Milano, Bompiani, 1989
Quando immagina sua madre passeggiare lungo i portici del paese, avvolta nella sua pelliccia buona, con gli orecchini d’oro della nonna e quegli strati di fondotinta e cipria sempre un po’ eccessivi, o quando la sente elevare in chiesa i suoi “amen” come se fosse ancora sull’aia della sua infanzia, ha un attimo di terrore. Prega che non faccia ingresso una gallina al centro della navata, o che un fagiano non attraversi il corso principale perché allora la vedrebbe alzarsi la pelliccia, alzarsi la gonna, gettare le scarpe ortopediche e rincorrere il pollo fra la gente, gridando e battendo le mani fino a catturarlo; e una volta acciuffato, torcergli con un gran sorriso il collo, o spezzargli la colonna vertebrale con un colpo secco alla testa e tornare poi in mezzo alla gente, sulla piazza o nella chiesa, mostrando orgogliosa e fiera il suo trofeo. Quando incontra sua madre in mezzo ad altra gente lui ha sempre questo terrore e si guarda intorno ansiosamente, ossessivamente, per vedere se una povera gallina non abbia la sventura di capitare da quelle parti. Perchè, nonostante gli anni, lui vede ancora sua madre come una giovane e esuberante contadina. E quando la immagina, lontano migliaia e migliaia di chilometri, cercando di attingerne l’idea lui la descrive a se stesso, per ricordarla, sempre con queste parole: “Come un’eterna, povera, e bellissima ebrea”.