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il sublime rovesciato: comico umorismo e affini

Copertina Numero 04

 aprile 2012

Saggi e rassegne

Rosanna Oliveri

Candidamente: un invito alla lettura di Voltaire

Il dualismo cartesiano, oltre a offrire alla conoscenza scientifica una base solida e oggettiva su cui fondarsi, liberava anche la sfera morale da ogni tentativo di comprensione e quindi di giudizio umano. La res cogitans veniva lasciata a Dio, a noi restava la res extensa spogliata da ogni spiritualismo e di trascendenza. Con questo atto di rinuncia nasce il metodo scientifico moderno.

Non tutti erano d’accordo però ad accettare questa dolorosa spaccatura per far posto a un mondo dove ogni evento accadeva in virtù di una rigida catena di causa-effetto necessaria. Il filosofo tedesco Leibniz era tra questi. Egli non si rassegnava a questa dolorosa spaccatura tra mente e materia, tra la nostra anima e il nostro corpo.

Ma raccontiamo prima un po’ della sua vita. Nel corso della sua carriera diplomatica gli capitò di dover andare a Parigi per dissuadere Luigi XIV a muovere guerra contro l’Olanda e a dirigersi piuttosto verso l’Egitto, terra affascinante, misteriosa, ricca di cultura e non solo. La sua missione non ebbe successo e fu guerra tra Francia e Olanda, ma il filosofo tedesco ottenne almeno la possibilità di restare a Parigi, ambiente pullulante di moltissimi cartesiani.

Il pensiero cartesiano infatti era molto ben visto da quelle parti e ben si addiceva allo spirito dell’Illuminismo. Una volta libera dal metro di giudizio divino, la morale non si doveva più considerare assoluta, non era più possibile affermare che un’azione fosse assolutamente giusta o sbagliata. Gli ambienti parigini del Settecento frementi di movimenti illuministici con tanta voglia di libertinaggio, tolleranza e esaltazione della scienza non potevano desiderare di meglio.

Come già detto, Leibniz invece non si rassegnava a questa frattura e l’idea che esistesse un principio unificatore e che tutto fosse regolato da un unico principio crebbe in lui giorno dopo giorno.

Quando pubblicò Hypothesis physica infatti ammetteva ancora la diversità, tutta cartesiana, tra estensione e movimento e accettava che il mondo fosse costituito da atomi materiali e senza spirito. Con il tempo però si andò sempre più convincendo che la natura non poteva fare salti e che, per passare da uno stadio all’altro, essa doveva passare attraverso infiniti passaggi intermedi. Arrivato a questa conclusione, il filosofo iniziò a cercare dove si potesse manifestare questo principio di conservazione. Dapprima lo cercò nell’estensione e nel movimento, dato che erano gli elementi fondanti dell’universo fisico secondo Cartesio, ma poi concluse che la conclusione di quest’ultimo sull’immutabilità del movimento fosse fondamentalmente sbagliata perché ciò che rimane costante non è la quantità di movimento, ma la quantità di forza, o di azione motrice o forza viva, come la chiama lui spesso, ovvero la capacità di produrre un determinato effetto. Questa forza viva rappresenta, a dire di Leibniz, un principio metafisico più alto delle semplici proprietà meccaniche che possono servire a spiegare un fenomeno solo provvisoriamente, ma che non sono in alcun modo sufficienti a carpirne l’essenza. Egli infatti concluderà che «Il movimento rispetto ai fenomeni è una semplice relazione; la forza è la loro realtà» (Leibniz, Speciem dynamicum, in Scritti matematici, VI, p. 247).

Leibniz accettava la spiegazione cartesiana del mondo fisico solo in parte, come atto provvisorio in attesa di qualcosa di meglio. La goccia che fece traboccare il vaso, anzi le gocce – perché furono due, furono l’incontro con Spinoza e la pubblicazione del Dizionario storico e critico nel 1697 da parte di Bayle, in cui venivano elencati molti errori e debolezze della ragione nel corso corso della storia e si denunciava come assurda la volontà di comprendere il tutto da parte dell’uomo. In particolare per quanto riguarda il male, la libertà e la provvidenza, la sfera morale insomma, Bayle arrivava sempre alla stessa conclusione, ovvero che non è possibile da parte nostra, con la nostra razionalità di uomini, comprendere i disegni di Dio e tutto ciò che noi possiamo fare è accettare con umiltà la Sua volontà.

