[…] la notte si annunciava tiepida, acqua ce n’era, e qualcosa per cena, fra tutti e sei, non molto, ne avevamo. La capanna era in rovina, ma un po’ di tetto per ripararci dalla rugiada c’era ancora.
– Benissimo, – disse Cesare. – Io ci sto. Per stasera, io mi voglio fare una gallinella arrostita.
Così ci nascondemmo nel bosco finché la carretta con lo scheletro non fu passata, aspettammo che gli ultimi ritardatari se ne fossero andati dal pozzo, e prendemmo possesso del nostro luogo di bivacco. Stendemmo a terra le coperte, aprimmo i sacchi, accendemmo un fuoco, e cominciammo a preparare la cena, con pane, «kaša» di miglio e una scatola di piselli.
– Ma quale cena, – disse Cesare; – ma quali piselli. Voi non avete capito bene. Io stasera voglio fare festa, e mi voglio fare una gallinella arrostita.
Cesare è un uomo indomabile: già me n’ero potuto convincere girando con lui i mercati di Katowice. Fu inutile rappresentargli che trovare un pollo di notte, in mezzo alle paludi del Pripet, senza sapere il russo e senza soldi per pagarlo, era un proposito insensato. Fu vano offrirgli doppia razione di «kasa» purché stesse quieto. – Voi statevene con la vostra cascetta: io la gallina me la vado a cercare da solo, ma poi non mi vedete più. Saluto voi e i russi e la baracca, e me ne vado, e torno in Italia da solo. Magari passando per il Giappone.
Fu allora che mi offrii di accompagnarlo. Non tanto per la gallina o per le minacce: ma voglio bene a Cesare, e mi piace vederlo al lavoro.
– Bravo, Lapé, – mi disse Cesare. Lapé sono io: così mi ha battezzato Cesare in tempi remoti, e così tuttora mi chiama, per la ragione seguente. Come è noto, in Lager avevamo i capelli rasati; alla liberazione, dopo un anno di rasatura, a tutti, e a me in specie, i capelli erano ricresciuti curiosamente lisci e morbidi: a quel tempo i miei erano ancora molto corti, e Cesare sosteneva che gli ricordavano la pelliccia di coniglio. Ora «coniglio», anzi, «pelle di coniglio», nel gergo merceologico di cui Cesare è esperto, si dice appunto Lapé. Daniele invece, il barbuto e ispido e aggrondato Daniele, assetato di vendetta e di giustizia come un antico profeta, si chiamava Coralli: perché, diceva Cesare, se piovono coralline (perline di vetro) te le infili tutte.
– Bravo, Lapé, – mi disse: e mi spiegò il suo piano. Cesare è infatti un uomo dai folli propositi, ma li persegue poi con molto senso pratico. La gallina non se l’era sognata: dalla capanna, in direzione nord, aveva svagato un sentiero ben battuto, e quindi recente. Era probabile che conducesse a un villaggio: ora, se c’era un villaggio, c’erano anche le galline. Uscimmo all’aperto: era ormai quasi buio, e Cesare aveva ragione. Sul ciglio di una appena percettibile ondulazione del terreno, a forse due chilometri di distanza, fra tronco e tronco, si vedeva brillare un lumino. Così partimmo, inciampando in mezzo agli sterpi, inseguiti da sciami di voraci zanzare; portavamo con noi la sola merce di scambio di cui il nostro gruppo fosse risultato disposto a separarsi: i nostri sei piatti, comuni piatti di terraglia che i russi avevano a suo tempo distribuiti come casermaggio.
Camminavamo nel buio, attenti a non perdere il sentiero, e gridavamo a intervalli. Dal villaggio non rispondeva nessuno. Quando fummo a un centinaio di metri, Cesare si fermò, prese fiato, e gridò: – Ahò; a russacchiotti. Siamo amici. Italianski. Ce l’avreste una gallinella da vendere? – Questa volta la risposta venne: un lampo nel buio, un colpo secco, e il miagolio di una pallottola, qualche metro sopra alle nostre teste. Io mi coricai a terra, pianino per non rompere i piatti; ma Cesare era inferocito, e restò in piedi: – A li morté: ve l’ho detto che siamo amici. Figli di una buona donna, e fateci parlare. Una gallinella, vogliamo. Mica siamo banditi, mica siamo dòicce: italianski siamo!
Non ci furono altre fucilate, e già si intravvedevano profili umani sul ciglio dell’altura. Ci avvicinammo cautamente, Cesare avanti, che continuava il suo discorso persuasivo, e io dietro, pronto a buttarmi per terra un’altra volta.
Arrivammo finalmente al villaggio. Non erano più di cinque o sei case di legno intorno a una minuscola piazza, e su questa, ad attenderci, stava l’intera popolazione, una trentina di persone, in maggioranza contadine anziane, poi bimbi, cani, tutti in visibile allarme. Emergeva fra la piccola folla un gran vecchio barbuto, quello della fucilata: teneva ancora il moschetto a bilanc’arm.
Cesare considerava ormai esaurita la sua parte, che era quella strategica, e mi richiamò ai miei doveri. – Tocca a te, adesso. Cosa aspetti? Dài, spiegagli che siamo italiani, che non vogliamo far male a nessuno, e che vogliamo comperare una gallina da fare arrostire.
