricreative nelle stanze mortuarie, dettare epitaffi a base di bisticci, calembours e doppi sensi» è ciò che Palazzeschi auspica, richiamando il monito di Pirandello a proposito dell’umorista: «non componete con troppa pompa nelle camere ardenti su catafalchi i morti, perché egli è capace di non rispettar neppure questa composizione, tutto questo apparato» (dal saggio L’umorismo, 1908). Una risibilità assoluta, senza freni, difficile da raggiungere, se non alla conclusione di un ferreo allenamento al ghigno, che sempre Palazzeschi ci consiglia: «Fissate bene in viso la morte, ed essa vi fornirà tanto da ridere per tutta la vita. Io affermo essere nell’uomo che piange, nell’uomo che muore, le massime sorgenti della gioia umana».

Nelle pagine palazzeschiane è la figura del gobbo a farsi paradigmatica della condizione dell’uomo e delle sue connaturate deficienze:

Un gobbo, natura ve lo indica perché gli ridiate dietro, e proprio dietro nella schiena essa gli pose il tesoro della sua giocondità. Un poeta gobbo che continuasse per tutta la vita a cantare dolorosamente non potrebbe essere mai e poi mai un uomo profondo, ma il più superficiale di questa terra. Egli si sarebbe fermato a piagnucolare alla superficie della sua gobba come un fanciullo alla parola “bao” dopo averci rubato lo scrigno del suo tesoro dorsale per non essere stato capace di penetrarlo.

Il tema, abbozzato in fretta nel Controdolore, sarà poi ripreso e più diffusamente esposto nel cosiddetto periodo post-utopico dell’autore, all’interno di una novella interamente dedicata alla figura del gobbo Macheri (nell’antologia Il palio dei buffi, 1944), dentro la quale, in sede proemiale, espliciterà tra l’altro gli estremi anagrafici di quel «poeta gobbo» che nel passo sopracitato vengono ancora passati sotto anonimato:

Quando natura licenzia dalle sue fucine un gobbo, pensate certo ch’ ella si dia una grattatina alla testa che altro non vuol significare: “Guardate un po’ che cosa ho fatto! Quello che m’è successo! Che frittata!” E credete altresì che rivolta alla propria creatura aggiunga sollecita: “Perdona sai, piccolo essere innocente, è accaduto senza che me ne accorgessi, è stato un errore, una disgrazia, non volevo farti cosi, poverino, ti domando scusa”.
Niente di tutto ciò.
Il gobbo è un argomento allegro per gli altri e per sé, ma principalmente per chi, dopo averlo creato, sorride rapidamente dell’opera sua. E questo sorrisetto intendiamoci bene, non è rivolto al figliolo gobbo ma a quelli diritti. Ecco che cosa vuol dire: “Ah! vi siete preparati a ridere alle sue spalle, è quello che si vedrà”.
Natura, infaticabile equilibrista, dopo averlo creato, il gobbo, lo prende sulle ginocchia con amore, lo palpa, l’accarezza, lo esamina, intinge la punta delle dita in un misterioso vasettino e ne spruzza di qualcosa che sembra sale, chi sa invece che cos’è, il corpicciuolo deforme. È a questo punto con precisione ch’ella si permette quella risatina sfuggente: “Vi siete preparati a ridere? È quello che vedremo: spriffete e spruffete”.
Il gobbo, è incredibile, si ride delle persone diritte più di quanto esse non si ridano di lui. È il suo compenso. Non accusiamo la nostra buona madre d’essere stata crudele con noi e d’averci riservata una particolare disgrazia in qualunque modo ci abbia dato la vita; essa, che non conosce ingiustizia, ce la scodella a tutti con lo stesso romaiolo, maternamente, simile a una ben misurata minestra.