L’altra goccia fu appunto la conoscenza da parte di Leibniz di Spinoza durante un viaggio da Parigi a Hannover. L’idea che quest’ultimo concepisse gli individui in modo materiale riducendo l’azione morale a delle semplici leggi meccaniche e che non solo la res exstensa venisse considerata aspirituale e fredda, ma che venisse trattata alla stessa stregua anche la res cogitans, convinse Leibniz a prendere posizione pubblicamente sulla questione e fu così che decise di pubblicare il suo unico libro, il Saggio di Teodicea.

L’ordine che regolava il mondo non poteva essere freddamente geometrico, ma doveva essere prestabilito e armonico; bisognava passare da un mondo meccanicistico a uno contingente dove la categoria principale non fosse più la necessità ma la possibilità. Questo non è l’unico mondo che Dio poteva creare, ma fra tutti Egli scelse il migliore; e se poi non si può certo negare che esista il male, per esso si dovrà trovare una spiegazione, dal momento che esso è male solo in apparenza che si inquadra all’interno di un’armonia prestabilita tesa verso un fine conosciuto da Dio.

La base metafisica alla dottrina leibniziana è da ritrovarsi nel suo breve saggio Monadologia, in cui introduce appunto le monadi come forme sostanziali dell’essere, una sorta di atomi spirituali, eterni, individuali e non scomponibili, che agirebbero individualmente ma sarebbero in grado di riflettere l’intero universo in base al principio d’armonia prestabilita. In questo modo, di fatto, il filosofo tedesco annulla di fatto il dualismo cartesiano riconducendo tutto a un unico aspetto spirituale ordinato in base a un finalismo divino.

Questo sarebbe quindi il migliore dei mondi possibili! Frase spesso citata, anche a sproposito, per definire il pensiero di Leibniz, che venne fatto spesso oggetto di scherno dai suoi contemporanei. In particolare Voltaire parodiò questo ottimismo leibniziano in un suo racconto satirico del 1759 intitolato Candido, o l’ottimismo, in cui un giovane ingenuo dal nome appunto Candido vive in un castello in modo da non aver nessun contatto con il mondo reale e viene istruito dal suo insegnante Pangloss, che rappresenta una caricatura del filosofo tedesco. Il nome del maestro prende spunto dal tentativo appunto di Leibniz di creare un linguaggio universale basato su elementi comuni a tutte le lingue (la ricerca non ebbe buon esito, ma venne ripresa in seguito da molti altri, tra cui ricordiamo Peano che con la sua scuola cercò di costituire un linguaggio universale rappresentato dalla matematica).

La costruzione di un linguaggio universale sarebbe stato molto importante per il filosofo tedesco e avrebbe permesso l’unificazione del sapere attraverso un sistema simbolico di cui egli si faceva promotore. Ciò che desiderava era infatti presentare la lingua del pensiero umano, in cui i concetti fondamentali, comuni a tutti gli esseri umani, sarebbero stati rappresentati da simboli che, una volta combinati, avrebbero dato vita ai concetti più complessi. Questo bisogno di unità si riflette anche nella sua posizione politica, nel suo progetto di conciliare la Chiesa cattolica con quella protestante e in quello di organizzare una specie di Repubblica delle scienze in Europa alla quale partecipassero tutti gli stati d’Europa attraverso le Accademie Nazionali. Progetti ambiziosi, forse troppo avanti per il tempo.

Tornando al Candido, vediamo che questo è un racconto satirico composto da trenta piccoli capitoli che narrano una serie disgrazie. La situazione iniziale è quanto mai felice, troviamo Candido, la madamigella Cunegonda, Pangloss, maestro “metafisico – teologo – cosmoscemologo”, che vivono felici e contenti nel castello di Thunder-ten-tronckh, fino a quando Cunegonda non vede Pangloss che abbraccia la cameriera trai i cespugli e decide di imitarlo facendo lo stesso con Candido. Questi ultimi però hanno sfortuna e vengono sorpresi dal padre della ragazza, il barone del castello, che caccia via malamente Candido. Una volta per strada, il ragazzo, patisce la fame e gli stenti e viene costretto a suon di bastonate ad arruolarsi con tanto di ceppi ai piedi, nell’esercito di Federico II tra i bulgari, dove partecipa suo malgrado alla battaglia tra Avari a Bulgari, ovvero tra Francesi e Prussiani, che è un vero massacro.

In un momento propizio Candido riesce a scappare e arriva in Olanda dove incontra un ugonotto fanatico e un anabattista propenso ad aiutarlo. Girando per le strade a un certo punto si imbatte in un povero pezzente che suscita la sua compassione. Osservando bene però si accorge che il pezzente altri non è che Pangloss, che racconta di essere sopravvissuto alla distruzione del castello causata dai Bulgari, i quali hanno violentato e ucciso Cunegonda, assassinato suo padre che tentava di difenderla, per poi passare a sua madre, la baronessa, fatta addirittura a pezzi.

