[Roberta Colombi, Ottocento stravagante. Umorismo, satira e parodia tra Risorgimento e Italia unita, Aracne, Roma 2011]
Roberta Colombi, ricercatrice presso l’Università di Roma3, si occupa questa volta del filone (fillideo) della letteratura italiana dell’Ottocento. In passato ha curato La Stratonica di Luca Assarino, libro di un personaggio eccentrico che avuto numerose noie con la giustizia del tempo, e Il principe ermafrodito di Ferrante Pallavicino, altro letterato che finì decapitato per aver scritto contro la Chiesa.
Questo nuovo libro – in occasione e forse in polemica con le celebrazioni dei centocinquant’anni – segue le tracce della satira e della parodia nell’Ottocento italiano portando alla nostra attenzione un discreto numero di testi del periodo immediatamente precedente all’unità e di quello successivo, da Nievo a Rajberti, a Ghislanzoni, Tarchetti e Dossi. Testi che propongono teorie e pratiche dell’umorismo e del comico, che si aprono alla cultura europea e riprendono Voltaire, Sterne e Jean Paul Richter.
Per gli anni Cinquanta e Sessanta Roberta Colombi sottolinea l’importanza dell’esperienza intellettuale milanese, vero e proprio laboratorio culturale aperto alle novità, e ricorda la funzione di impegno civile del “Crepuscolo” di Carlo Tenca (Tenca aveva anche proposto una “Collezione di Umoristi italiani” per l’editore Barbèra di Firenze) e de “L’Uomo di Pietra” di Cletto Arrighi (la testata trae il nome dal Pasquino milanese di corso Vittorio Emanuele, 13) giornale letterario-umoristico che fa guerra all’Austria con la penna, col doppio senso che sfugge alla censura.
Il modello formale di questa scrittura viene indagato alla luce del concetto di “linea serpentina” che Hogarth opponeva ai canoni della bellezza classica per rivalutare il quotidiano e il marginale, per proporre un nuovo punto di vista che guardi le cose da dentro e da fuori, come ritroveremo nell’interpretazione del doppio sguardo di Dossi che l’autrice propone nell’ultimo capitolo. Il modello di scrittura divagante, labirintico, a più registri, viene teorizzato in particolare dal Nievo delle lettere, in una delle quali egli confessa di voler «scrivere in verso, in prosa, in tragico, in comico, in sublime, in burlesco» (cit. p. 24), ma che ricompare come unità di intenti di questi scrittori che combattono la «letteratura letterata» (espressione di Ruggiero Bonghi, n. 14, p. 27).
Il lato teoretico di questo stile consiste nella connotazione seria del riso, nell’accostamento di riso e pianto, nella capacità di «ridere e piangere colla stessa leggerezza», come scrive De Sanctis (cit. p. 29), osservazione che Colombi ascrive all’eredità hegeliana, ma che risale a tutta la tradizione dello humour europeo. E per il contesto europeo l’autrice cita Baudelaire e Jean Paul Richter, nel quale coglie, seguendo almeno in parte la lettura di Eugenio Spedicato, la centralità del contrasto tra ideale e reale. Lo scrittore umoristico – conclude – sa condurre il lettore «negli spazi immaginari» e insieme «nella più cupa realtà», riesce a far «ridere e piangere e pensare», come scrive il recensore che, nel numero di settembre del 1858 de “L’Uomo di Pietra”, segnala con lo pseudonimo ‘Sorcio’ la collana Biblioteca delle stravaganze dell’editore Botta di Torino (cfr. p. 31).