Quella gente ci considerava con curiosità diffidente. Sembrava si fossero persuasi che, quantunque vestiti come due evasi, non dovevamo essere pericolosi. Le vecchiette avevano smesso di schiamazzare, ed anche i cani si erano acquietati. Il vecchio col fucile ci rivolgeva delle domande che non capivamo: io di russo non so che un centinaio di parole, e nessuna di esse si attagliava alla situazione, ad eccezione di «italianski». Cosi ripetei «italianski» diverse volte, finché il vecchio non cominciò a sua volta a dire «italianski» a beneficio dei circostanti.
Intanto Cesare, più concreto, aveva cavato i piatti dal sacco, ne aveva disposto cinque bene in vista a terra come al mercato, e teneva il sesto in mano, dandogli stecche sull’orlo con l’unghia per far sentire che suonava giusto. Le contadine guardavano, divertite e incuriosite. – Tarelki, – disse una. – Tarelki, da! – risposi io, lieto di avere appreso il nome della merce che offrivamo: al che una di loro tese una mano esitante verso il piatto che Cesare andava mostrando.
– Eh, che ti credi? – disse questi, ritirandolo vivamente: – Mica li regaliamo -. E si rivolse a me inviperito: insomma, cosa aspettavo a chiedere la gallina in cambio? A cosa servivano i miei studi?
Ero molto imbarazzato. Il russo, dicono, è una lingua indoeuropea, e i polli dovevano essere noti ai nostri comuni progenitori in epoca certamente anteriore alla loro suddivisione nelle varie famiglie etniche moderne. «His fretus», vale a dire su questi bei fondamenti, provai a dire «pollo» e «uccello» in tutti i modi a me noti, ma non ottenni alcun risultato visibile.
Anche Cesare era perplesso. Cesare, nel suo intimo, non si era mai fatto pienamente capace che i tedeschi parlassero il tedesco, e i russi il russo, altro che per una stravagante malignità; era poi persuaso in cuor suo che solo per un raffinamento di questa stessa malignità essi pretendessero di non comprendere l’italiano. Malignità, o estrema e scandalosa ignoranza: aperta barbarie. Altre possibilità non c’erano. Perciò la sua perplessità andava rapidamente volgendosi in rabbia.
Borbottava e bestemmiava. Possibile che fosse tanto difficile capire cosa è una gallina, e che volevamo barattarla contro sei piatti? Una gallina, di quelle che vanno in giro beccando, razzolando e facendo «coccodé»: e senza molta fiducia, torvo e ingrugnato, si esibì in una pessima imitazione delle abitudini dei polli, accovacciandosi per terra, raspando con un piede e poi con l’altro, e beccando qua e là con la mano a cuneo. Tra una imprecazione e l’altra, faceva anche «coccodé»: ma, come è noto, questa interpretazione del verso gallinesco è altamente convenzionale; circola esclusivamente in Italia, e non ha corso altrove.
Perciò il risultato fu nullo. Ci guardavano con occhi attoniti, e certamente ci prendevano per matti. Perché, per quale scopo, eravamo arrivati dai confini della terra a fare misteriose buffonate sulla loro piazza? Ormai furibondo, Cesare si sforzò perfino di fare l’uovo, e intanto li insultava in modi fantasiosi, rendendo così anche più oscuro il senso della sua rappresentazione. Allo spettacolo improprio, il chiacchiericcio delle comari salì di un’ottava, e si trasformò in un brusio di vespaio disturbato. .
Quando vidi che una delle vecchiette si avvicinava al barbone, e gli parlava nervosamente guardando dalla nostra parte, mi resi conto che la situazione era compromessa. Feci rialzare Cesare dalle sue innaturali positure, lo calmai, e con lui mi avvicinai all’uomo. Gli dissi: – Prego, per favore, – e lo condussi vicino a una finestra, da cui la luce di una lanterna illuminava abbastanza bene un rettangolo di terreno. Qui, penosamente conscio di molti sguardi sospettosi, disegnai per terra una gallina, completa di tutti i suoi attributi, compreso un uovo a tergo per eccesso di specificazione. Poi mi rialzai e dissi: – Voi piatti. Noi mangiare.
Seguì una breve consultazione; poi scaturì dal capannello una vecchia dagli occhi scintillanti di gioia e di arguzia: fece due passi avanti, e con voce squillante pronunziò: – Kura! Kúritsa!
Era molto fiera e contenta di essere stata lei a risolvere l’enigma. Da tutte le parti esplosero risate e applausi, e voci « kúritsa, kúritsa!»: e anche noi battemmo le mani, presi dal gioco e dall’entusiasmo generale. La vecchina si inchinò, come una attrice al termine della sua parte; sparì e ricomparve dopo pochi minuti con una gallina in mano, già spennata. La fece dondolare burlescamente sotto il naso di Cesare, come controprova; e come vide che questi reagiva positivamente, allentò la presa, raccolse i piatti e se li portò via.
Cesare, che se ne intende perché a suo tempo teneva banchetto a Porta Portese, mi assicurò che la curizetta era abbastanza grassa, e valeva i nostri sei piatti; la riportammo in baracca, svegliammo i compagni che già si erano addormentati, riaccendemmo il fuoco, cucinammo il pollo e lo mangiammo in mano, perché i piatti non li avevamo più.