Il benefattore li fa imbarcare e tra tutte le città in cui poteva portarli li conduce a Lisbona, luogo dove ci fu il tremendo terremoto che fece tanto discutere al tempo, a cui infatti Candido e il suo maestro assistono: 30.000 vittime! Una tempesta, nel frattempo, ha ucciso il buon anabattista mentre tutti i cattivi si salvano. L’Inquisizione ha bisogno di un capro espiatorio per rendere giustizia del terremoto e in modo arbitrario e assolutamente ingiusto prendono casualmente proprio Candido e Pangloss: il primo viene fustigato e il secondo impiccato. Naturalmente il sacrificio non serve a niente e lo stesso giorno si verifica un’altra forte scossa.

Una volta lasciato in pace, Candido viene avvicinato da una vecchia che lo sfama e lo conduce da Cunegonda, la quale non era morta, ma era stata venduta dai Bulgari a un ricco ebreo che la divideva con un inquisitore. Candido li uccide entrambi. I tre, la vecchia, Candido e Cunegonda, scappano con una nave verso Buenos Aires. Durante il viaggio la vecchia racconta la storia della sua vita, fatta da una serie lunghissima di violenze e disgrazie continue. Una volta giunti nel Nuovo Mondo, Cunegonda viene accolta dal governatore, mentre Candido deve scappare, per essere poi accolto dai Gesuiti, descritti come ingiusti e insensibili alle esigenze del popolo. Qui incontra il fratello di Cunegonda, anche lui sfuggito alla distruzione del castello e quando gli confida la sua intenzione di sposare la sorella; questi si arrabbia moltissimo e Candido è costretto a ucciderlo. Quest’ultimo inconveniente costringe il protagonista nuovamente alla fuga, durante la quale però viene catturato dagli Orecchioni, acerrimi nemici dei Gesuiti, che lo scambiano per uno di essi e lo vogliono cuocere in un pentolone. Egli riesce però a dimostrare di non essere un Gesuita e viene liberato.

Scampato a quest’altra disavventura, Candido approda a Eldorado, ovvero il regno della felicità dove non esistono soldi e nemmeno preti. A questo punto potrebbe decidere di essere felice e rimanere lì, invece no, decide di proseguire il suo cammino per cercare Cunegonda. Nel Nuovo Mondo incontra anche una persona di colore, mutilata, che gli racconta le ingiustizie sociali e il lusso degli Europei ai danni degli indigeni.

In un modo o nell’altro, Candido riesce a arrivare a Venezia dove conosce Martin, il filosofo più pessimista possibile, tutto il contrario di Pangloss, il quale sostiene che esista un principio manicheo, il bene e il male, tutto è estremamente diviso e il mondo materiale è abbandonato da Dio e in preda al diavolo. Decidono di dirigersi a Parigi, ma nel corso del viaggio Martin e Candido, sperimentano nuove disavventure: vengono derubati, assistono a battaglie cruente, conoscono preti fanatici amanti del gioco d’azzardo. Candido e Martin tornano a Venezia, dove incontrano Paquette, la cameriera amante di Pangloss, ora prostituta.

I due si imbarcano alla volta di Costantinopoli e sulla nave riconoscono due forzati: sono Pangloss che era sfuggito all’impiccagione e il fratello di Cunegonda. Candido li riscatta entrambi e una volta arrivati in Turchia trovano finalmente l’amata baronessina, per nulla giovane e bella, anzi brutta e molto invecchiata, la liberano e infine vanno tutti a vivere in una piccola fattoria.

Si conclude così con una sorta di Happy End la lunga serie di disgrazie, nel corso delle quali Pangloss/Leibniz trova sempre la forza di affermare che il male è necessario per realizzare il migliore dei mondi possibili. Il filosofo viene descritto fin da subito come un personaggio ridicolo con argomentazioni risibili, come per esempio quando afferma, all’inizio del racconto, che abbiamo due gambe fatte assolutamente in modo da essere calzate e un naso fatto apposta per gli occhiali. È chiaro che il fine che per Leibniz guida tutto l’essere del mondo, può essere individuato, secondo Voltaire, solo a posteriori e non a priori.

La conclusione che suggerisce il filosofo francese è quella di lasciare da parte ciò che la ragione non riesce a spiegare, ovvero la sfera morale e ascoltare umilmente la voce della propria coscienza.

