Mi ero recato alla posta per spedire un certo plico. Stavo in coda a due sportelli e tentavo di reggere l’una e l’altra delle code, tenendomi un po’ distante e spostandomi nell’angolo di una casuale convergenza. Poi giunse una donna e fui costretto a scegliere. Scelsi la coda sbagliata e impiegai di più che nell’altra a svolgere la mia incombenza. Le code, come tutti sanno, sono il residuo mozzato della nostra animalità e restano nella nostra civiltà in ricordo dei bei tempi andati, quando bastava uno spintone per ottenere il risultato. Con l’impiegata però tutto andò bene, fu anche gentile. E quando incontriamo un impiegato gentile a uno sportello, ci sorprende un sentimento di gratitudine e giustizia ritrovata, così ci allontaniamo trasognati per più di un minuto. In effetti tutto si era svolto bene, tranne il piccolo incidente della coda, ampiamente compensato dal sorriso dell’impiegata per altro carina. Già per questo avrei dovuto sospettare.
Prima di uscire dovevo completare un indirizzo con il codice postale. Notai un banco dimesso nel fondo, con un libro bianco e penne legate con nastro bianco, anzi cordicelle di nylon filato, ciondolanti, si trattava dei miei codici e mi affrettai per raggiungerli quando una tizia, uscita dal nulla, mi precedette. Assomigliava a quella che era arrivata prima in coda, ma non era lei. La studiavo mentre consultava il libro che mi apparteneva almeno in diritto naturale poiché l’avevo visto prima io. Aveva un’età terribile, quella di cui si dice: non essere né vecchi né giovani. Era comunque piacente e vestita con una certa cura, con gli occhiali, con un’aria da maestrina zitella. Distrattamente, mentre aspettavo il mio turno per i codici postali, ostentando una certa impazienza dacchè lei si attardava, fantasticavo sulla sua sessualità. Intratteneva una corrispondenza erotica grazie al giornale dei cuori solitari? cercava il codice postale di una città del nord, famosa per il vizio? O invece accudiva con amore pietistico i pargoletti della scuola e tutta la sua vita era lì e nella corrispondenza ottocentesca con alcuni colleghi di una città del nord, peraltro famosa per il vizio? «La piccola Mariella, di cui sempre ti parlo, è raffreddata e il suo visino giocondo non m’allieta in queste giornate piovigginose e grigie…»
Come fosse, la tizia concluse la sua ricerca e se n’andò. Io trovai il numero che mi serviva e m’incamminai verso casa. Purtroppo dovevo prima passare dal salumiere, un certo Salomon, un nomen omen. Era un terribile impiccione e a tutti domandava di questo e di quello e parlava in continuazione, in una recita ininterrotta di cui la pedana era il palco e le vetrine del bancone la ribalta con le luci. Della cassa faceva un pulpito o un tribunale. Un salumiere salomonico. Io volevo solo due etti di mozzarella ed ero ben felice che il Salomon fosse distratto da una cliente con cui parlava di cani. Si trattava di infilare velocemente la mia richiesta in una pausa della conversazione. Lui avrebbe agito automaticamente e io avrei evitato domande insidiose, commenti sulla freschezza del prodotto e soprattutto quell’inquisitorio finale: – Nient’altro? – Lo odiavo per quell’oceano di persuasione occulta e di insinuazione sulla mia miseria che riusciva a distillare in due sole paroline. A ogni modo il mio piano aveva funzionato ed ero riuscito già a pagare, avendone in cambio solo ammiccamenti, mentre dal problema dei cani e di come sporcano si era passati per via naturale alle lamentele del condominio per l’incuria del giardino. Borbottando arrivederci mi accingevo alla porta quando questa si aprì ed entrò lei, la presunta maestrina della posta, di nuovo. Mi finsi assorto in certi barattoli mentre la osservavo. Il Salomon però aveva subito liquidato la cliente dei cani per seguire con comodo le mie manovre. Non voleva mollarmi e prima ancora di salutare la nuova cliente m’incalzò nel solito orrendo modo: – Nient’altro, signorino? – e peggio! Aveva aggiunto quel sarcastico “signorino”. Fui costretto alla fuga.