GIOVANNI RAJBERTI
Colombi procede poi all’analisi dei singoli autori iniziando con gli scritti del «Medico-poeta» milanese Giovanni Rajberti, poeta dialettale e traduttore di Orazio in dialetto milanese, punito per le sue satire con il trasferimento dall’ospedale di Milano a quello di Monza. La Prefazione alle mie opere future (1838) segna il passaggio dal dialetto all’italiano, ma enuncia anche un programma di uso della lingua antipedantesco e antifiorentino, capace di prender colore dai dialetti, e introduce al tema del mascheramento delle opere successive. La prima maschera è quella de Il gatto (1845): uno scritto breve e leggero, elogio divertentissimo di questo animale filosofico e indifferente, che dai tetti guarda il mondo come il Giannozzo di Richter. La seconda è l’istruzione al saper vivere de L’arte di convitare (1850-’51), libro di casi pratici a tavola dell’amico Giorgio, grande metafora dei rapporti sociali e parodia a doppio senso, dove la filosofia «nuota come un peperone nell’aceto» (cit. p. 58). Infine Il viaggio di un ignorante (1857) a Parigi nel «sublime inferno» dell’esposizione universale e nelle sale di un Louvre ben dotato di divani e poltrone per dormire.
Ma la satira è a doppiosenso anche per questo scrittore, in cui «coesistono disincanto e resistenza» (p. 79) e che – come scrive egli stesso – «vive in bilico tra un’epoca che finisce male e un’altra che comincerà peggio»: muore infatti nel 1861, dopo due anni di paralisi che gli impediscono di parlare e di scrivere.
IPPOLITO NIEVO
Nell’interpretazione del pensiero di Ippolito Nievo Roberta Colombi si dichiara debitrice nei confronti del saggio di Giovanni Maffei su Nievo umorista (in Effetto Sterne. La narrazione umoristica in Italia da Foscolo a Pirandello, a cura di Giancarlo Mazzacurati, Nistri-Lischi, Pisa 1990). L’autrice delinea un percorso di approfondimento della retorica dell’umorismo a partire dalle Confessioni e dalle novelle rusticane – testi nei quali la critica e il disinganno si limitano al richiamo «a un mondo di valori e di cose perduti» (p. 106) – fino agli scritti giornalistici della fine degli anni Cinquanta e alla narrativa dell’ultimo periodo, in cui lo scarto tra apparenza e realtà approda a un «umorismo critico-ludico-fantastico» (p. 99). I richiami a Sterne, a Voltaire e a Leopardi si risolvono in una sperimentazione tematica e stilistica dal carattere «girovago, extravagante, umorale e allocutivo» (p. 90) che trova congeniale la scrittura giornalistica e raggiunge il punto più alto nell’ultima stagione, nella esilarante Storia critico-cronologica-filosofico-aneddottica della cravatta bianca del 1859 e nel racconto La storia filosofica dei secoli futuri, pubblicato ne “L’uomo di Pietra” nel 1860. In questa storia del futuro la prospettiva postuma permette non soltanto la valutazione critica sull’esito del nostro Risorgimento, ma anche una più ampia riflessione sul destino dell’uomo: il Messia Mayer, il papa della buona gente, promette lusinghe materiali piuttosto che elevazione morale, e il suo successore, Adolfo Kurr, benefica il genere umano con la distruzione dei libri. Un’unica speranza rimane a Nievo: che la sua opera sia risparmiata a dimostrazione del suo carattere veritiero e profetico.
ANTONIO GHISLANZONI
Con Antonio Ghislanzoni siamo all’interno della Scapigliatura (n. 4, p. 109): prima attore comico e cantante lirico, poi giornalista, scrittore di libretti d’opera, narratore bozzettistico, fondatote della “Rivista minima” nel 1865. L’autrice ci presenta in particolare due opere: Memorie di un gatto (1857) e Un suicidio a fior d’acqua (1864). Il primo romanzo – che prende a modello il Gatto di Rajberti – ha questa volta come protagonista un gatto-scrittore che racconta, da luoghi nascosti – sotto il tavolo del pranzo di nozze, nella camera degli sposi, sotto le coltri del letto della signora vogliosa – con lo sguardo ingenuo ed estraneo l’«ipocrisia del secolo» (cit. p. 130). Senza tenere troppo all’intreccio il racconto si perde – come ogni libro umoristico – nelle numerosi digressioni e nelle trovate pungenti. Un solo esempio: l’uomo si distingue dalle bestie per la facoltà del riso ed è il solo animale che veramente faccia ridere.