L’eliminazione dell’elemento mistico-magico dalla natura porta alla rinuncia della comprensione della sfera morale e divina e ad assumere quindi un atteggiamento di maggiore tolleranza, come sostiene nel suo Dizionario, nella voce “bene (tutto è bene)”, dove attacca ancora una volta Leibniz che sembra essere il suo bersaglio preferito: “Che ne sarà allora del peccato originale?” gli fu obiettato. “Ne faremo quel che potremo”, rispondevano Leibniz e i suoi amici. Ma, in pubblico, egli scriveva che anche il peccato originale fa parte di necessità del migliore dei mondi possibili.

Leibniz si rendeva conto che non si poteva risponder nulla: ragion per cui scrisse grossi libri di cui lui stesso non capiva un bel niente. Negare che esista il male potrà esser detto per scherzo da un Lucullo, mentre, in ottima salute, se ne sta a tavola con gli amici e l’amante nel salone di Apollo. Ma basta che egli si affacci alla finestra, e vedrà degl’infelici; o che gli venga la febbre, e sarà tale lui stesso […].

Il sistema del “Tutto è bene” rappresenta l’autore dell’universa natura come un re potente e malefico il quale non si dà nessun pensiero che quattro o cinquecentomila uomini debban perire e gli altri trascinare la loro vita nella penuria e nelle lagrime purché egli possa venire a capo dei suoi disegni.

Nonché consolarci, la teoria del migliore dei mondi possibili è disperante per i filosofi che l’accolgono. Il problema del bene e del male resta, per coloro che cercano in buona fede di chiarirlo, un caos insondabile; per coloro che amano disputare è un gioco intellettuale: sono dei forzati che giocano con le loro catene. […]. Così noi, con le nostre sole forze, nulla sappiamo intorno alle cause del nostro destino. Mettiamo dunque alla fine di quasi tutti i capitoli della nostra metafisica le due lettere dei giudici romani, quando non riuscivano a intendere una causa: N. L.,non liquet”, la cosa non è chiara.

(E. Chiari, 1981, pp. 384-385).

Anche l’estremo dualismo che affida la res cogitans a Dio e di fatto abbandona la materia viene criticato dal filosofo francese, come si vede dal filosofo Martin del Candido che finisce per avere un atteggiamento eccessivamente pessimista.

Il modello a cui si ispira Voltaire è in realtà quello della società inglese, sia sul piano religioso – egli ammira la capacità degli inglesi di convivere con diverse fedi – sia su quello politico, il trionfo del liberalismo di Locke. Ma ciò che maggiormente affascina Voltaire della cultura inglese è proprio la cultura scientifica-filosofica, in cui predomina la concezione newtoniana della natura, strettamente meccanicistica e nello stesso tempo indagabile attraverso la sperimentazione e non come per Cartesio attraverso un metodo, un’astrazione razionale.

La fiducia nella scienza viene accompagnata da una forte critica alla tradizione che si traduce anche in critica all’antropocentrismo. Gli uomini hanno creduto di essere al centro dell’universo, al centro dei disegni divini, ma in realtà essi non sono che piccoli esseri pensanti, quasi insignificanti rispetto alla grandezza dell’universo. Voltaire lo spiega in modo sarcastico in un altro suo racconto, Micromega, dove il filosofo immagina un abitante di Sirio e uno di Saturno, che viaggiando per l’universo si accorgono per caso che sulla Terra esistono degli esseri piccolissimi che con loro grande sorpresa sono in grado di parlare e quindi di pensare, che vengono da essi definiti “piccoli atomi pensanti”. I due extraterrestri riescono a comunicare con gli esseri umani e conoscono le opinioni dei filosofi più importanti: in particolare di Cartesio scrive che egli sostiene che alla nascita abbiamo dentro di noi tutte le idee, ma che poi siamo condannati a ricercarle da capo nel corso della vita. Inoltre ci sono anche Malebranche, Locke e naturalmente Leibniz: quest’ultimo fa dei ragionamenti assurdi per i quali la sua anima sarebbe lo specchio del suo corpo, o viceversa, come le lancette di un orologio e l’orologio. Il ragionamento è confuso e complicato e non porta a nessuna conclusione utile.

L’atteggiamento giusto per Voltaire è quello di non arrogarsi il diritto di formulare facili giudizi con la convinzione di essere al centro dell’universo, di essere il fine principale di Dio, ma quello di accettare che la sola natura segua regole sperimentali e comprensibili, mentre sul piano morale dobbiamo imparare l’umiltà.

Bibliografia

CHIARI E., Voltaire e il concetto di filosofia nel pensiero moderno, G. D’Anna, Messina – Firenze, 1981

FERRO L., Sociologia dell’ironia. Comunicazione e rappresentazione della complessità moderna nei romanzi filosofici di Voltaire e nel cinema di Woody Allen, CLEUP, Milano 2009