Mi appostai allora un po’ più avanti sotto il portico, al chiosco dei giornali. Questo segnava l’ultima tappa del mio raid giornaliero per il quartiere. Quell’incursione di un’oretta era la massima espressione di socialità che praticavo prima di ritirarmi nel mio guscio.
Era un buon giornalaio quello, molto fornito, per quanto scorbutico, come ogni giornalaio. I chioschisti in particolar modo sono un’eletta aristocrazia, una strafottente genia che odia assieme al cliente la propria mercanzia. Costoro, asserragliati nei loro bunker sfaccettati, simulano indifferenza, sfogliano riviste che non leggono: in realtà ci spiano e aspettano le nostre mosse, ci classificano in base ai giornali che scegliamo, ci detestano in ogni caso mentre sbattono su un vassoio di plastica un resto risibile accompagnato da un intraducibile bofonchio. Non ho mai udito un chioschista magnificare una sua merce: gli è estranea infatti e ributtante per la mostruosa varietà. Egli, ultimo ingranaggio nell’industria del sapere, la disprezza fermamente assieme ai suoi acquirenti.
Ultimamente il mio aveva preso il vizio delle enciclopedie a dispense, a cassette audio e video, a floppy-disk e cd-rom. Ne aveva di ogni genere, formato e colore, e io potevo agevolmente fingere interesse; orientarsi in quel caos mi concedeva tutto il tempo e l’alibi necessari, senza innervosirlo. Avevo intanto deciso una deroga all’ora quotidiana dedicata agli altri.
Finalmente la maestrina uscì dal negozio. Ero pronto a seguirla ovunque, ma non me ne dette il modo. Attraversò subito la strada ed entrò nel piccolo giardino della piazza, raggiunse il centro e si sedette in bella vista sulla panchina dell’aiuola, girata verso l’edicola, verso di me. Reggendo in mano «La vera storia di Hitler, in ottantacinque fascicoli, con 20 videocassette, le prime due gratis», la contemplavo stupefatto. Mi aspettava? Il giornalaio grugnì qualcosa e allora riposi la busta e mi diressi verso la panchina. Prima ancora di pensarci ero seduto accanto a lei che mi guardava tranquillamente. Io avevo in mente solo: sembra proprio una maestrina. Così glielo dissi. – Macché! – mi fece quella scrollando le spalle divertita. – Io sono la morte, la tua morte. Non mi riconosci?
In effetti avevo notato in lei una certa intimità, eccessiva. Ovviamente non glielo dissi e cercai di ridimensionare la cosa.
– Eh, via signorina. La morte è la morte. È una cosa grossa, o così dicono, perché io non né ho mai fatto la prova … ehm … nel senso che non mi è mai morto nessuno. Né parenti, né amici. Finora tutte le morti di cui ho avuto notizia sono state notizie, niente che mi abbia mai colpito nel profondo… grazie al cielo.
– Ceeerto – cinguettò lei. – Lo so! È per questo che non mi credi quando ti dico che sono la tua morte. Ma vedi, devi rassegnarti, è arrivato anche per te il tempo di conoscere la morte. Solo che, purtroppo, … dovrai cominciare dalla tua. – E ridacchiava.
Nonostante fosse un po’ fuori di cervello, svinata, come dicono da queste parti per l’effetto che produce il travaso del vino dalle botti, non mi riusciva antipatica e continuavo a trovarla abbastanza attraente. Ma già avevo deciso di non dedicarle molto altro tempo. Darle del tu, come del resto lei faceva, avrebbe accelerato il momento del congedo.
– Quello che dici è abbastanza interessante ma un po’ sfacciato. Indubbiamente è un modo per attirare l’attenzione, ma non è cortese. Anche volendo scambiare due parole con uno sconosciuto, non è cortese parlare della morte. Certamente tu hai notato il mio interesse, giù alla posta e dopo, ma questo non ti dà diritto di calpestarmi come un filo d’erba.
– Mi scuso… Signore. Avevo cercato solo di renderle la cosa meno pesante. Ma lei non vuole capirmi.