Il gobbo viene cioè assurto a massima rappresentanza della condizione umana, nel momento in cui trionfa sulle avversità, di cui si vede sin dalla nascita gravato, con la più altisonante risataccia. Ma passiamo ora al passo incriminato circa l’identità del malmostoso poeta, vistasi qui finalmente spubblicata:

Queste conclusioni semplicissime dimostrano che essendo la vita bella ed uguale per tutti, non dobbiamo considerare il gobbo una creatura infelice perché tale, uomo avvilito e triste, solitario, ma uno come tutti gli altri, socievolissimo, dei più allegri e soddisfatti. „Giacomo Leopardi“ vi sento sussurrare. Ebbene, amici, quello, assicuratevi, non fu malinconico per la gobba che portava fuori, ma per quella che portava dentro, nella sua insaziabile anima di poeta, e messagli apposta per bilanciare la sfrenata giocondità dell’altra, che s’egli ne avesse avuta una soltanto, ve lo sareste visto piroettare davanti arzillo, carico d’arguzia e di malizia, di causticità, invincibile, implacabile, con un risolino fra labbro e labbro peggio d’una lama di rasoio, e dal quale nessun uomo si sarebbe salvato. Un gobbo, abbiamo dichiarato e ci teniamo a ripeterlo, si ride delle persone diritte più assai di quanto queste non si ridano di lui.

Si possono ben capire le ragioni per le quali Palazzeschi scelga quale suo antagonista letterario Leopardi dalla semplice lettura di questo passo dello Zibaldone (aprile 1826, pensieri 4174-4177), per esempio:

Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. Non v’è altro bene che il non essere: non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose. Questo sistema, benché urti le nostre idee sarebbe forse più sostenibile di quello del Leibniz del Pope ecc., che tutto è bene. Non ardirei però estenderlo a dire che l’universo esistente è il peggiore degli universi possibili. Chi può conoscere i limiti della possibilità?

Palazzeschi e Leopardi osservano il medesimo mondo, rilevandolo per quel che è: senza sprovvedutezze. Eppure, quali disparatissime Weltanschauungen attingiamo dall’un caso e dall’altro! Là dove Leopardi riscontra nient’altro che miserie e scoramento, Palazzeschi salva l’intero cosmo grazie a quella teodicea ridanciana su cui già prima ci si intratteneva. In entrambi i sistemi è presente il male. Anche Palazzeschi infatti ben si guarda dal negarlo. Il male resta ingiustificabile in sé. La rivoluzione logica e morale operata da Palazzeschi risiede piuttosto nel fatto che il male viene giustificato non in quanto male ma in quanto motivo di riso. Esso può anzi essere addirittura additato come il motivo fondamentale del riso stesso. Dio, o la natura, hanno sì permesso che il male (con tutte le sue più particolari specificazioni) propalasse i suoi effetti su questo mondo, ma hanno altresì proceduto a equipaggiare l’uomo di questa magnifica facoltà che dal male sa, a suo modo, emendarci.

Il passaggio immediatamente successivo è sovvertire i termini della questione: non si tratta più di considerare la capacità di ridere come una concessione secondaria, la cui funzione risulterebbe sostanzialmente riparatrice rispetto all’esistenza del male, ma si tratta al contrario di considerare l’esistenza stessa del male unicamente come fondamentale spunto comico. La risata non viene più a rivestire il ruolo di mera consolazione, ma si nobilita niente meno che a primaria ragione di vita. Incarnando di quest’ultima l’esito più ricco e più fecondo, il riso si fa qui campione quintessenziale dell’esistenza umana. È come se il più classico dei quesiti della metafisica “si deus est unde malum?” si trovasse beffardamente sostituito dalla domanda retorica “nisi malum esset, unde risus?”, che nasce dalla presa d’atto dell’incontrovertibile natura delle cose. Di fronte all’ormai acclarata incancellabilità del male, anziché abbandonarsi a laceranti quanto fumose diatribe intorno alle ragioni ultime e inattingibili di esso, lo spirito comico parte al contrattacco, abbracciando un amor fati non già lassista e rassegnato ma propositivo: il riso qui assolve pienamente alla sua funzione ri-creativa, nel momento in cui smonta l’impalcatura tragica che puntella quella situazione-limite a cui viene dato il nome di vita e in cui, nostro malgrado o per fortuna, siamo stati gettati, e la ricrea spudoratamente secondo schemi comici suoi propri.

Una lucida constatazione, quella dell’esistenza del male, che però non porta all’abbattimento morale né allo sconforto che ci si potrebbe di buona regola attendere, divenendo bensì fonte inesauribile di una coraggiosa ilarità.


Aldo Palazzeschi Il Controdolore (29.12.1913) – Lettura di Alessandro Cavagna