Il secondo romanzo prospetta una contro-educazione di un giovane idealista e romantico, lettore delle Ultime lettere di Jacopo Ortis e incapace di affrontare la concretezza del vivere.
IGINO UGO TARCHETTI
Nel caso di Ugo Tarchetti Colombi, pur riconoscendo che la vena umoristica non abbia realizzato la sua produzione più alta, ne rivaluta il percorso non solo come tassello della sua storia dell’Ottocento stravagante, ma anche come testimonianza storica di una generazione di intellettuali divisi tra il sentimento morale e politico e lo scetticismo di fronte al nuovo corso degli eventi dell’Italia unita. Ne rivaluta anche alcuni risultati letterari, in particolare i due Racconti umoristici, pubblicati postumi da Salvatore Farina, direttore della “Rivista minima” dopo Ghislanzoni, che risalgono però al primo periodo dell’esperienza letteraria di Tarchetti. Il primo dei due romanzi, In cerca di morte, narra di un nobile inglese, il barone di Rosen, rovinato dal gioco e alla ricerca antieroica del suicidio. Duelli, incendi, inondazioni si trasformano in avventure che gli procurano riconoscimenti pubblici e onori, in un interessante rovesciamento della tradizione settecentesca del viaggio e del romanzo di prove, nel quale lo stesso atto può essere eroismo e assassinio (cfr. p. 173). Anche Re per ventiquattrore rivela il paradosso di un’antiutopia nella quale un aspirante despota, in un sogno-incubo, dimostra il capolgimento di valori nella contrapposizione tra natura e civiltà, mondo dei selvaggi e mondo civile, primitivismo e modernità, tribù dei fedeli Denti neri e tribù dei Denti bianchi dal riso satanico.
CARLO DOSSI
A conclusione di questa rassegna Roberta Colombi colloca Carlo Dossi come punto di arrivo e di maturazione del filone umoristico che risale al Didimo di Foscolo e che si prolungherà poi nella scrittura di Pirandello, Palazzeschi e Gadda. La figura di Dossi risulta qui ancorata a un contesto di riflessione teorica e di pratica letteraria sviluppatosi nell’area milanese che risente della delusione dei miti del Risorgimento, che si scontra con la tradizione letteraria e si apre al contesto culturale europeo (per i legami di Dossi con gli autori trattati precedentemente cfr. p. 194). La categoria proposta per la disanima della teoria dossiana dell’umorismo è nel titolo del capitolo: Il doppio sguardo, lo sguardo disincantato dello scrittore filosofo che mette in luce i contrasti della realtà: «il riso e il pianto insieme, la finitezza dell’uomo e la sua grandezza e superiorità, il dato reale e l’ideale» (p. 202). Su questo punto l’autrice mette in rilievo l’importanza dell’influsso di Richter che però forse alla grandezza dell’uomo e alla sua superiorità aveva già rinunciato, come del resto anche Dossi, il cui approdo scettico è ancor più radicale.
L’analisi delle opere chiarisce il senso della categoria proposta, mettendo in luce questo sguardo interno ed esterno dell’autore: nei romanzi e nel grande progetto dei Ritratti – commedia umana di ambientazione lombarda (Folco Portinari, cfr. n. 49, p. 212) – il doppio si rivela nel contrasto tra apparenza e verità, tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere mediante espedienti di straniamento, abbassamento e rovesciamento. Il meccanismo parodico coinvolge il narratore e la stessa forma del romanzo; la misantropia dei ritratti e l’insofferenza verso i letterati non dimentica l’autore stesso: il colore dei ritratti – scrive Dossi – è «il nero – un gran malumore contro gli individui di quella razza alla quale pur io ho il disonore di appartenere» (cit. p. 212). Infine, ne Il Regno dei cieli e ne La Colonia felice il doppio è nell’accostamento dell’utopia, dell’illusione con la disillusione: «c’è la favola e la sua negazione» (218).