Ora mi dava del lei e sembrava invecchiata di dieci anni, ne avevo abbastanza. Mi alzai con un buongiorno a denti stretti. Ero già in fondo al giardino quando sentii il rumore dei suoi passi veloci. Pensavo di voltarmi indignato ma già quella mi tirava per la giacca e mi urlava come una furia: – Tu non puoi scappare come un verme! Tu non puoi più nulla! – e poi querula, – sei morto capisci, sei un morticino e devi fartene una ragione, sono qui per questo, te lo devo far presente. Sei morto. Da oggi, da prima della posta: sei ufficialmente morto!
Io tiravo dritto e quella appesa al braccio mi strattonava e mi sibilava le cose più assurde. Ero ormai giunto sotto casa, mi infilai nel portone ma lei niente, dietro, a pigolarmi qualcosa. Cercavo di ignorarla e già stavo aprendo la porta del mio appartamento quando sfortuna volle che si affacciasse la signora Grassetti, la dirimpettaia, con un annaffiatoio. Cercai allora di simulare indifferenza e poi commiserazione per quella strega che mi grinfiava il braccio. Occhi al cielo e mani allargate, mah, la scusi, ci scusi, mah. La Grassetti sfuggì il mio sguardo e il saluto, si avviò per le scale al mezzanino, dove teneva i fiori. Già mi salutava poco, ora avrei perso del tutto la sua stima, per quanto… Dovevo evitare la scenata e mi tirai la tipa dentro l’appartamento. Non appena entrati lei riprese più di prima.
– Dunque pensi di avermi fatto un gran favore, eh? Hai salvato le apparenze con questo grande sacrificio… vero? Farmi entrare. Bene. Sappi che io entro qui dentro di diritto, che tutto questo mi appartiene come sempre mi appartengono le cose dei morti, per un poco almeno. Dopo torneranno ai vivi, si disperderanno, ritroveranno un centro e un possesso. Ma ora, nella tua morte, hanno perso il centro e sono mie! Diceva questo con le gote infiammate e gli occhi lacrimanti e io la guardavo terrorizzato. Infatti, ora, dentro la mia casa e circondato dalle mie cose, tutto quello che la pazza affermava sembrava più vero, quasi vero. Da mesi ormai sentivo di abitare in un sepolcro, ma attribuivo la cosa al volgere della stagione. Tra poco la stagione avrebbe condotto inevitabilmente il meglio. È un fatto luminoso. L’inverno, colorando gli oggetti nei suoi toni di grigio e di bianco e di buio amplifica il sentimento del normale squallore, ma presto con il sole e l’aria tersa, i colori avrebbero brillato, riportando un po’ di vita anche nei muri stinti del mio alloggio.
Ma l’avverbio, quell’avverbio “inevitabilmente” mi suonava male. Perché “inevitabilmente” si alternano le stagioni? È una menzogna, o meglio: un inganno. Anche le stagioni cessano di alternarsi quando smettiamo di vivere. Oppure le stagioni sono inevitabili e la vita no? La morte, il sepolcro, e ciò che non è inevitabile, senza per questo divenire l’evitabile. Rimuginavo tali paradossi mentre la tipa ora mi guardava silenziosa. Poi, a sorpresa, scoppiò a piangere. E si soffiava il naso in un fazzolettino lilla, la mia morte.
– Insomma, singhiozzò, tu sei morto e io sono la tua morte… e tutto, – tirò su col naso, – tutto il mio compito sta nell’annunciarti questo – e mi guardò strabuzzando gli occhi gonfi, – e nel PERSUADER TI!
Io cavillai per prender tempo e cavarmi dall’impiccio.
– Ma scusa, tu sei la mia morte o piuttosto la messaggera, il nunzio diciamo, della mia morte…
– No! No! – mi interruppe lei compunta, – Io sono la tua morte, la tua propria personale morte.
– Aah – feci io, scettico. – Volevo ben dire. Ma… e come sarei morto? di cosa sarei morto?
– Eh! non lo so – disse con disinteresse, – forse d’infarto … Mi sembri vecchiotto! – E si mise a ridere all’improvviso.
Io la guardai, non riuscivo a crederci. Com’era entrata questa in casa mia? E poi perché vecchiotto? Io mi reputavo giovanile contando anche la ginnastica che praticavo in casa …
– Perché non andiamo al cinema? – disse allora lei, – c’è Woody Allen in quel film finto russo…
– Seee! – sbottai – Amore e guerra! guarda un po’ … L’ho visto almeno otto volte! quando balla con la morte e dice che è peggio del pollo fritto in quel tal posto.
– Siii… – gorgheggiò lei tutta contenta.
– Beh, non voglio andare al cinema. Senti, non voglio essere antipatico, ma perché non te ne vai?
Mi guardò di nuovo con la faccia triste.
– Oddio, pensai, ora ricomincerà a piangere. Invece no, si trattenne e mi osservò attentamente, tutta seria. – Vedi! – esclamò – stai cominciando a evaporare. Stai diventando trasparente. Tipico dei morti … È inutile che ti guardi le mani. Tu non puoi vederti, per te è tutto normale, come prima. Ma io ti vedo come sei veramente, vedo le cose attraverso di te.
Tirò un po’ indietro la testa e poi ridacchiò: – Si vede anche il quadro! – Poi si fece di nuovo seria.
– Se non credi a me perché non provi con qualcun altro. Intanto ricordati che la vicina non ti ha salutato, infatti non ti ha visto.
– Balle!
– Telefona a qualcuno se non mi credi…
Già! telefonare. Sembra semplice telefonare. Uno si mette, fa il numero e, superato un certo tot d’imprevisti come l’occupato, il non risponde, il ‘non è raggiungibile’, il ‘non è in casa se vuol richiamare più tardi’, ‘l’utente può avere il telefono staccato’, il cinque, la segreteria telefonica, ecc., finalmente aggancia il chiamato. E qui: panico! Che dirsi? E passi per i convenevoli e passi per gli appuntamenti o per le comunicazioni d’ufficio e di lavoro, ma quando occorre dirsi qualcosa di importante come si fa? Com’è possibile? All’amata, all’amico, gli affetti via cavo, con l’orecchio sudato sulla cornetta e le bollicine di saliva sul microfono. Ciao! io sono morto e te come ti va? É tanto che non ci sentiamo, tua moglie? sempre viva?
E questa che mi diceva telefona. E poi a chi? Erano mesi che non vedevo e non sentivo nessuno. Avrei potuto chiamare il servizio abbonati. Buona idea. Composi il numero. Una voce modulata elettronicamente e un numero di tre cifre mi pregarono di attendere in linea per parlare con l’operatore. A lungo. Con musica ad alto volume. Vivaldi. Povero Vivaldi, massacrato dalle centraline automatiche. Rinunciai. Meglio un contatto diretto. Al cinema allora. Aveva ragione lei: – Senti, andiamo al cinema. Forse è meglio per tutti e due.
Lei, la morte, mi chiese del bagno e andò a ricomporsi. Ci impiegò troppo, come tutte le donne. Rimuginai a lungo su cosa possono fare le donne in bagno. Acqua che scorreva. Colpetti. Ziiiiip. Quando uscì non mi sembrò molto migliorata ma lei sembrava soddisfatta. Aveva il fard sulle guance, rosso mattone, strano sulla pelle olivastra. Finalmente uscimmo di casa.
Si erano fatte le nove di sera e in giro non c’era quasi nessuno. Erano tutti a cena, il popolo. Nel quartiere tranquillo si sentivano i televisori al primo piano, il ciottolare di stoviglie e quasi lo sganasciarsi di mascelle. La signora Grassetti e il marito e le figliole, pasciutelli tutti. – E poi dice che sono morto, pensai, saranno vivi loro, questi tonni in scatole condominiali, con l’olio, senz’olio in acquetta bavosa, con piselli a volte.
Andammo invece a vedere il Noto Successo di Taldeitali, con Tizia e Caio nei ruoli principali. Cinque stelle, pareva inoltre che fosse bello. L’Odeon sta dall’altra parte della città così prendemmo la metro. Un bel posticino pieno di gente vivace. Non fosse stato per la sensazione, soggettiva a piacere, di essere vivo, tutti questi passeggeri seduti o in piedi, accasciati, impalati, distratti, assorti, addormentati, tutti comunque altrove, mi avrebbero confermato la tesi della ragazza. Niente come la metro infatti ci ricorda la compagnia di sardelle & scatolame, alla quale forzatamente apparteniamo. In queste viscere illuminate al neon, in questi villi del malessere urbano, nel volto amorfo che ci sta di fronte nello specchio/finestra buio screziato da lampi, nel pallido riflesso di un anziano triste, riconosciamo per l’istante il nostro vuoto durare. Che ne sarebbe di un numinoso eroe pagano precipitato in un vagone metropolitano? Un tale con la barbetta, Prometeo illividito, mi guardò senza vedermi. Ma non mi rassegnavo a dar ragione alla mia insolita compagna. Era solo la metro …
Ora, sarà che arrivammo tardi, il fatto è che all’ingresso del cinema entrammo nella più assoluta indifferenza della cassiera. Lei, la pseudo-morte, avanzò dritta tirandomi per la manica. La cassiera niente. Manco si degnò di alzare lo sguardo mentre aprivamo la porta. Niente omino strappabiglietti e niente maschera. Così entrammo e ci sedemmo. Questo naturalmente non dimostrava nulla. Era l’ultimo spettacolo, già cominciato, gli uscieri se n’erano andati e la cassiera faceva i conti.
Insomma sarà stato il buio, quella complicità da coppiette che impregna i cinema di periferia, l’odore di lei – aveva un buon profumo, lo ammetto – insomma, le misi un braccio intorno alle spalle. Niente di più! Beh, si girò e mi baciò. Non ricordo esattamente come, lì praticamente partii. Ricordo confusamente un taxi, lei avvinghiata che mi infilava la mano sotto la cinta, poi il portachiavi che mi si aprì al portone di casa, le chiavi in terra e lei che mi aiutava. Poi salimmo e non so come arrivammo subito nudi al letto.
Andammo avanti parecchio, poi crollai, forse lei avrebbe voluto ancora, non si capisce mai bene, comunque ero distrutto e felice, mi addormentai. Ma prima, ricordo bene, per un istante pensai: – Ecco, dormo stringendomi al culo della mia morte.
Il mattino dopo non c’era più. Un classico. Cercai un bigliettino, niente. Un indizio, nemmeno. Tutto era in ordine, tranne i miei vestiti gettati in terra.
Tentai di telefonare al mio amico Piero – non ci sentiamo da due anni, dopo una lite furiosa sul comunismo o il divino o qualcosa di simile – non c’era. Volevo raccontargli questa storia. Non l’ho mai più trovato, il suo telefono è sempre libero. Come quello di tutti del resto. Ogni tanto ci provo, telefono a uno a caso sull’elenco, squilla sempre a vuoto. Una volta ho provato per due giorni, davvero, ho chiamato un ministero per due giorni di seguito, martedì e mercoledì, tutti i dipartimenti, tutti i numeri sull’elenco. Non risponde nessuno.
Un periodo ho tentato con le segreterie telefoniche, sono indicate nell’elenco con un simboletto, certe poi si beccano a caso. Lasciavo messaggi di questo tipo: – Pronto. Sono io. C’è qualcuno? Lo so che ci siete, è statistico. Oggi saranno cinquanta, dico cinquanta! Lo so che fate finta. Ce l’ho anch’io la segreteria. E allora? Daai, e rispondi… Che ti frega? sono uno sconosciuto, e va beh! è un telefono. Mica ti posso fare del male. Guarda, al limite mi basta che alzi la cornetta e respiri, un soffio, un po’ di anima, pneuma … Non mi rispondono. Allora esco e vado in giro. Mi ignorano. Il salumiere, il giornalaio, mi ignorano.
La Grassetti continua a non salutarmi. Io sono beneducato ma le romperei la faccia.
[da Parole di carta, Marsilio, 2002 – Rivisto per Fillide 2014]